Arsenal: il ritorno

Mikel Arteta sta riabilitando i Gunners, e anche se stesso, con una squadra giovane, spettacolare, vincente.

Nella primavera del 2013 i Philadelphia 76ers affidarono a Sam Hinkie la ricostruzione tecnica di una franchigia in disfacimento. Era un percorso lungo e difficile che venne ben presto identificato con la locuzione Trust the Process, un’espressione di pop culture contemporanea, forse l’unica possibile per descrivere una progettualità sportiva a medio-lungo termine che andasse oltre la necessità del risultato a tutti i costi, del tutto e subito imposto dai ritmi ipercompetitivi dello sport agonistico dell’era contemporanea. Joel Embiid, terza scelta assoluta al Draft 2014 e oggi stella dei Sixers che si giocano il primato della Eastern Conference con i Miami Heat e i Milwaukee Bucks, col tempo è diventato l’uomo simbolo di quella rivoluzione. E ha fatto di Trust the Process un hashtag di riferimento sui principali social network, fino a trasformarlo in una sorta di brand trasversale. Nel 2022 scrivere #trusttheprocess su Twitter significa dichiarare un’appartenenza: non solo alla squadra di Philadelphia, ma anche al gruppo di chi ha pazienza e fiducia nel futuro, di chi crede che le sconfitte di oggi possano diventare la base delle vittorie di domani, di chi predica e appoggia una visione prospettica dello sport che si oppone ai valori attraverso cui siamo abituati a filtrare e raccontare l’andamento di partite, competizioni, stagioni.

Joel Embiid è camerunese (è nato a Yaoundé nel 1994), parla fluentemente francese ed è un grande appassionato di calcio. Nel 2018, in occasione della partita di regular season tra Sixers e Celtics disputata all’O2 Arena di Londra, rivelò a Sports Illustrated di essere tifoso dell’Arsenal perché «i francesi mi sono sempre piaciuti e loro hanno sempre avuto un sacco di giocatori francesi». Lo scorso 24 febbraio, inoltre, il centro dei Sixers ha celebrato con questo tweet la vittoria dei Gunners contro il Wolverhampton.

C’è dunque una certa prossimità tra l’Arsenal e i concetti e le persone che sono alla base del concetto Trust the Process. Ma questa affinità va decisamente oltre, si proietta e si legge nella realtà: secondo Phil Dawkes della BBC, Trust the Process «è diventato quanto di più simile a un mantra, per la squadra di Arteta». Lo stesso tecnico spagnolo ha utilizzato l’espressione per la prima volta nel giugno del 2020, subito dopo la vittoria in extremis contro lo Sheffield United nei quarti di finale della FA Cup – un torneo che alla fine l’Arsenal avrebbe vinto dopo aver battuto Manchester City e Chelsea nella final four di Wembley. Qualche giorno fa, infine, il canale YouTube Arsenal Daily lo ha utilizzato come sottotitolo di un video con alcune delle migliori azioni dei Gunners, del cosiddetto “Arteta Ball”. Il cui apice è stato toccato con il gol di Lacazette nella gara giocata contro il Southampton a dicembre, una rete arrivata al termine di un’azione in cui il campo è stato risalito in nove passaggi e con il pallone toccato da otto giocatori.

Uno dei gol collettivi più bello dell’anno

Oggi l’Arsenal è riuscita a diventare una delle realtà più solide e continue del campionato dietro l’inavvicinabile duopolio costituito da City e Liverpool. E l’ha fatto nonostante il peggiore inizio di stagione dal 1954 – tre sconfitte nelle prime quattro gare di Premier League, zero gol fatti e ben 10 subiti, di cui cinque solo nella trasferta dell’Etihad Stadium contro la squadra di Guardiola. Con tre partite in meno rispetto al Manchester United e due rispetto al Chelsea, il quarto posto a quota 51 punti sembra essere la naturale conseguenza per una squadra che, come ha scritto Jonathan Liew sul Guardian, è «andata oltre l’impulso di azzerare e ricominciare non appena le cose hanno iniziato ad andare male», e pertanto ha adottato l’unica strategia sensata in questo momento storico del calcio inglese: «Continuare ad avere fede, perché quella che oggi sembra la soluzione più ovvia domani potrebbe non esserlo più. Queste non sono cose facili da dire nel calcio, eppure la storia di Arteta all’Arsenal suggerisce che si tratta dell’unico modo per costruire qualcosa che duri nel tempo». Perché non è solo una questione di risultati, piuttosto di come questi risultati siano arrivati e stiano finalmente arrivando, per di più alla fine di un decennio in cui i costi legati alla costruzione dell’Emirates Stadium avevano portato al progressivo ridimensionamento di una delle squadre più iconiche e rappresentative di inizio millennio.

Lo scorso 6 novembre Arteta si è raccontato in una lunga video-intervista con Amy Lawrence di The Athletic, in occasione delle prime 100 partite alla guida dell’Arsenal. Ne è venuto fuori un ritratto che va oltre le etichette da allievo prediletto di Guardiola, da decisionista, accentratore e maniaco del controllo, da manager che si pone in continuità con il progetto culturale e filosofico avviato da Arsène Wenger nel 1996. La situazione, al di là delle ovvie differenze legate al tempo e alla base di partenza, è molto diversa: se l’allenatore francese era stato chiamato a trasformare il boring Arsenal in un club attraente e suggestivo all’interno di un contesto/prodotto – la quasi neonata Premier League – che si stava aprendo all’Europa e al mondo, oggi il tecnico basco deve fare in modo che i Gunners tornino ad essere una realtà competitiva e credibile, affrancandosi da un retaggio – quello degli “Invincibili” – superato dal mondo, dal tempo, probabilmente persino dall’Arsenal stesso. «Mi piacerebbe», ha detto Arteta, «che le persone che oggi lavorano con me tornino qui tra qualche anno e ripensino a un’atmosfera stimolante, che ha cambiato il loro modo di pensare a come dovrebbe essere o dovrebbe lavorare una squadra o alle ragioni per cui nel calcio accadono determinate cose».

Una visione che, all’atto pratico, si è tradotta in un mercato finalmente funzionale – ad esempio l’acquisto in difesa è stato quello di Tomiyasu, e non quello del più appariscente e quotato Emerson Royal, passato poi al Tottenham – e nella scelta di fare a meno di alcuni giocatori che hanno rappresentato a vario titolo i fallimenti progettuali del recente passato – David Luiz, Aubameyang, Torreira, Willian e Kolasinac. Tutto in nome di quell’unità di intenti che, per Arteta, costituisce il primo passo di ogni ricostruzione che si rispetti: «Senza unità è impossibile raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati», ha detto il manager dell’Arsenal. «È il nostro modo di giocare, di trasmettere i nostri valori, di creare una connessione con i nostri tifosi. Tutti noi dobbiamo imparare a pensare allo stesso modo, a perseguire lo stesso scopo, senza che l’ego di qualcuno prevalga sugli altri. Questo è quello che intendo ottenere e intendo farlo molto velocemente».

Al termine dell’ultima partita contro il Leicester, vinta dai Gunners per 2-0, Arteta è apparso per la prima volta genuinamente contento di ciò che aveva visto sul campo, ben al di là del risultato finale. L’Arsenal aveva appena conquistato la quinta vittoria consecutiva  in campionato dopo un inizio di 2022 caratterizzato da tre sconfitte nelle prime cinque partite – tra cui quelle contro Nottingham Forest e Liverpool che hanno portato all’eliminazione da FA Cup e Coppa di Lega – eppure il tecnico ha preferito concentrarsi sull’idea del risultato non come fine ma come conseguenza di un benessere individuale e collettivo guadagnato attraverso il lavoro quotidiano: «È così che dovrebbe sempre essere. I giocatori devono godersi tutto questo, è lo scopo di ciò che fanno ogni giorno in allenamento. Ora si percepisce che si stanno davvero divertendo a giocare insieme e a esprimere la libertà che il loro talento gli concede». Un lavoro piscologico sull’accettazione di mezzi, limiti e potenzialità che costituisce la migliore spiegazione possibile delle strisce di risultati utili che, finora, hanno sempre permesso ai Gunners di ripartire dopo ogni battuta d’arresto, per quanto fragorosa – il 4-0 rimediato ad Anfield il 20 novembre – o inaspettata – le due sconfitte consecutive contro United e Everton a inizio dicembre.

Ben White, arrivato dal Brighton per 58 milioni di euro, è il giocatore più utilizzato da Arteta: 2.558 minuti in campo spalmati su 29 presenze, tutte da titolare (Richard Heathcote/Getty Images)

Per quello che riguarda gli aspetti di campo e della proposta di gioco, l’Arsenal è ancora una squadra in divenire nella misura in cui la qualità e la continuità della prestazione tende a risentire degli aspetti emotivi e umorali legati alla giovane età del gruppo squadra. I legati tecnici e tattici sono quelli tipici dell’allenatore che si è formato all’ombra dei dettami del juego de posición – il sistema di pressione nella metà campo avversaria, uno “sweeper keeper wannabe” come Aaron Ramsdale, la ricerca dell’ampiezza con il 3-2-5 in fase di possesso, la centralità di due esterni offensivi multidimensionali in grado di giocare anche dentro il campo – ma le soluzioni ricercate e proposte non sono così radicali come si potrebbe pensare, o almeno non ancora. Anzi, uno dei grandi meriti di Arteta in questa fase è stato quello di privilegiare, soprattutto nelle sfide contro le altre Big Six della Premier, un 4-2-3-1 malleabile e in grado di adattarsi alla caratteristiche dell’avversario. E se contro sistemi offensivamente complessi e iper-sviluppati – come quelli di City e Liverpool – l’efficacia è ancora molto relativa, le vittorie contro Tottenham, West Ham e Wolverhampton raccontano di una squadra ben più solida e concreta di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi dopo un 2020/21 che aveva imposto un necessario reset progettuale.

In questo senso la svolta più importante impressa da Arteta è stata la rinuncia al primato tecnico dei “LacaYang”, rendendo la squadra dipendente dalla dinamicità e dalla dimensione creativa di Saka, Martinelli e Smith Rowe; e se Aubameyang è stato prima privato della fascia di capitano e poi lasciato andare a Barcellona per mai chiariti problemi comportamentali, Lacazette ha dovuto imparare a sacrificare la propria capacità realizzativa e a reinventarsi regista offensivo – otto assist e 1,2 passaggi chiave di media a partita fin qui in stagione – pur di trovare spazio in un sistema che, tra qualche tempo, riuscirà probabilmente a fare a meno di un attaccante d’area di rigore. Nell’ultimo terzo di campo il gioco di Arteta è legato al rendimento e alla complementarietà del lavoro svolto dalle due ali: Saka è il classico esterno offensivo di nuova generazione elettrico e iper-cinetico, un generatore automatico di superiorità numerica e posizionale cui Arteta sta insegnando a non farsi limitare dal riferimento fisico della linea laterale; Martinelli, invece, è il giocatore di trama e ordito, chiamato ad associarsi con Smith Rowe o Odegaard per far progredire l’azione in verticale, occupando lo spazio alle spalle della linea di pressione.

In non possesso, poi, le corse all’indietro e la qualità delle letture preventive di Partey e del redivivo Xhaka risultano fondamentali per un collettivo che non è ancora riuscito ad assimilare del tutto modalità e tempistiche della riaggressione alta; in questo modo, considerando che l’Arsenal milita in un campionato che tende a esaltare ed evidenziare qualità e limiti dei difensori nell’uno contro uno in campo aperto, i calciatori di Arteta danno l’impressione di sapere difendere di squadra o, comunque, di poter arrivare a un livello tale per cui la compattezza del collettivo maschererà le carenze individuali. E questo al di là dell’effettivo numero di reti subite.

Un po’ di gol belli realizzati dall’Arsenal di Arteta: anche prima di questa stagione, tra le pieghe del gioco dei Gunners, si intravedeva qualcosa di positivo

Da quando è apparso chiaro che l’Arsenal avrebbe potuto contendere il quarto posto a Tottenham, Manchester United e West Ham, Arteta ha incentrato la sua dialettica sulla volatilità dei risultati e sul peso della storia. Vale a dire due concetti che hanno spesso generato quel cortocircuito narrativo per cui l’Arsenal post Wenger era chiamato a essere come quello di Wenger – almeno quello della fase “pre Emirates” – anche quando mancavano le condizioni tecniche, economiche, strutturali. «La nostra storia ci impone di trovarci dove ci troviamo in questo momento, anche se non abbiamo fatto ancora nulla e mancano diverse partite» ha detto Arteta alla BBC dopo la vittoria contro le Foxes; un’affermazione che somiglia tanto alle dichiarazioni preconfezionate degli allenatori di quelle squadre che stanno overperformando e che potrebbero crollare da un momento all’altro ma che, in realtà, nasconde la consapevolezza che i destini di questa stagione passano dalle partite contro Liverpool e Chelsea. Vale a dire l’ultimo e decisivo switch per credere definitivamente nel Process e fare in modo che l’Arsenal torni davvero a essere l’Arsenal. Anche senza Wenger e i giocatori francesi che tanto piacevano a Joel Embiid.