Per quasi due anni, mentre le cose per la Ferrari sembravano andare di male in peggio, le interviste post-gara di Mattia Binotto erano caratterizzate da un tormentone sommesso e laconico: «Dobbiamo capire perché le cose non sono andate come ci aspettavamo». A voler fare della facile ironia, si potrebbe dire che forse in questo inizio di 2022 finalmente sono riusciti a capirlo. In realtà, la vittoria di Charles Leclerc e la doppietta Ferrari nel gran premio di Bahrain – il primo dei 23 stagionali – non sono nate in seguito a una realizzazione improvvisa o a un intervento miracoloso calato dall’alto. Sono piuttosto il frutto di un lungo lavoro nel quale, probabilmente, hanno avuto grossa rilevanza proprio i (tanti) passi falsi compiuti dall’inizio del 2019 – ovvero dall’avvento di Binotto alla direzione sportiva – alla fine della stagione 2021, un lento processo di apprendimento e miglioramento dopo alcune annate caratterizzate da fallimenti imprevisti e continue ripartenze.
Entrato in Ferrari nel 1995 da stagista dopo il conseguimento di un master in ingegneria dell’autoveicolo presso il dipartimento di ingegneria “Enzo Ferrari” dell’università di Modena, Binotto partecipò – come ingegnere motorista – ai successi di Michael Schumacher fra il 1997 e il 2003 . Allora la Ferrari era presieduta da Luca Cordero di Montezemolo e la direzione sportiva era affidata a Jean Todt. Da lì partì la sua “scalata” all’interno della scuderia, fino a diventarne direttore tecnico nel 2016 quasi per scommessa, essendo singolare che un ruolo così delicato venisse affidato a qualcuno che non aveva mai progettato una vettura. Infine, a iniziò 2019, si ritrovò catapultato nel ruolo di direttore sportivo dopo il licenziamento di Maurizio Arrivabene – proprio per dissidi con lo stesso Binotto, almeno secondo le voci dell’epoca.
Un ruolo solitamente ricoperto da manager – anche non necessariamente legati alla F1, come nel caso di Flavio Briatore – che prevede rapporti costanti con stampa, sponsor, piloti, ingegneri e meccanici, e che fu affidato a Binotto con l’intento di ridare solidità alla squadra a partire da un nuovo progetto tecnico. Il 2019 iniziò però in salita, con una nuova coppia di piloti – quella costituita dal veterano Sebastian Vettel e dal promettente Charles Leclerc – ma anche con una vettura nata male, caratterizzata da gravi problemi di affidabilità già a partire dai primi test di Barcellona. Si chiuse poi con tre vittorie – due di Leclerc e una di Vettel – e il secondo posto nella classifica costruttori dietro l’imprendibile Mercedes, ma soprattutto con le polemiche legate a un presunto motore illegale utilizzato dalla Rossa nella seconda metà di stagione.
In particolare, dopo le vittorie nei GP di Italia e di Belgio, i rivali della Ferrari protestarono per una presunta irregolarità nell’utilizzo del carburante che avrebbe permesso alla Rossa di ottenere cavalli aggiuntivi, e dunque di raggiungere maggiore velocità in rettilineo. Il regolamento prevedeva un quantitativo massimo di benzina iniettabile nel motore per ogni istante di tempo, proporzionale al regime di rotazione, che veniva controllato da un flussimetro. Secondo quanto emerso in seguito, la Ferrari era riuscita a raggirare il sistema, garantendo alle vetture un boost di potenza aggiuntiva fra una verifica da parte del sensore e l’altra. Dopo aver effettuato controlli a campione su varie scuderie in vari gran premi, la Federazione non riuscì a rilevare nulla di effettivamente illegale, ma emanò nuove direttive tecniche per il 2020, portando a due il numero dei sensori per escludere del tutto la possibilità di questa possibile pratica.
«Se la Federazione ci ha mai trovato irregolari? La risposta è semplice, ed è no», avrebbe affermato in seguito Binotto, in una delle sue rare alzate di voce pubbliche, ammettendo di aver sfruttato comunque alcune zone grigie del regolamento. «Se fossimo stati irregolari, saremmo stati squalificati. E dico di più: la FIA ci ha controllato per diverse gare per accertarsi che fosse tutto in regola. Non ha mai trovato irregolarità». Un accordo fra la Ferrari e la FIA in merito a tale vicenda – rimasto segreto per volontà della scuderia – è comunque stato confermato da più parti nei mesi successivi, con la sensazione generale di una “vittoria” messa a segno da Binotto, che avrebbe passato informazioni tecniche fondamentali alla Federazione in cambio di rassicurazioni future.
Nonostante questo, all’inizio del 2020, erano molte le voci autorevoli che sembravano non convinte del suo ruolo in Ferrari. «Binotto è un ingegnere, non un leader» sentenziò per esempio Bernie Ecclestone, ex proprietario della Formula 1. «In Ferrari hanno bisogno di qualcuno che possa far capire alle persone che quando dici qualcosa, quel qualcosa succede veramente.» A fargli eco fu Colin Kolles, ex direttore sportivo di Spyker e Hispania: «Binotto è un grande ingegnere, ma non è adatto al ruolo di team principal. […] Dà molto più peso ai numeri che all’aspetto emotivo. Da manager di un team questo non te lo puoi permettere, in quanto devi approfondire anche l’aspetto psicologico, e questo i tecnici non sono in grado di farlo».
Di parere opposto è sempre stato lo stesso Binotto, che ama definirsi una figura paterna, un tutor: «Credo che in questi anni la mia forza sia stata nella gestione di un gruppo. Che il tema sia tecnico o politico conta poco, l’importante è come organizzi una squadra, come la motivi. Più che altro mi sento una persona che può aiutare gli altri a far bene il proprio mestiere». Salvo poi ammettere a inizio 2020 che «la Formula 1 non è solo una sfida tecnica e sportiva, ma anche politica. Ed è lì che abbiamo mostrato una delle nostre debolezze nella scorsa stagione».
A partire dal contenzioso con la FIA, la Ferrari ha vissuto un calvario lungo due anni: la scuderia del Cavallino Rampante aveva affidato le proprie speranze per il 2020 a un motore poi dichiarato inutilizzabile, attorno al quale aveva già preparato l’aerodinamica della nuova auto. E con il budget cap introdotto dai nuovi proprietari americani della Formula 1, le possibilità di recuperare sugli avversarsi erano ridotte al minimo. A questo si aggiunse anche l’esplosione della pandemia, che ritardò di un anno, dal 2021 al 2022, l’introduzione dei nuovi regolamenti tecnici pensati per riequilibrare le forze delle scuderie, congelando di fatto le auto da un anno all’altro.
Nel mezzo, in Ferrari c’è stato anche un cambio di organigramma arrivato a metà 2020 e preteso fortemente dallo stesso Binotto per «dare un segnale forte di discontinuità». In particolare, la scuderia abbandonò la struttura orizzontale che l’aveva caratterizzata negli ultimi anni – e che era stata imposta dal presidente Sergio Marchionne – per adottarne una più verticistica: in questo modo, secondo Binotto «si sarebbe alzata l’asticella delle responsabilità dei leader di ciascuna area» e sarebbero diminuiti i rischi di incomprensioni e dissensi fra i vari reparti. Questa trasformazione, sostanzialmente, permise a Binotto di delegare alcune responsabilità tecniche, pur riservandosi l’ultima parola su tutto.
In quel 2021 di transizione, la Ferrari ha continuato a lavorare in prospettiva futura, provando sulla vettura presente quello che poteva, a partire dalle componenti ibride del nuovo motore. Non c’è la matematica ad affermare che la Ferrari vista in Bahrain lo scorso weekend sarebbe stata così pronta anche un anno fa, ma probabilmente ci sarebbe andata molto vicino. La nuova F1-75 sembra essere veloce e affidabile, laddove le sue avversarie principali si sono dimostrate carenti in almeno una di queste due caratteristiche (la velocità per la Mercedes e l’affidabilità per la Red Bull). Questo è merito dei vertici della Ferrari, che non hanno ceduto alla tentazione di un nuovo azzeramento quando le cose andavano male, puntando invece su un rilancio a lungo termine. Ed è soprattutto merito di scelte estreme, non solo dal punto di vista dell’aerodinamica e della meccanica ma anche organizzative: non sono un caso i 1.300 pit-stop simulati prima di Natale dai meccanici della Ferrari, voluti dal team principal per colmare una delle lacune principali del 2021 (con effetti positivi ottenuti fin dalla prima gara, nella quale i cambi gomme della scuderia – più rapidi di quelli della Red Bull – hanno permesso per ben due volte a Leclerc di rimanere davanti a Verstappen all’uscita dalla pit-lane).
Forse per la prima volta da quando ricopre il ruolo di direttore sportivo della Rossa, negli ultimi mesi Binotto è riuscito a far funzionare tutto alla perfezione, dalla progettazione della F1-75 alla strategia del gran premio, passando per la comunicazione. Nel frattempo sembra aver iniziato a sentirsi più comodo nei panni del team principal, anche se sempre a modo suo. «Siamo stati criticati, ma in quei momenti bisogna fare da parafulmine e lasciare lavorare tranquilla la squadra», ha affermato subito dopo la vittoria in Bahrain. E non è un caso che a ritirare il trofeo per la scuderia sul podio ci sia andato lui, il parafulmine, in prima persona. A dimostrazione che questa, più che di ogni altro, è la Ferrari di Mattia Binotto.