Italia-Russia, l’unico spareggio felice

La neve di Mosca, Vieri, l'esordio di Buffon e il gol di Casiraghi a Napoli: con due partite all'italiana, gli Azzurri di Cesare Maldini conquistarono i Mondiali.

C’è una frase dell’Avvocato Agnelli che, nell’estate 1997, risultò piuttosto enigmatica al me dodicenne appassionato di calcio. Ricordo il punto interrogativo che mi si disegnò sulla fronte non appena la lessi, mi pare sul Televideo: «Ho parlato con Moggi e mi ha garantito che Vieri non è sul mercato. Non è neppure una questione di cifre, è come Brigitte Nielsen». Che c’entrava Brigitte Nielsen? La Juve apriva al calcio femminile? O era uno dei tanti paragoni annoiati con cui Agnelli amava épater le bourgeois, Bobo Vieri come Ivan Drago? L’allusione mi si chiarì qualche anno dopo, leggendo che in quei giorni un giornaletto francese aveva millantato un’offerta da un milione di dollari di uno sceicco arabo per una notte d’amore con l’attrice danese, e l’ironia zampillò incontrollata e fatale dal momento che tre giorni dopo, ovviamente, Moggi aveva venduto Vieri all’Atlético Madrid.

Sia pur notevole nella sua fisicità da prima punta scandinava, Brigitte Nielsen era il massimo a cui potevano aspirare all’epoca i sauditi, vista l’inaccessibilità delle squadre di Premier League e del resto d’Europa. Il centro del mondo, calcistico e non solo, eravamo noi: l’immagine sacra di Fabio Cannavaro e Paolo Maldini in scivolata unisona su Ronaldo il Fenomeno, più esaltante di qualsiasi scatto di scena del miglior fotoreporter sportivo, era vecchia appena di qualche mese, immortalata in uno splendido Italia-Brasile 3-3 del giugno 1997. Eppure, per la prima volta dopo quarant’anni, rischiavamo di non andare ai Mondiali. Mondiali di cui eravamo vice-campioni in carica, Mondiali che si sarebbero disputati a due passi da casa nostra, in Francia, oltretutto nella loro prima versione allargata a 32 squadre, frutto della crescente bulimia geopolitica della FIFA di Blatter. Possibile?

Avevamo peccato di prudenza, troppa persino per noi. La prudenza di Cesare Maldini, voluto un anno prima alla guida della Nazionale dal presidente federale Luciano Nizzola come vessillo di una Controriforma utile per ripulire le tracce lasciate dall’eretico quinquennio di Sacchi, tornatosene nottetempo da Berlusconi e ormai non più in grado di governare lo stress che gli stava divorando l’anima. Nel suo decennio alla guida dell’Under 21 Cesarone era stato un re dei corpo a corpo a eliminazione diretta, vincendo tre Europei di fila tutti di giustezza (memorabili le beffarde vittorie contro il collega francese Domenech), ma era come se non fosse stato avvertito che il regolamento era cambiato e i punti a vittoria erano diventati tre, dal momento che, dopo aver sbancato Wembley, per troppa accortezza c’eravamo accontentati dello 0-0 a Varsavia ed eravamo inciampati in un altro 0-0 in Georgia a settembre, nel periodo solitamente più faticoso per la Nazionale: lì il ct aveva trattato in malo modo Enrico Varriale, dandogli del “bassottino”, primo capitolo di una lunga serie di storie tese tra l’inviato RAI e gli allenatori di mezza Serie A.

E al dunque era arrivato l’ennesimo 0-0, all’Olimpico contro gli inglesi, una specie di Italia-Svizzera in cui eravamo stati incapaci di gestire la tensione e Maldini aveva esagerato con il coraggio, come spesso succede a chi normalmente non ne fa largo uso: Zola dietro Vieri e Inzaghi (costui aveva quaranta di febbre, ma Cesarone lo aveva ugualmente mandato allo sbaraglio per darla vinta ai giornalisti che lo invocavano da settimane) per un mesto nulla di fatto davanti a una tribuna vip popolata da tutto l’arco costituzionale, da Fini a Veltroni, da Storace a D’Alema, generosamente inquadrati dalle telecamere RAI a ogni pausa del gioco.

Italia-Inghilterra 0-0

I giorni dell’autunno 1997 furono estremamente tesi e penosi, non meno delle ore che stiamo attraversando come soldati buzzatiani a guardia della Fortezza Bastiani, nell’attesa di Italia-Macedonia del Nord. C’era la consapevolezza di avere una squadra fortissima, molto più dell’attuale, che però – al contrario dell’attuale – non vinceva niente da quindici anni e aveva l’anima appesantita dalle due devastanti sconfitte ai rigori contro Argentina e Brasile. Una mancata “generazione di fenomeni” a cui si andavano accostando Totti e Del Piero, per tacere degli Zola, dei Baggio e dei Mancini, in quei giorni tutti sacrificati da Cesare Maldini sull’altare del suo sistema di gioco, un abborracciato 5-3-2 che esaltava l’animus pugnandi dei nostri difensori – Maldini, Cannavaro, Costacurta, Ferrara – e preferiva affidare la fase offensiva ai carrozzatissimi Ravanelli, Casiraghi, Vieri. Quest’ultimo, in particolare, era la Grande Speranza Azzurra: una settimana prima aveva segnato in coppa UEFA contro il PAOK Salonicco quello che era e probabilmente rimarrà il gol più bello della carriera, uno straordinario tiraggiro ben prima che il termine trovasse cittadinanza sulla Treccani, che dimostra senza troppe menate di quali prodigi fosse capace il suo piede sinistro.

E qui il pathos montante ci impone di passare al presente storico, per spiegare di quali fantasmi ci riempiamo la testa sin dal giorno dopo Italia-Inghilterra, quando l’urna di Zurigo pullula dei resti dell’Est Europa che si è recentemente rifondata: Ucraina e Russia, Croazia e Jugoslavia, la rediviva Ungheria, più le insidiose Irlanda e Belgio. A detta di tutti, i peggiori sarebbero gli jugoslavi, tornati sul consesso internazionale dopo i tragici fatti di metà anni Novanta, con Mijatovic e Mihajlovic, Stojkovic e Savicevic. Ma esce la Russia, e siamo ben capaci di farci spaventare anche da lei: innanzitutto perché è la migliore per Ranking FIFA (nona), poi perché a Mosca l’Italia non solo non ha mai vinto ma nemmeno mai segnato, e avanzino gli spettri dello 0-0 con palo di Rizzitelli che ci sbatté fuori dagli Europei 1992, de profundis della gestione di Azeglio Vicini.

Da italiani non rinunciamo a nessuno dei vieti luoghi comuni sulla prudenza, il realismo, la temperanza e il basso profilo che è doveroso adottare quando il calcio diventa lotta per la sopravvivenza, che poi è il nostro terreno d’elezione. Siamo terrorizzati dalla Russia, Paese che in quegli anni è un porto di mare stile Vienna post-bellica del Terzo Uomo di Orson Welles: un purgatorio di corruzione, malavita e nascenti oligarchie, guerre tra bande agevolate dai provvedimenti ultra-liberisti del nuovo presidente Eltsin che ha aperto le frontiere e scatenato un tripudio di sponsorizzazioni selvagge, russe e straniere. Sulle maglie da calcio – impensabile fino a otto anni prima – compaiono addirittura i nomi di alcune banche. Gran parte dei giocatori migliori hanno colto l’occasione di arricchirsi espatriando e quasi tutti sono approdati in Italia, da Kolyvanov a Shalimov fino al russo-ucraino Kanchelskis che prima di essere acquistato dalla Fiorentina aveva fatto in tempo a diventare il primo calciatore post-sovietico della storia della Premier League. Il più temuto tra gli avversari è lui, ma è anche piuttosto malconcio perché un mese prima, in Inter-Fiorentina, uno spettacolare e rovinoso tackle di Taribo West gli ha disastrato una caviglia. L’episodio avrà una certa rilevanza nelle gelide vicende che il 29 ottobre 1997 vanno in scena in due atti nel vecchio stadio Dinamo.

La partita di andata è una delle dieci partite più didascaliche del particolare tipo di calcio di cui da sempre, secondo i luoghi comuni, si fa portavoce la Nazionale Italiana. Lei insieme a Olanda-Italia 0-0 (Euro 2000), Italia-Spagna 1-1 (Euro 2021), Italia-Nigeria 2-1 (USA 1994) e poche altre. A Mosca non subiamo la sofferenza ma la cerchiamo, incoraggiata dal meteo e dal campo fanghiglioso in cui è meglio riporre in fondo ai materassi qualunque velleità di imporre il gioco. Sotto la bufera spunta Bobo Vieri, gorilla nella neve, il nostro inviato a Mosca, a spedire il pallone arancione in rete dopo il lancio lungo di Albertini svirgolato dal difensore Zvejba. E inoltre, fedele alla regola del cinema italiano che impone sempre una linea comica anche nelle tragedie (sia pure a lieto fine), accade il manzoniano esordio in Nazionale di Gigi Buffon, al posto di un Pagliuca azzoppato proprio da quel Kanchelskis che non aveva ancora digerito l’entrataccia del compagno di club. La collisione rotula contro rotula sarà ancor più fatale per il russo, che non si riprenderà mai del tutto dall’infortunio.

Dunque entra Buffon, 19 anni, in braghine corte nella tormenta perché, dirà, «mi dà fastidio giocare coi pantaloni della tuta», ed è subito caldissimo in un riflesso felino su un tiro a colpo sicuro del futuro romanista Alenichev, il migliore dei russi. C’è ancora un po’ di retrivo pudore nel chiamarli russi invece che sovietici e inciampa un paio di volte persino Bruno Pizzul («Avanzano i difensori dell’Unione… della Russia»). Il pareggio, arrivato su autogol di Cannavaro, è salutato con ampi sorrisi, nella certezza incrollabile e un filo audace che in Italia, se volessimo, condurremmo senza problemi in porto lo 0-0. Cesarone non è uno sprovveduto.

Russia-Italia 1-1

È così che va. La partita al San Paolo è di sonante bruttezza, in una di quelle notti in cui solo vincere conta e l’Italia sa adempiere al compito con siberiano cinismo da professionista. Cesarone non deroga al suo 5-3-2 pesante come un film cecoslovacco con sottotitoli in tedesco e silenzia fin da principio la manovra dei russi, che già di loro non sono tutto questo carnevale di Rio. Non succede letteralmente nulla, tra i mormorii di preoccupazione del San Paolo che teme un’altra nottataccia stile Italia ’90, non troppo persuaso dalla nostra Maginot: ma la linea composta da Peruzzi, Maldini, Costacurta e Cannavaro è degna di un comitato di sicurezza al G8. Quando ne abbiamo l’occasione passiamo alla cassa, di nuovo in apertura di ripresa, di nuovo con lancio lungo di Albertini stavolta per il bisonte di scorta, Gigi Casiraghi (Vieri s’era stirato in Liga), che fa il suo dovere come deve fare un centravanti italiano nelle occasioni importanti.

L’1-0 così intenso e così italiano viene blindato fino al 90′ con Peruzzi costretto solo a un paio di interventi burocratici: la Francia è conquistata senza trionfalismi, anche perché in controluce si può già intuire di che morte moriremo al Mondiale. Un calcio troppo votato al preoccuparsi degli altri (l’altrismo, come scrisse Gianni Mura, in contrapposizione al noismo di Sacchi, che badava solo a sé stesso) per poter incidere su scala globale, con una grande fioritura di talenti in difesa e in attacco ma decisamente arida a centrocampo, dove Maldini cercherà in extremis il rattoppo convocando Di Biagio e Moriero, buonissimi giocatori a certe condizioni, mai fuoriclasse.

italia-Russia 1-0

Non fa niente, nella notte del 15 novembre 1997, quando l’Italia sembra il migliore dei mondi possibili. Gli Oasis hanno aperto a Bologna la tournée italiana: hanno guardato il primo tempo in camerino e poi, tra “Don’t Look Back In Anger” e “Don’t Go Away”, Noel Gallagher ha annunciato sul palco: «Pare che la vostra squadra abbia segnato». Al cinema è il primo weekend di L.A. Confidential e Donnie Brasco. Marco Pannella interrompe lo sciopero della sete ma annuncia di iniziare l’ennesimo sciopero della fame perché nessuno invita i Radicali ai talk-show. Vladimir Putin è il semplice vice-capo dell’Amministrazione Presidenziale, il braccio esecutivo di Boris Eltsin. Brigitte Nielsen non è sul mercato. In Serie A giocano Ronaldo Zidane Totti Mancini Maldini Weah Veron Buffon Baggio Batistuta Del Piero. E ai Mondiali ci andiamo, che te lo dico a fare.