Tammy Abraham sbuca dal nulla

L'attaccante della Roma gioca in maniera essenziale, ma questo non gli impedisce di essere letale e anche spettacolare sotto porta.

Per il modo e il tempo in cui è arrivato, dopo un solo minuto di gioco, il primo gol di Tammy Abraham contro la Lazio è entrato nella storia del derby di Roma. O meglio: è entrato in quella che è una galleria di momenti strani, un po’ goliardici e quindi indimenticabili del derby, soprattutto per il fatto che parliamo di una partita che vive anche in funzione del giorno dopo, del parossismo emotivo, dei bar, degli sfottò davanti al primo caffè del lunedì. Il tocco pelvico del centravanti, pur se appartenente a una dimensione diversa, è destinato a diventare un po’ come l’autogol di Negro nel 2001 – “Canteremo tutti insieme Paolo Negro gol, Negro gol, Negro gol, Paolo Negro gol!” divenne uno dei cori più amati in Curva Sud nell’anno del terzo scudetto giallorosso – o come la rete di Lulic nella finale di Coppa Italia del 2013 – “Il lavoro uccide! … pure Lulic!”, fu la scritta che comparve qualche giorno dopo su un muro bianco di viale Ippocrate.

Al di là sul fatto che sarà ricordato probabilmente per sempre, il gol di Abraham contro la Lazio racconta come e perché l’ex attaccante del Chelsea  stia facendo così bene nel campionato italiano, cioè in un contesto tattico e tecnico antitetico rispetto a quello di provenienza: grazie alla doppietta nel derby, Tammy è arrivato a quota 23 gol stagionali, di cui nove in undici partite del 2022. Quest’ultima cifra fa di Abraham il secondo attaccante più prolifico delle cinque leghe top in Europa nell’anno solare in corso. Davanti a lui, in questa particolare classifica, c’è solo Robert Lewandowski, autore di 12 reti in dieci partite.

Partire dai numeri per raccontare un attaccante nato nel 1997 e protagonista nel calcio del 2022 potrebbe sembrare una scelta facile, dopotutto siamo nell’epoca in cui dai centravanti di nuova generazione ci aspettiamo che sappiano fare anche altro, oltre che segnare. Il punto, però, è proprio questo: Tammy Abraham sembra davvero saper (e poter) solo segnare, sintetizzando nel momento ultimo della finalizzazione un’interpretazione del gioco diretta, immediata, minimale, in cui toccare il pallone una volta in meno equivale a realizzare un gol in più. Ad oggi, per realizzare i suoi 23 gol, Abraham ha impiegato 34 tocchi del pallone, 32 dei quali in area di rigore; inoltre, stando ai dati raccolti da Twenty3Sports relativi alle sole gare di Serie A, Abraham ha accumulato 15,46 expected goals, praticamente la stessa cifra di quelli reali (15), e ha scoccato ben 65 dei suoi 74 tiri complessivi dall’interno dell’area di rigore.

Scrivere di Abraham come di un attaccante d’area, quindi, non significa semplificare e banalizzare le sue qualità, piuttosto raccontare come un giocatore con le sue caratteristiche, così apparentemente superato dal mondo e dal tempo, riesca ad avere un impatto e un peso specifico tanto rilevante nonostante abbia delle lacune piuttosto evidenti: «Quando dite che Abraham è fantastico, io non sono d’accordo. So che può fare quello che ha fatto oggi e non solo con i gol, ma anche per come tiene palla. Da lui esigo tanto perché conosco il suo potenziale», ha detto Mourinho dopo il derby, riprendendo il discorso che aveva dominato la conferenza stampa precedente alla sfida interna con il Verona. In quell’occasione il tecnico portoghese disse che Abraham «sta facendo bene ma può fare meglio, anche perché la squadra ha bisogno che lui faccia meglio: è questa l’interazione di sempre». Il giorno dopo, contro l’Hellas, Abraham toccò appena 35 palloni, tirò in porta una sola volta e la Roma riuscì a evitare la sconfitta solo grazie ai guizzi estemporanei dei giovanissimi Volpato e Bove. Come se ogni vittoria dei giallorossi ormai dipendesse unicamente dal numero di occasioni che Abraham ha (o non ha) a disposizione nell’arco dei 90 minuti.

Se si dovesse associare ad Abraham un aggettivo, verticale sarebbe la scelta più ovvia, o comunque la più adatta al modo con cui l’inglese è abituato a muoversi e pensare in avanti, in quella che è la ricerca spasmodica di una giocata che gli permetta di arrivare in area il prima possibile. Si tratta di un dettaglio che si nota soprattutto in fase di risalita del campo: le difficoltà nel primo controllo e la capacità di assorbire il contatto contro i difensori che gli sono fisicamente superiori spingono Abraham a giocare di prima, spesso di tacco o d’esterno, purché l’azione progredisca verso la porta avversaria senza perdere tempo. Questo lo rende piuttosto prevedibile e arginabile se usato come pivot con compiti di regia e connessione tra i reparti, mentre è invece devastante quando è messo in condizione di attaccare la profondità in campo aperto o di muoversi sulla traccia interna alle spalle della linea difensiva come in occasione della rete realizzata contro il CSKA Sofia in Conference League:

Pura essenzialità

Ma è per come si muove, e per quello che fa in area di rigore, che Abraham va giudicato. È all’interno dei sedici metri che il centravanti della Roma esprime la sua superiorità rispetto ad altri attaccanti tecnicamente più dotati, abbracciando quella natura di “rabdomante del gol” che prima di lui apparteneva a centravanti ugualmente monodimensionali come Inzaghi, Trezeguet e Icardi. In una lunga intervista pubblicata sul Telegraph lo scorso novembre, l’ex Chelsea ha rivelato che Mourinho gli ha chiesto di «diventare un mostro» e di «dimostrare quella cattiveria e quella presenza mentale necessaria a infondere paura nei difensori»; un’iconografia cupa e ridondante, che sembra uscire direttamente dall’ultimo Batman di Matt Reeves, ma che costituisce la miglior spiegazione possibile della sua natura predatoria, della dinamica ancestrale che domina tutte quelle situazioni in cui Abraham sembra sempre trovarsi nella perfetta posizione per battere a rete, spesso a causa degli errori di marcatori preoccupati dalla sua presenza.

Guardare una compilation con tutti i gol di Abraham significa passare interi minuti a vederlo sbucare dal nulla per segnare in rovesciata, insaccare un numero imprecisato di tap-in con una parte indefinita del piede – come, ad esempio il tacco/esterno contro Udinese e Milan – colpire di testa in mezzo a quattro juventini in un punto in cui, fino a una frazione di secondo prima dell’impatto con la palla, non c’era nessuno; ma significa anche rendersi conto del perché un giocatore così contro-culturale abbia ancora un senso, soprattutto in una squadra come la Roma attuale, che fatica a creare con continuità le condizioni per esprimersi al meglio nell’arco di una partita e di una stagione e che quindi deve vivere sull’estemporaneità, sulla capacità dei protagonisti di insinuarsi nelle pieghe di contesti e momenti molto diversi tra loro.

La prossimità di Abraham con il calcio di Mourinho tuttavia va oltre il campo, oltre quel 4-2-3-1 aggressivo, dinamico, e iper-cinetico di cui costituisce complemento e completamento ideale. È una questione di visione, di fame, di ambizione, di voglia di dimostrare di appartenere a un calcio di alto livello che, in tempi e per motivi diversi, lo ha etichettato come “inadatto”. In un’intervista al Guardian di inizio ottobre Abraham ha raccontato dei momenti difficili vissuti al Chelsea a causa dell’incompatibilità con Tuchel e del coraggio che gli è servito per fare la scelta che poi gli ha svoltato la carriera: «L’opzione più semplice sarebbe stata quella di restare a fare panchina al Chelsea. Poi ho capito che dovevo mettermi alla prova. Certo, dovevo mantenere i nervi saldi, perché cambiare Paese è sempre una cosa coraggiosa da fare, ma oggi lo consiglierei ai giovani giocatori inglesi. È facile essere arrabbiato perché non giochi, per me è stato il contrario. Ho imparato a conoscere me stesso e penso che questo abbia rafforzato la mia mentalità».

Negli ultimi sedici metri, che possono essere definiti alternativamente come il suo territorio di caccia esclusivo o una rassicurante coperta di Linus, Abraham si trasforma, diventa un altro giocatore, riesce a trovare soluzione semplici a problemi complessi, a ovviare a quei limiti che improvvisamente si trasformano in risorse. Come contro il Venezia, quando riesce a “smaterializzarsi” – quindi a evitare che il centrale prenda posizione su di lui dopo aver stoppato di petto, spalle alla porta, un pallone alto e lento – per poi riapparire e calciare di sinistro al limite dell’area piccola, in caduta e in controtempo, anticipando qualsiasi movimento del portiere:

Strapotere fisico

In ogni caso sarebbe sbagliato pensare al calcio di Abraham come a un calcio “semplice”, dominato unicamente dalla casualità, dall’istinto, dall’improvvisazione pura e semplice. L’attaccante inglese è anche un giocatore tecnico, nella misura in cui riesce a esprimere questa tecnica nel fondamentale per lui più importante, il tiro in porta. La qualità e la pulizia del calcio di Abraham sono incredibili, per certi versi persino misteriose in considerazione della base di partenza e di una coordinazione non sempre all’altezza di una struttura fisica nevrile e tersicorea: che sia da fermo o in corsa, l’attaccante della Roma riesce a colpire il pallone con la parte del piede più adatta ad imprimere la forza e l’angolazione necessaria.

Nelle due reti fotocopia di Salerno e Bergamo è impressionante il modo in cui torce la caviglia destra al momento dell’impatto; in quella segnata al Lecce in Coppa Italia la capacità di creare separazione dal diretto marcatore per poi calciare in diagonale con il corpo posto parallelamente alla porta è degna del miglior Higuaín; nel freddo di Sofia l’hesitation dopo lo stop a centro area gli consente di guadagnare quella frazione di secondo necessaria a trovare lo spicchio di porta che voleva e che gli era stato chiuso dai due centrali avversari. Difficilmente troverete un gol di Abraham oggettivamente bello, altrettanto difficilmente ne troverete uno in cui la palla non venga calciata come quella specifica situazione richiede. Si può dire che per Abraham valga quel principio secondo cui calcia per fare gol; anzi, in questo caso, Abraham calcia sapendo già di fare gol. Perché pare che sappia fare solo quello anche se non è proprio così. Per ora basta e avanza.

Il secondo gol nel derby