Quanto è competitiva la Serie A?

Un campionato equilibrato ai vertici è sintomo di buona salute del nostro calcio? Un po' di riflessioni, tra lotta serrata nelle prime posizioni ed endemiche difficoltà strutturali.

Il processo al calcio italiano è partito la sera stessa dell’eliminazione contro la Macedonia del Nord. Le accuse che si sono inseguite nelle ore frenetiche allo shock più grande nella storia della Nazionale sono quelle che si ripetono a ogni gigantesco fallimento: movimento in crisi, giovani poco impiegati, stranieri ormai preponderanti. Molte (se non tutte) di queste affermazioni sono basate su pregiudizi, leitmotiv che ritornano ciclicamente, in buona parte slegati dal contesto storico. Negli ultimi anni, sul banco degli imputati si è aggiunto il campionato: lontano dai fasti degli anni Novanta, la Serie A di oggi sembra un torneo periferico, secondario.

Un po’ lo sottolineano le performance delle italiane in Europa, un terreno ostile da più di dieci anni a questa parte: da quando l’Inter, nel 2010, vinse la Champions. In seguito, il nulla: non sono mancati exploit isolati, come le due finali della Juventus in Champions League, ma la realtà è che il calcio italiano, a confronto con le migliori squadre del continente, è decisamente una spanna sotto. Anche in questa stagione il copione si è ripetuto, con zero italiane presenti tra le prime otto d’Europa e appena due superstiti nel resto del programma di coppe.

Le spie che si accendono sono molteplici: economiche, progettuali, tecniche. Di fatto il calcio italiano è condannato a un ritardo nei confronti dei top club internazionali, dovuto a strategie e pianificazioni sbagliate nel corso degli ultimi decenni. Mentre il calcio inglese ragionava in termini di sistema e club come Barcellona o Bayern delineavano una vera e propria filosofia societaria, il nostro calcio replicava modelli vecchi di anni e ormai non più attuabili. Scivolando nelle retrovie d’Europa e al tempo stesso facendo più fatica nel recuperare terreno: perché ormai a vincere sono i club più ricchi, e di questa ristrettissima élite le squadre italiane non fanno più parte (nell’ultimo report di Deloitte, nessun club italiano tra le prime otto d’Europa per fatturato, appena tre nelle prime venti).

Questo ci porta a considerare l’appeal del nostro campionato oggi. L’incasso da diritti televisivi spiega più di ogni altro dato quanto un torneo nazionale sa essere seducente presso il pubblico: secondo lo Uefa Benchmarking Report del 2019, l’Italia è soltanto al quarto posto tra i cinque campionati migliori d’Europa secondo questo criterio. Ogni club di Serie A, in media, riceve annualmente 64 milioni di euro, contro i 196 della Premier, i 79 della Liga e i 72 della Bundesliga. È chiaro che le miserie del calcio italiano a livello internazionale si ripercuotono negativamente sull’interesse nei confronti del campionato, soprattutto a livello estero. Quest’ultimo un ambito in cui l’Inghilterra negli ultimi anni ha fatto passi da gigante: nel triennio 2022-2025, per la prima volta, il valore dei diritti televisivi internazionali supererà quello nazionale (5,05 miliardi di sterline in tre anni contro i 5 in arrivo dalle tv inglesi, con un aumento del 30 per cento dei soldi da Oltremanica rispetto all’ultimo accordo). Manca la competitività internazionale, mancano i campioni, manca la formula giusta per fare della Serie A un prodotto nuovamente in grado di catalizzare l’attenzione oltre i nostri confini. Cosa ci resta? Ecco: un campionato avvincente come non succedeva da tempo: dopo 30 giornate, le prime quattro squadre raccolte in sette punti danno l’idea di un torneo dove può succedere di tutto da qui al suo epilogo. Nel weekend in cui si disputano nello stesso giorno Atalanta-Napoli e Juventus-Inter questo è ancora più vero: è dunque in quest’ottica che la Serie A potrebbe accampare meriti in più rispetto a campionati come quello spagnolo o quello tedesco, in pratica già archiviati.

Ma è pur vero che un campionato più aperto è indice di un campionato, nelle prime posizioni, meno competitivo: più invitati ci sono al ballo, meno stringenti sono i criteri di selezione. Molto è dipeso, e continua a dipendere, dal crollo improvviso dell’Inter, che nelle ultime sette partite ha vinto una sola volta: nel girone di ritorno i nerazzurri hanno collezionato 14 punti, il decimo score dell’intero campionato, una media punti di 1,4 a partita contro i 2,4 del girone di andata. Questo ridimensionamento ha fatto sì che il campionato si riaprisse per le inseguitrici, anche per quelle squadre, Juventus in primis, date per fuori dai giochi settimane fa.

L’Atalanta è una delle due squadre italiane ancora impegnate in Europa, candidata alla vittoria finale. Eppure in campionato è fuori dalla zona Champions League (Emilio Andreoli/Getty Images)

Si può dire, dunque, che il cammino delle battistrada di Serie A sia “normale”, qualcosa che si può rilevare anche guardando semplicemente i punti collezionati dal Milan capolista: 66 in 30 giornate. Una quota così bassa non si vedeva addirittura dalla stagione 2011/12, quando ancora i rossoneri, a questo punto della stagione, avevano dalla loro 64 punti. Dal 2013/14 in poi, alla trentesima di campionato le precedenti capoliste della Serie A avevano sempre totalizzato almeno settanta punti: la Juve 2013/14 e 2018/19 aveva addirittura scavallato la quota degli ottanta. L’Inter, lo scorso anno, aveva già 74 punti in cascina.

Potrebbe esserci l’obiezione secondo cui la quota punti non è un criterio affidabile: le medie punti delle capoliste in giro per l’Europa, da Psg a Real Madrid e Bayern, non sono molto difformi. Ma un conto è avere l’avversario più ravvicinato a nove, dodici punti, come nel caso di spagnoli e francesi, un altro un vantaggio più risicato: tre punti, come quello del Milan, oltretutto nemmeno distratto da impegni europei. Nonostante questo e un primato colto quasi all’improvviso, la squadra di Pioli non ha avuto certo un cammino da schiacciasassi nel girone di ritorno: la sconfitta con lo Spezia e i pareggi contro Salernitana e Udinese lasciano la chiara impressione che nella nostra Serie A manchi, al momento, un top club. Uno che possa arrivare a contendersi il trofeo europeo più ambito. Appunto.

È tutto da buttare? Certamente no. Se non altro abbiamo un campionato che tiene incollata la nostra attenzione. Ma non solo: se il livello delle squadre più importanti non si è alzato come richiedono gli standard continentali, rispetto a qualche anno fa la classe media del campionato italiano ha certamente fatto dei passi in avanti. L’Atalanta è soltanto la quinta forza del campionato, eppure è una delle accreditate principali al successo in Europa League insieme a Barcellona e Lipsia. Le romane non hanno mai saputo tracciare progetti coerenti e definiti, ma restano delle squadre che hanno saputo costruire, a intervalli regolari, risultati credibili. Progetti come Sassuolo, Fiorentina e Verona hanno colpito favorevolmente. Anche più giù in classifica, dove non arrivano le risorse, arrivano le idee, con realtà come Empoli e Spezia che hanno alzato il livello della proposta di gioco tra i club meno attrezzati economicamente.

Difficile aspettarsi nell’immediato un club italiano trionfare nella competizione europea più prestigiosa, nonché difficile aspettarsi un ciclo di vittorie come è stato quello della Juventus nell’ultimo decennio: le nostre squadre di vertice stanno ancora cercando di ritrovare una dimensione al top, e nel frattempo la conseguenza “involontaria” è quella di consegnarci un campionato più imprevedibile. Al tempo stesso, è inutile piangerci addosso: il nostro calcio, pur tra scivoloni e delusioni epocali, è ancora vivo. Della vitalità che sta scuotendo la classe media potrebbe beneficiarne anche la nobiltà del calcio italiano. Il viaggio è lungo e pieno di ostacoli. Nel frattempo, però, divertiamoci.