C’è anche il calcio nella fioritura culturale della Corea del Sud

Cinema, musica, serie tv, ma anche la Nazionale allenata da Paulo Bento. Che non giocherà un calcio offensivo e scintillante, ma sta crescendo a vista d'occhio.

Per parlare della Corea del Sud, si può partire da ciò che Giulia Pompili – giornalista del Foglio, una delle firme fra autorevoli fra quelle che si occupano dell’Asia orientale – scrive nel suo libro Sotto lo stesso cielo (Mondadori, 2021): con plastica nettezza, Pompili afferma che «La Repubblica di Corea è una delle principali potenze economiche dell’Asia (l’undicesima del mondo), ed è riuscita a costruirsi un’influenza culturale e politica anche grazie alla quinta colonna del soft power: K-drama, serie tv e cinema». A questo breve elenco vanno aggiunti altri settori che allargano lo spettro: musica pop, soap opera, e ovviamente il calcio. Che, a sud del 38° parallelo, sta diventando – con lenta ma inarrestabile progressione – un tassello fondamentale della celebre Hallyu (한류), meglio nota come Korean Wave, un complesso e variegato fenomeno socioculturale che ha permesso al paese di diventare uno degli epicentri della cultura pop a livello mondiale, abbandonando così il logoro e antiquato cliché in cui veniva confinata dai media occidentali solo quando ci si ricordava dell’infinito, pericoloso confronto con i temuti fratelli del Nord.

Nonostante la concorrenza, tra gli altri, del Taekwondo (arte marziale di origine coreana), del tiro con l’arco e del baseball (attività particolarmente amate all’ombra delle sette montagne di Seul), il calcio è al primo posto tra gli sport più popolari del paese. Un’indagine risalente al novembre 2019 dimostrava come addirittura il 22.7% della popolazione individuasse nel football –  축구, chuggu – la propria disciplina sportiva preferita. Al secondo posto, con il 20.6% delle preferenze, c’era il baseball.

La popolarità del calcio è sicuramente aumentata grazie alle reti e alle giocate di Son Heung-min, stella del Tottenham a cui i media britannici hanno cucito addosso un immaginari da nice guy. Ma va anche ricordato che, da circa mezzo secolo, lo sport per gentiluomini giocato da bestie – citando l’immortale Henry Blaha – è parte integrante della cultura del paese: Steve Price, giornalista del Guardian e di Forbes di stanza a Seul, racconta a Undici che «è sempre limitante associare la diffusione di una disciplina ai successi di un singolo atleta, soprattutto in una nazione come la COrea del Sud. Era già accaduto negli anni Duemila con Pak Se-ri, una delle migliori golfiste asiatiche di sempre, e oggi sta succedendo la stessa cosa con Son. Quando si parla di Estremo Oriente, si tende spesso ad un’eccessiva semplificazione da questo punto di vista».

Si potrebbe dire, dunque, che non c’è niente di nuovo sul fronte orientale – parafrasando il titolo del capolavoro di Erich Maria Remarque. Ma la verità è che la Nazionale sudcoreana è da tempo una delle migliori realtà espresse dall’AFC (acronimo di Asian Football Confederation): i Taeguk Warriors (nomignolo strettamente connesso al Tae-Geuk, simbolo della creazione di tutte le cose) sono la rappresentativa asiatica ad aver ottenuto più successi dal debutto in campo internazionale, risalente alle Olimpiadi del 1948, e nel 2002 sono arrivati a giocarsi la semifinale della Coppa del Mondo – prima e finora unica squadra non europea o americana a raggiungere questo traguardo.

Al di là di questa tradizione, c’è da dire che negli ultimi anni le cose sono cambiate: la rosa allenata da Paulo Bento, fine conoscitore della variegata realtà dell’Estremo Oriente, è infatti figlia delle trasformazioni del Paese, è lo specchio di un’epoca e l’emblema degli ambiziosi sogni calcistici di un’intera generazione, è un gruppo maturo composto in maggioranza da calciatori che si trovano nel loro prime. E che, dopo aver raccolto la giusta dose d’esperienza in campo continentale, sembrano essere finalmente pronti per esprimersi ad alto livello su tutti i palcoscenici. Se, nella prima metà del 1400, il sovrano Sejong il Grande – ricordato come líder máximo illuminato e moderno della longeva dinastia Chosun – ebbe il grande merito di donare un’identità al popolo coreano inventando l’hangul, un alfabeto autoctono che andò a sostituire il sistema di scrittura cinese, usato fino a quel momento dalle élite colte del Paese, oggi Bento sta facendo qualcosa di similare, almeno a livello calcistico: il ct portoghese sta infatti contribuendo, non senza fatica, alla costruzione di un’identità tecnico-tattica riconoscibile, fondata su un gioco prettamente attendista e guardingo.

Per la sua Corea, Bento (già ct del Portogallo dal 2010 al 2014) ha ideato un abito tattico che bada poco allo stile, ma è anche in continua evoluzione: nelle ultime cinque gare, infatti, i Taeguk Warriors sono scesi in campo disposti in quattro moduli diversi, tutti tesi a sfruttare le ripartenze rapide di Son Heung-min e Hwang Hee-chan (Wolverhampton), oltre che le geometrie di Lee Jae-sung (giocatore del Mainz) e In-beom Hwang (rientrato in patria dopo due stagioni al Rubin Kazan). Anche se tutte queste scelte sembrano discordare con l’immagine culturale affascinante e attraente che la Corea tenta di esportare in tutto per il mondo, è così che la Nazionale ha raggiunto gli obiettivi prefissati dalla Federazione. Vale a dire: qualificarsi alla fase finale del Mondiale, ma anche superare i rivali di sempre dell’Iran in un confronto diretto, un evento che non si verificava dal 2011. Sono successe entrambe le cose.

Gli highlights di Corea del Sud-Iran 2-0

Negli ultimi anni, le squadre di K-League impegnate in Asian Champions League (la massima competizione continentale) hanno cercato, con risultati alterni, di replicare il modello della Nazionale maggiore, di non utilizzare tattiche spregiudicate e votate esclusivamente all’attacco. Esempio lampante quello dei Pohang Steelers, nobile decaduta del calcio asiatico, finalista a sorpresa dell’ultima edizione dell’ACL. Il sistema di gioco della rosa allenata da Kim Gi-Dong (attualmente il secondo marcatore più anziano della storia della prima divisione sudcoreana) è sembrato finalizzato più ad evitare pericoli che ad esaltare il talento offensivo della rosa. «Mi diverto nel preparare le partite e poi nel vedere i miei giocatori eseguire alla perfezione ciò che abbiamo studiato nel corso della settimana. Difenderemo con onore i nostri colori», aveva dichiarato Kim a poche ore dalla finale, poi persa, contro il temibile Al-Hilal. Del resto, si sa, la bellezza sta negli occhi di chi guarda.

Inserita nel gruppo H dei Mondiali che si disputeranno in Qatar a partire dal prossimo 18 novembre, la Corea del Sud probabilmente sarà costretta a giocarsi il passaggio del turno nella sfida del 24 novembre contro l’Uruguay di Luis Suárez e Edinson Cavani. Il Portogallo di Cristiano Ronaldo sembra almeno un paio di gradini sopra i Taeguk Warriors, il Ghana sarà tutto da scoprire. La Celeste, invece, sta vivendo una fase di transizione e non facile pare il ricambio generazionale di una delle più gloriose compagini di calcio sudamericano e non solo. Quello del duello finale che non concede alternative possibili, è un concetto molto presente nella cultura non solo coreana, ma asiatica in generale: il famigerato Suneung (수능) in Sud Corea, il celebre Gaokao (高考) in Cina, entrambi temutissimi esami per accedere nelle migliori università del paese, sono fervidi esempi del focalizzare in una singola giornata i sacrifici e gli sforzi compiuti nel corso della propria esistenza. Eppure la speranza di andare avanti c’è: «Negli ultimi anni, la Nazionale ha ottenuto risultati sorprendenti contro le rappresentative dal Sud America. Con Paulo Bento alla guida sono arrivate tre vittorie, di cui una proprio contro l’Uruguay, un pareggio e una sola sconfitta. Contro il Brasile, tra l’altro. È evidente che il Commissario Tecnico sa come preparare le sfide contro avversarie provenienti da quell’angolo di mondo. La partita del 24 novembre è aperta a qualsiasi risultato», spiega ancora Steve Price.

La Corea del Sud ha chiuso il girone finale di qualificazione ai Mondiali 2022 con 23 punti conquistati in dieci partite, frutto di sette vittorie, due pareggi e una sconfitta; l’ultima fase finale di Coppa del Mondo a cui non ha partecipato è stata quella del 1982, da allora si è sempre qualificata (Chung Sung-Jun/Getty Images)

In una delle scene chiave di Minari (vincitore del Golden Globe 2021 come miglior film straniero), Jacob dice – con una certa arroganza – queste parole al giovane David, il vero protagonista del capolavoro del regista Lee Isaac Chung: «I coreani sanno usare la testa. Noi sappiamo usare il cervello». Nessuna sorpresa, quindi, se in un mondo interconnesso e in cui il calcio rappresenta ancora lo sport più seguito, la Repubblica di Corea stia investendo le proprie risorse per utilizzare il football come strumento di soft power, come agente persuasivo in grado di rispondere, in maniera efficace e pragmatica, alle esigenze del Governo Centrale. Dietro le esultanze di Son Heung-min, che imita in mondovisione la nuova coreografia dei BTS (la più popolare ed influente idol band odierna) c’è una strategia culturale che, nel breve termine, continuerà a dare enormi benefici alla causa politica di Seul. Da questo punto di vista, la Corea del Sud è un laboratorio a cielo aperto in cui si può osservare da vicino il sogno di una democrazia che, attraverso la musica, i film, le serie tv e il calcio va alla conquista delle grandi platee internazionali, dagli Oscar ai Grammy Awards, dalla Premier League ai Campionati Mondiali.