Lo 0-0 strappato – sarebbe più giusto dire conservato, ma vabbè – dal Manchester City al Wanda Metropolitano ha diversi significati, può essere guardato da molte prospettive, tutte differenti. La prima è ovviamente quella ideologica e tattica, quella per cui il risultato finale della doppia sfida risolve – anche solo temporaneamente – la giustapposizione tra Guardiola e Simeone, il confronto infinito e anche un po’ vuoto tra ricerca calcistica offensiva e difensiva, tra gioco estetico e gioco pragmatico, poi ognuno può apporre le etichette che vuole, dopotutto le opinioni sono gratuite e sacre, nel calcio e non solo. Un altro segnale importante arrivato da Madrid riguarda la maturità del Manchester City, una squadra che si è dimostrata capace di approcciare bene una partita lontanissima – per contenuti tattici, per richiesta di sforzo fisico, per carica emotiva – da quella giocata solo poche ore prima contro il Liverpool e di uscirne indenne, tutto senza rinunciare alla sua identità.
Ci sarebbero moltissime altre cose da dire sui singoli giocatori dei Citizens, sull’Atlético di Simeone, ovviamente su Pep Guardiola. Sono tutti argomenti polarizzanti, e allora forse vale la pena sceglierne uno, polarizzarsi. Oppure, più semplicemente, può essere interessante ragionare in modo costruttivo su un dato: grazie alla vittoria aggregata contro l’Atlético Madrid, Pep ha raggiunto per la nona volta la semifinale di Champions League; secondo la rilevazione di Opta, nessun allenatore della storia del calcio aveva mai centrato questo traguardo prima di lui. Non c’è motivo di dubitare della precisione di questa statistica.
Come è ovvio e anche giusto che sia, gli allenatori di calcio vengono giudicati per i risultati che riescono a conseguire. Nel caso di Guardiola, il fatto che non sia riuscito a vincere la Champions League lontano da Barcellona, che non ci riesca ormai dal 2011, ha avuto e ha un peso non indifferente, ha finito per inclinare un po’ verso il basso le valutazioni sul suo operato. Pep ci ha messo anche del suo, questo va detto: la tendenza a stravolgere troppo la sua squadra prima delle partite importanti – il famoso overthinking – è un fatto storicamente verificato, e molto probabilmente ha inciso anche sulla sconfitta contro il Chelsea nella finale del 2021. In ogni caso, però, ed è questo il nocciolo di quest’analisi, il dato sulle semifinali raggiunte non può essere ignorato. E non deve neanche essere travisato: la differenza tra una vittoria in Champions e un’eliminazione in semifinale sta in circa 300 minuti di calcio – vale a dire la somma del tempo di gioco di tre partite, recupero compreso – giocati bene oppure male. Per raggiungere una semifinale, invece, occorre conseguire risultati positivi per dieci gare tra fase a gironi e fase a eliminazione diretta, quindi per 900 minuti di gioco. E oltre.
Ecco, in virtù di tutto questo si può dire che i risultati europei di Guardiola siano eccezionali. La continuità delle sue squadre – quindi la sua continuità – non ha pari nella storia del calcio, soprattutto se consideriamo che queste nove semifinali sono state raggiunte tutte in un tempo relativamente breve, nell’arco di quattordici edizioni della Champions League tra il 2009 e il 2022; in pratica, dunque, Pep ha sempre superato i quarti di finale, tre volte è stato eliminato proprio ai quarti e una sola volta si è fermato agli ottavi. L’unica stagione che resta fuori da questo computo è quella 2012/13, in cui Guardiola non ha allenato.
Un altro aspetto per cui Guardiola è stato criticato è stata – ed è – la difficoltà di conseguire grandi risultati in Champions con il Manchester City, soprattutto alla luce degli enormi investimenti fatti dalla proprietà araba (dal 2012 a oggi sono stati spesi 1700 milioni di euro sul mercato in entrata, con 715 milioni ricavati dalle cessioni). Anche questi numeri, però, vanno letti e contestualizzati, non solo letti e basta: dal 2016, vale a dire dall’arrivo di Guardiola, il City ha comprato solo due calciatori che avevano già vinto la Champions League prima di sbarcare a Manchester (Claudio Bravo e Danilo); tutte le altre operazioni in entrata hanno riguardato calciatori di sicuro talento ma non ancora affermati, giovani o anche molto giovani, spesso con scarsa esperienza in Europa. In questo senso, l’acquisto-simbolo potrebbe essere quello di Jack Grealish dall’Aston Villa: un giocatore di 25 anni, proveniente da un club di seconda fascia, con zero presenze in competizioni europee per club. Il fatto che il suo cartellino sia stato pagato 125 milioni non ne definisce il valore reale, ecco. A questo stesso gruppo sono appartenuti i vari Edserson, Laporte, Mahrez, Aké, calciatori che oggi hanno un ruolo centrale nel Manchester City.
Il fatto che Guardiola riuscisse a portare una squadra costruita così fino alla finale di Champions, e poi a un’altra semifinale, non era scontato. Anzi, in questo senso la sua traiettoria è stata lineare, un crescendo rossiniano: sconfitta agli ottavi contro il Monaco nel 2017, sconfitta ai quarti (contro Liverpool, Tottenham e Lione) nei tre anni successivi, la finale col Chelsea nel 2021. E ora un’altra semifinale. La terza nella storia del club. Ecco, quando Guardiola parla di «inesperienza in Europa», di «storia che manca», fa riferimento proprio a questo, al fatto che il Manchester City sia diventato una squadra davvero credibile, a livello internazionale, solo negli ultimi anni. Solo con lui. Gli manca ancora la vittoria, ma questo non cancella – non può cancellare – un enorme lavoro di costruzione del presente e del futuro, la sperimentazione tattica portata avanti in maniera a volte anche eccessiva, la creazione di valore attraverso lo sviluppo individuale dei calciatori, tutto questo escludendo completamente i successi raccolti in Inghilterra. Magari tutti si accorgeranno di questa crescita dopo la sfida contro il Real Madrid, tra due settimane, un vero e proprio scontro finale con Ancelotti, Modric, Benzema, con una squadra e un gruppo di persone davvero pregni di nobiltà europea.