L’evento che ha sconvolto il 2021 calcistico è cominciato con un grafico a torta. Nel 2020 l’ECA, l’Associazione dei club europei, ha pubblicato una ricerca intitolata Fan of the future – Defining Modern Football Fandom, un tentativo di definire il futuro del tifo e quindi il futuro del gioco. Pare sia stato questo grafico a convincere Andrea Agnelli, all’epoca ancora presidente dell’ECA, del fatto che «molte delle nostre convinzioni riguardo ai tifosi devono cambiare». La Super Lega è stata (anche) il tentativo di realizzare quel cambiamento, di trarre le conseguenze dai numeri contenuti in quella ricerca: viene spontaneo immaginarsi la faccia di Agnelli davanti alla scoperta che dei 14mila tifosi intervistati, solo il 40 per cento aveva l’abitudine di andare allo stadio a vedere la partita. Il 51 per cento giocava a Fifa almeno una volta al mese, invece. In un’intervista concessa al Corriere dello Sport nei giorni in cui non si parlava d’altro che della Super Lega, Agnelli provò a spiegare le ragioni statistiche dello strappo: «Un terzo dei tifosi mondiali segue almeno due club e spesso questi due sono presenti tra i fondatori della Super Lega. Il dieci per cento è poi affascinato dai grandi giocatori, non dai club. Due terzi seguono il calcio per quella che oggi viene chiamata “fomo”, fear of missing out, paura di essere tagliati fuori».
In quell’intervista Agnelli parlava anche di campanilismo, di quella forma di appartenenza storica e territoriale per la quale lo stadio è la chiesa sempre al centro del paese. Nella nuova tassonomia del tifo che emerge dalla ricerca commissionata dall’ECA, questo modo di tifare è personificato nel club loyalist, il lealista, rappresentante di quei «tifosi estremamente coinvolti, di lungo corso, legati emotivamente alla loro squadra, la quale contribuisce alla costruzione della loro identità». Nella ricerca, i lealisti sono il 14 per cento. Soltanto il 14 per cento.
Se è vero, come è vero, che il calcio è ormai un fenomeno globale e continuo, complessissimo nelle cause e nelle conseguenze socio-culturali, enorme nei movimenti di talento e denaro, perché stupirsi che per la maggior parte dei tifosi il calcio non sia (più, soprattutto o mai) semplicemente un luogo e un’ora, un appuntamento e un’abitudine? Come tutto ciò che è cominciato o si è affermato nel Novecento, come tutto ciò che un tempo era considerato “a vita” (la città, il lavoro, il matrimonio) anche questo modo di intendere e vivere il calcio ha dovuto accettare il passaggio dall’egemonia a una più umile convivenza: la globalizzazione ha ormai scomposto il gioco in una miriade di fenomeni simili e diversi tra loro, ai quali si arriva attraverso un dedalo di sentieri vicini e paralleli, ognuno adatto alle priorità e predilezioni di una popolazione di miliardi di abitanti.
I luoghi e i tempi del calcio, dell’evento-partita e della discussione pubblica sono cambiati. C’entra internet e c’entrano i social, c’entrano le generazioni che invecchiano e quelle che crescono, perché ogni luogo attira la sua folla e ogni folla trasforma il suo luogo. Che il calcio dovrà presto o tardi riconoscere il peso specifico dell’online fandom è cosa già scritta: è online che vive il segmento demografico verso il quale tendono tutti gli sforzi di digitalizzazione che i club stanno compiendo in questi anni. Ma il rapporto non può rimanere univoco, limitato alle necessità commerciali delle squadre e alla propensione al consumo di questi tifosi: «I tifosi digitali sono il futuro del calcio, i club dovrebbero cominciare ad ascoltarli», titolava un pezzo del Guardian scritto da Paul McInnes nello scorso gennaio. In sostanza, non basta più simulare il senso di partecipazione e comunità proiettando i faccioni dei tifosi digitali sugli schermi led che incorniciano ormai tutti i campi.
Si tende a pensare al tifoso digitale come a un tifoso minore: se non ci sei, non puoi capire, recita un vecchio adagio ultras, tradotto in tutte le lingue con minime variazioni locali. Ma questi anni hanno cambiato il concetto stesso di “esserci”, l’idea stessa di presenza. I tifosi digitali non sono isolati e solitari, distanti e apatici come si tende a raccontarli. Hanno luoghi e tempi, codici e simboli, la loro passione ha forma e sostanza. A settembre del 2021 il giornalista Dean Van Nguyen pubblica un pezzo su Dean Magazine in cui racconta la sua straniante esperienza con il “Liverpool Twitter”, un angolo di social e una fazione di tifo capace di mettere in discussione le sue certezze sulla passione calcistica. «Sono ossessionato da questi profili perché il modo in cui vivono il calcio è completamente diverso dal modo in cui io ho vissuto la mia vita di tifoso, vita che definirei largamente incentrata su quel che succede in campo».
Le difficoltà e la curiosità di Van Nguyen si possono capire: chi lo avrebbe mai immaginato che sarebbero venute nuove culture calcistiche per le quali il campo non è terra natia, non è suolo sacro. Nella sua spedizione in questa terra incognita del tifo Reds, Van Nguyen ha scoperto che questi tifosi vivono d’estate, nelle settimane del calciomercato. La loro passione è fatta e disfatta dalla campagna acquisti della squadra del cuore, il loro tifo è una matrice composta da colonne di numeri, la loro lingua è quella delle tabelle riepilogative e delle formazioni ideali, i loro legami non sono determinati dalla numerazione dei posti allo stadio ma dalla condivisione di informazioni e dei canali (piattaforme, hashtag, forum) per veicolarle. È un amore quantitativo, numerico, scientifico.
La lingua inglese, che sta al calcio come il tedesco sta alla filosofia, ha trovato un nome per questo tipo di tifoso: statto, l’impallinato con le statistiche, l’appassionato che vede il calcio con i colori fluorescenti delle heat map, che vive la partita aggregando e disaggregando big data. La distanza tra questo e gli altri modi di vivere il calcio è spesso talmente grande da diventare inconciliabilità, incomunicabilità, rivalità. Il Liverpool Twitter ha un nome per i tifosi da stadio, quelli per i quali il costo del biglietto è costo della vita, quelli per quali le esigenze della programmazione televisiva abbassano la qualità dell’esistenza: “Top Reds”, li chiamano, l’élite della brioche contro il popolo del pane. E in effetti, a pensarci, si è costretti al cambio di paradigma: in un’epoca in cui una squadra di calcio è tifata da milioni di persone in tutto il mondo, che cosa sono se non élite i felici pochi ai quali la sorte ha concesso la possibilità del tifo-in-presenza? Quanta differenza c’è, se c’è, tra mettersi in coda al tornello con il dovuto anticipo e svegliarsi di notte per seguire la propria squadra del cuore, tifando in silenzio per non disturbare il sonno dei vicini?
Qual è il paradigma più antico, la vera e propria regola d’oro del calcio? Che non esiste una parte che valga più del tutto: una squadra non sarà mai più grande del gioco stesso, un giocatore non sarà mai più importante della squadra e, per questioni di logica aristotelica, un giocatore non potrà mai essere più grande del gioco. Eppure Agnelli lo ha detto chiaramente, e non mentiva di certo: il dieci per cento di quelli che seguono il calcio in realtà seguono i calciatori. Un pensiero che fino a poco tempo fa riservavamo agli sport individuali, one man show da opporre all’opera corale che è il calcio: seguo il tennis finché Nadal sarà il goat, la Formula 1 fino a quando Hamilton avrà ancora voglia, il motomondiale invece non mi interessa più senza il 46 sulla griglia di partenza. Un pensiero che fino a poco tempo fa riservavamo agli sport americani, emanazione di una cultura che ci piace banalizzare definendola individualista: se loro hanno l’uomo-franchigia, noi abbiamo l’uomo-squadra, se loro hanno il superteam, noi abbiamo le Sette Sorelle. Ma negli ultimi venti anni, cos’è stato il calcio se non una successione di uomini-franchigia e di superteam? Messi e Ronaldo, il Barcellona e il Real Madrid, il Manchester City di Guardiola e il Psg di tutti i più forti.
E questi vent’anni hanno generato anche un tifoso nuovo, imbottito di hype e amante del lusso: lo chiamano main eventer, un gourmand che del calcio apprezza solo i tagli più pregiati. E si fa presto a ridurre questa tendenza (in crescita veloce anche) al culto della celebrità, a ridicolizzarla con le mode del parrucco lanciate da Neymar e i consigli nutrizionali di Cristiano Ronaldo, ai meme e agli influencer, all’onnipresenza dei social media e all’onnipotenza del capitalismo. Certamente c’è anche questo, ma questo è sempre successo: era il 1934 quando Clarke Gable si tolse la camicia in una scena di Accadde una notte, i giovani americani videro che lui la canottiera non la portava e smisero così di comprarla anche loro, sancendo la fine di un caposaldo dell’intimo maschile. Gli attori sono star e i calciatori pure: le mode le fanno, le hanno sempre fatte e le faranno sempre le star.
Nel calcio sta succedendo questo ma anche una cosa diversa, per certi aspetti più complicata e più rilevante: i “nuovi tifosi” avanzano pretese nei confronti dello sport, sono convinti che il calcio possa dare un contributo al miglioramento delle comunità e debba essere una forza spesa nella salvezza del mondo, ma soltanto un quinto di loro è convinto che il calcio stia facendo abbastanza in un senso e nell’altro. Questi tifosi vivono il calcio attraverso le icone che lo rappresentano e dalle quali vogliono essere a loro volta rappresentati: sono i tifosi di Marcus Rashford che si impegna perché i bambini poveri di Inghilterra abbiano tre pasti al giorno, sono i tifosi di Manuel Neuer che indossa la fascia di capitano con i colori dell’arcobaleno contro l’Ungheria (e in Ungheria), sono i tifosi di Wilfred Zaha che è il primo a inginocchiarsi e anche il primo a smettere di inginocchiarsi per protestare contro il razzismo. Li chiamano, questi tifosi, i game changer, quelli che alla fine cambieranno davvero il gioco, quelli che alla fine diventeranno davvero il futuro del calcio: speriamo.