Breve viaggio europeo tra gli sticker degli ultrà

Si nascondono perché posizionati in luoghi discreti, anche se altamente simbolici, ma sono un modo per marcare il territorio nelle trasferte o nei viaggi privati.

Anche i monumenti famosi hanno una vita intima. Si fa fatica a crederlo vista la presenza che occupano nel nostro immaginario: cartoline così ricorrenti da perdere la terza dimensione. Eppure esistono davvero. Sono luoghi reali delle nostre città. E quindi luoghi nelle cui pieghe si svolge la vita con le sue bellezze e bruttezze, le sue storie. Prima di qualche settimana fa non avevo mai riflettuto abbastanza su quanto i monumenti giochino un ruolo simbolico anche nel calcio. Prendiamo il Duomo di Milano. Il derby tra Milan e Inter viene detto “della Madonnina” a causa della statua dorata posta sulla più alta guglia della cattedrale e che secondo il sito ufficiale del Duomo «rappresenta l’anima e il cuore della città». Opera dello scultore Giuseppe Perego, fu inaugurata nel 1774 e da allora ha assunto un valore civico oltre che religioso. Il Duomo, naturalmente, è anche il luogo dove si va per festeggiare gli scudetti e i trofei. Non sono lontane le polemiche per gli assembramenti autorizzati in piazza del Duomo il 2 maggio del 2021, la domenica in cui l’Inter ha conseguito il suo diciannovesimo scudetto.

Personalmente ho un ricordo abbastanza limpido delle immagini dei festeggiamenti davanti al Colosseo la notte del 4 luglio del 2006, giorno della vittoria dell’Italia sulla Germania nella semifinale dei Mondiali. Vivevo a Roma all’epoca, non lontano da lì e il Colosseo fu la prima tappa di una notte passata a girovagare per le strade della città. I grandi tricolori che sventolavano sullo sfondo del simbolo per eccellenza della storia “italiana” sono una cosa che ricordo con una certa emozione ancora oggi. C’è come un senso di conquista che avvolge queste vittorie calcistiche festeggiate davanti ai monumenti importanti delle città. Qualcosa che sembra essere stato ereditato da antiche prese, dagli assedi, dalle fortezze espugnate. Abbiamo vinto, quindi andiamoci a prendere il simbolo della città.

Ritorno a un giorno di gennaio post-natalizio, grigio milanese, in cui decido di salire sulle terrazze del Duomo. Non è la prima volta, è una cosa che mi piace fare: guardare la città dall’alto, affacciandomi su tutti i lati della cattedrale. Cercare i quartieri, la zona dove abito, quella dove lavoro. Quando ridiscendo le prime rampe di scalini che mi riporteranno a piano terra, mi accorgo però di una cosa che non avevo mai notato. A ogni piano della discesa c’è un neon che serve a illuminare il cammino e su ognuno di questi neon sono attaccati decine di sticker fino a coprirli. Al secondo o terzo neon che incontro ci metto più attenzione e mi accorgo che sono soprattutto adesivi di tifoserie, di gruppi ultras, di squadre soprattutto straniere, alcune mai sentite. Leggo: Imbastisci 1993, Hamburger SV, Wisla Plock Ultras, FC RWE, Chelmsford Football Club, Tugurio Madness Como, Widzewiacy ze Strykowa, Tribuna Petrignani, Eckernförde Holstein Zone, South Leaders Ultras Anderlecht, No Pyro No Party Eindhoven, GC Zürich, FCL Fussball Club Luzern, Colectivo 1995 Ultras Porto, Fussball Club Nürnberg. Questi almeno sono quelli che riesco a decifrare. Perché ce ne sono diversi senza scritte, solo con simboli perlopiù minacciosi – teschi, zucche dentate, diavoli, leoni – oppure mezzi staccati, di cui restano solo pezzi non più leggibili.

Quando arrivo all’uscita, incrocio una guardia giurata a cui chiedo se conosce il motivo di questa strana abitudine. «È come se gli ultras di mezza Europa si fossero dati appuntamento qui, sulle scale del Duomo», gli dico. Ma lui non sembra particolarmente interessato a un discorso sulla cultura underground delle tifoserie e mi dice: «Non è questione di tifo, sono soltanto degli incivili». E poi mi spiega che periodicamente c’è un giro di pulizia per staccare il più possibile gli adesivi, «ma non tutti vengono via».

Grazie a quegli stickers mi incammino mentalmente in un piccolo giro d’Europa toccando posti che ho visitato o vecchie squadre che mi sono rimaste in mente. Il glorioso Anderlecht degli anni Ottanta, quello del poi interista Vincenzo Scifo e di Luis Oliveira (finito al Cagliari, alla Fiorentina, a Bologna, Como e Catania, diventando una vera icona del nostro campionato). Quello di Franky Vercauteren, un nome, soprattutto un nome più che un’immagine, che mi risuona automaticamente con la voce di Pizzul in una telecronaca dei Mondiali. Quello di Ludo Coeck, arrivato in Italia, sempre all’Inter, nel 1983 come uno dei centrocampisti più forti d’Europa – le cronache ricordano che fu preso per rimpiazzare Paulo Roberto Falcão, che restò alla Roma, nonostante un contratto già firmato con Mazzola, per intervento divino di Andreotti e del Papa – e poi falcidiato da una serie impressionante di infortuni che gli permisero di scendere in campo solo tipo una decine di volte, poi sbolognato all’Ascoli di Costantino Rozzi dove non scese mai in campo e nel 1985 un incidente d’auto mortale sulla strada tra Anversa e Bruxelles.

Mi rivedo al porto di Bastia, quella strana città corsa, che sembra una lunga periferia industriale, con al centro un confortevole piccolo borgo francese. È un posto ambiguo, con qualche durezza ma anche del fascino; poco a che vedere con l’atmosfera solare e selvaggia dell’isola, lo si immagina luogo di traffici clandestini, di appuntamenti poco raccomandabili. Su Google ho scritto quel “Tribuna Petrignani” letto sullo sticker ed è venuto fuori che è il settore più caldo dello stadio Armand Cesari, impianto sportivo da 16mila posti nel comune di Fiorani, a 10 chilometri da Bastia, e stadio dello Sporting Club Bastiais. È tristemente noto per essere stato teatro di una tragedia sportiva che ricordo vagamente, un cedimento strutturale di una tribuna avvenuto in occasione della semifinale di Coppa di Francia contro l’Olympique Marsiglia nel 1992, che causò la morte di diciotto persone. Il Bastia ha conosciuto fortune migliori disputando annate anche buone in Ligue 1, ma oggi è diciassettesimo nella classifica della Serie B francese.

Penso ancora a Porto, da dove arriva il “Colectivo 1995”, altra strana città, visitata durante un inter-rail, troppo tempo fa per poterne dare un quadro attendibile, ma ricordi di piazze ombreggiate da fronde di alberi e palazzi un po’ diroccati e vecchi che vendevano il fumo e un lungofiume vivo e umido. Il calcio è anche questo in fondo: geografia, una mappa di luoghi immaginati, soprattutto da bambini, che poi diventano conosciuti, non per forza capitali, ma anche – ed è questo il bello – luoghi minori, Bastia, appunto, o Norimberga, luoghi che forse non visiteremo mai, ma che diventano familiari, nomi e colori che ti ritrovi a incrociare anche solo una volta, per una disgraziata sfida di Europa League che non dimenticherai.

Un po’ di adesivi interessanti, direttamente dall’Inghilterra (Richard Heathcote/Getty Images)

«Ho visto uno sticker del Preston su un’indicazione dell’aeroporto di Monaco di Baviera, uno dei Doncaster Rovers su un tubo di scarico a Lubiana, uno sticker dell’IFK Göteborg su una cassetta della posta a Bangor, e uno dei tifosi dell’Honved fuori al Colosseo. Da un punto di vista antropologico, gli sticker sono un modo per marcare il territorio. Dal punto di vista della geografia sociale, è interessante vedere quali posti hanno visitato determinati tifosi», è quanto si legge a un certo punto in un pezzo di Matt Johnson pubblicato nel 2018 sul Guardian e intitolato “My Obsession With Football Stickers (Which Has Nothing To Do With Panini)”. L’autore racconta anche di aver aperto un Tumblr in cui raccoglie tutte le foto fatte a sticker calcistici visti per strada. Su Instagram questa speciale sottocultura degli adesivi ultras viene rappresentata da account con poche migliaia di follower (o centinaia in alcuni casi), la maggior parte dedicati a una sola squadra o tifoseria, ma c’è anche chi come Italian Ultras Stickers raccoglie e documenta il fenomeno in modo orizzontale. Si trovano così gli “Ancora perseguitati” del Casarano, i “Tradizione e distinzione” del Gubbio, il “Monopoli” a Salisburgo, gli “Urbano Cairo Coronavirus” a Torino, i “Vecchia Guardia Pescara” fotografato su un palo proprio di fronte al Duomo.

«La cosa degli adesivi va avanti ormai da un bel po’», dice F., un ex ultras della Roma, «credo sia un trend legato alla maggiore disponibilità di servizi di stampa a basso costo e a una generale “deriva visuale” del tifo organizzato. Puoi vederla come una sorta di guerilla marketing, ma la cosa secondo me è da ricondurre al mondo del writing, prima si vedevano spesso adesivi con le tag o i throw-up». Un modo per marcare il territorio, per segnalare la propria presenza in luoghi di attraversamento, indicazioni stradali, pali, muretti, o persino le scale interne del Duomo di Milano. Qualcosa che è davanti ai nostri occhi, ma che sembra non esistere, almeno a cercare su internet informazioni sul fenomeno, dove si ci rende conto che incredibilmente ci sono ancora cose che non si possono trovare su Google, cose che non hanno conferma su pagine Wikipedia, ma semplicemente esistono e si manifestano nella realtà.

Da Undici n° 43