Il Napoli si è sciolto ancora

La squadra azzurra è andata vicina alla vittoria dello scudetto, ma è crollata all'ultima curva. Cos'è andato storto questa volta?

Gli errori quasi comici commessi da Kevin Malcuit e Alex Meret in occasione dei tre gol segnati dall’Empoli, le prestazioni contro Fiorentina e Roma, il caso politico ritiro sì/ritiro no scoppiato al ritorno dalla Toscana, le voci sulle frizioni tra Spalletti e De Laurentiis, le cene sociali per rattoppare il fiume di comunicati e notizie e indiscrezioni: tutte scene già viste negli anni precedenti, in altri film, con alcuni protagonisti che hanno resistito e altri che sono cambiati, mentre non cambia l’esito finale. In un caso del genere, che sembra essere una sorta di Groundhog Day con i tifosi del Napoli nel ruolo che fu di Bill Murray, è inevitabile parlare di deficit di mentalità, di sortilegi e maledizioni varie: non si commette un errore a pensarla in questo modo, solo che poi esiste anche la realtà delle scelte e degli eventi. Nel calcio, questa realtà è un cocktail di cose che nascono dentro e fuori il rettangolo di gioco, ma che alla fine si miscelano, si esaminano e si pesano durante le partite. E allora diventa giusto, soprattutto per chi vuole parlare di campo, provare a capire cosa sia successo questa volta. In questo ennesimo giorno della marmotta nella storia recente del Napoli.

Se la natura e la portata degli errori di Malcuit e Meret – che non si possono attribuire ad alcun fattore esterno da loro, perché è impossibile pensare che quei palloni siano stati gestiti in quel modo perché Spalletti o chi per esso voleva che andasse così – fanno rientrare la sconfitta di Empoli all’interno del circuito dell’imponderabile, le partite precedenti hanno mostrato un Napoli sfilacciato, perennemente in balia degli eventi, incapace di controllarsi e soprattutto di controllare il mondo intorno a sé. L’esatto contrario della squadra che aveva preso il comando della classifica a inizio campionato, e non solo per la solidità difensiva: con un approccio elastico, anti-ideologico, Spalletti aveva permesso a tutti i giocatori della rosa – soprattutto a quelli svalutati dalla gestione-Gattuso: Rrahmani, Lobotka, Elmas – di trovare un posto nel mondo, di essere utili. La forza pura di Koulibaly, Anguissa e Osimhen aveva fatto il resto: diverse partite restituivano la sensazione per cui gli azzurri fossero trascinati fisicamente alla vittoria da questi tre calciatori, dal loro atletismo fuori scala, molto più che dalla tecnica di Insigne e Mertens e Zielinski, cioè dalla vecchia guardia. Anche per questo, forse, in molti si aspettavano che le cose potessero andare diversamente. Che questa nuova squadra, in cui certe qualità e quindi un certo modo di intendere il calcio erano diventate un gustoso condimento piuttosto che la portata principale, potesse cancellare il passato.

Ma cosa è andato storto, allora? Per capirlo bisogna partire proprio dalle cose di cui abbiamo parlato finora, cioè delle differenze di approccio e di rendimento. Il nuovo Napoli ha vissuto un inizio meraviglioso per non dire perfetto, una serie di partite giocate – e vinte – grazie a distanze corte, a una difesa a volte aggressiva ma anche intelligente quando c’era da rinculare, ai cambiamenti giusti fatti nel momento giusto da parte dell’allenatore, a un mix intelligente tra gioco di possesso e gioco verticale. A un certo punto, però, tutto questo è venuto a mancare. Per degli infortuni traumatici e quindi casuali, poi per una serie di assenze, infine per uno svuotamento totale del serbatoio. A quel punto, il Napoli si è spento. Si è sciolto.

È come se la squadra di Spalletti avesse pagato, tutto insieme, il grande avvio – 11 vittorie nelle prime 12 partite – e poi l’andamento altalenante, ma comunque soddisfacente, nelle fasi successive del torneo. Ecco, le colpe di questo blackout fisico potrebbero essere attribuite a Spalletti e al suo staff, a una preparazione atletica magari non proprio indovinata, ma vanno menzionati anche gli equivoci che il tecnico del Napoli e i suoi collaboratori hanno dovuto risolvere: come si allena una squadra così fluida, così mutevole? Come si fa a far convivere le esigenze di giocatori come Mário Rui, Insigne e Mertens e  con quelle di Koulibaly, Anguissa e Lozano, per non parlare di Osimhen? Come si fa a fare tutto questo nell’arco di un’intera stagione?

Con 16 e 12 gol, rispettivamente, Osimhen e Insigne sono i due migliori marcatori stagionali del Napoli (Andreas Solaro/AFP via Getty Images)

C’è una risposta a queste domande. Ed è allenarsi e giocare ad alta intensità, che in questo caso non significa solamente correre tanto con e senza palla, piuttosto vuol dire praticare un calcio fatto di perenne applicazione tattica, in cui ogni copertura e ogni inserimento e ogni giocata hanno una grande importanza, visto che in tutte le partite ci sono dei meccanismi sempre diversi da sostenere, da attuare. Spalletti ha scelto questa strada ibrida perché aveva e ha una squadra ibrida, da assemblare settimana dopo settimana. Una situazione uguale ma diversa da quella di Sarri e anche di Benítez e Mazzarri, i tecnici del Napoli che hanno lottato per grandi traguardi prima di lui: loro avevano degli organici forse meno forti e meno profondi ma costruiti in modo più coerente, e quindi hanno potuto creare dei sistemi tattici decisamente identitari e indubbiamente efficaci. Alla fine, però, si sono scontrati con il calo fisiologico del loro stesso modello. E con la mancanza di quelle alternative che non avevano costruito, che non avevano potuto e/o voluto costruire. C’è chi si è fermato con un po’ d’anticipo rispetto alla fine del campionato e delle coppe internazionali, come Mazzarri, e c’è invece chi è riuscito a portare il Napoli a un passo dallo scudetto o dalla finale di Europa League, come Sarri e Benítez. Come Spalletti, che invece aveva fin troppe alternative e un certo punto si è visto scivolare via la capacità – fisica, prima ancora che tecnica ed emotiva – di giocare ad alta intensità. Ovvero, come detto, ciò che serviva per sfruttarle bene, queste sue alternative. Di certo qualche errore l’ha commesso anche lui, è inevitabile, ma questo è il rischio che si corre con il calcio liquido: mancano dei rami forti, cioè dei meccanismi radicati, cui appigliarsi nei momenti di difficoltà. E ogni cambiamento è potenzialmente un atto negativo, nel senso di peggiorativo.

E allora forse non resta che rivolgere il proprio sguardo altrove, ad altri che non siano l’allenatore. Alla società, che è sempre la stessa. Alla squadra, che sostanzialmente è la stessa da molti anni – secondo i dati dell’osservatorio calcistico CIES, il Napoli è la squadra di Serie A, tra quelle che non sono mai retrocesse, che ha utilizzato meno calciatori (67) dal 2015 a oggi. Come detto prima, il Napoli delle ultime settimane ha dato la sensazione di non riuscire più a controllare ciò che gli succedeva, quindi di essere vulnerabile a qualsiasi colpo di vento. Come detto prima, fare bene nel calcio vuol dire miscelare bene delle cose che nascono dentro e fuori al campo. In virtù di tutto questo, forse è arrivato il momento di riconoscere che questo gruppo di atleti ha dei limiti, ha questa dimensione e non possono andare oltre, se non per alcuni momenti destinati a finire, a esaurirsi, che sia calcio liquido o identitario. Che il Napoli è questo, è un’azienda sportiva fatta di giocatori e dirigenti che stanno fuori dall’élite. Appena un passo, ma fuori. Tecnicamente, economicamente, per capacità/possibilità di evolversi all’interno di questo contesto. Di fare l’ultimo passo, quello decisivo. Di farlo insieme.

Del resto i grandi campioni e le squadre vincenti sono tali perché trovano la forza per reagire alle avversità, alle contingenze. Solo che non tutti i giocatori sono grandi campioni, e non tutte le squadre possono vincere. Può sembrare una questione di mentalità, probabilmente lo è, ma è soprattutto e prima di tutto un discorso di forza. Di valore. Di distanza rispetto al successo. Una distanza così breve che il grande trionfo si intravede sempre, fino all’ultima curva. Una distanza così larga che che il grande trionfo non è ancora arrivato, dopo anni di tentativi andati tutti a vuoto.