Sono tornate le dinastie in panchina?

Il rinnovo di Klopp e la lunga permanenza di Guardiola al Manchester City tracciano una strada: i top club non si separano più dai grandi allenatori.

Come Carlo Ancelotti non c’è nessuno. Dopo aver vinto il titolo nazionale spagnolo con il Real Madrid è diventato il primo e unico tecnico della storia del calcio ad aver vinto tutte le cinque migliori leghe europee – Italia, Inghilterra, Francia, Germania e infine Spagna, in quest’ordine. Il suo primato, come tutti i record sportivi, è stato fatto per essere battuto, riscritto, ma sembra destinato a durare. Forse per sempre. E forse è un pronostico azzardato, ma che diventa realistico perché sostenuto da una tendenza nuova e universale del calcio europeo: i movimenti tra le panchine dei grandi club, quelli che portano gli allenatori più importanti da un punto all’altro del continente, sono sempre meno. I dirigenti ci pensano dieci volte prima di rinunciare agli allenatori più vincenti, a maggior ragione quando ne hanno già uno sotto contratto. E la polarizzazione delle forze calcistiche dell’ultimo decennio ha ridotto il numero delle squadre in corsa per il titolo nazionale a una, due o al massimo tre per ogni campionato. Insomma, non c’è più molto margine per fare cinque tappe di questo tipo in cinque Paesi diversi, in una sola carriera.

Questa tendenza si sposa perfettamente con un altro trend ormai istituzionalizzato, quello per cui i grandi club puntano sull’usato sicuro quando c’è da scegliere il nuovo allenatore, come ha fatto il Real Madrid con lo stesso Ancelotti o la Juventus con Allegri. Ovviamente la cosa è reciproca, nel senso che anche gli allenatori sono restii a lasciarli, i grandi club. Pochi giorni, per esempio, Jürgen Klopp ha rinnovato il contratto con il Liverpool, lo ha stretchato, si direbbe negli sport americani: il precedente accordo scadeva nel 2024, ora il tecnico tedesco si è regalato due anni in più nel Merseyside. Alla fine del suo nuovo contratto, Klopp avrà completato dieci stagioni al Liverpool.

Ci sono almeno due elementi da evidenziare in questa storia. Da un lato Klopp si lega al club per prolungare un lavoro di costruzione eccellente, con la consapevolezza che questo ciclo dovrà rinnovarsi, passare da e per altri giocatori, e così la squadra con cui arriverà al termine del contratto sarà molto diversa da quella attuale. Inoltre, lo stesso allenatore accetta di volersi impiegare in questa ricostruzione dall’interno, piuttosto che ricominciare da zero in un’altra società, laddove dovrebbe rifare tutto il lavoro fatto ad Anfield e dintorni. Dall’altro il Liverpool si tiene stretto il suo fenomeno della panchina nonostante due anni scarsi senza vittorie – prima della Carabao Cup vinta a fine febbraio l’ultimo trofeo sollevato al cielo dai Reds era la Premier del 2019/20 – e accetta di legarsi a lui ancora a lungo. Insomma, crea un binomio che, per tempi e dinamiche, sembra appartenere a logiche di un’epoca passata. Certo, non siamo ancora ai legami che hanno fatto la storia della Premier League, come Sir Alex Ferguson al Manchester United, Arsène Wenger all’Arsenal o Brian Clough al Nottingham Forest, ma sembra di tornare a un’epoca in cui le dinastie sportive erano più frequenti nel calcio europeo. I dieci anni potenziali di Klopp sono quelli di Giovanni Trapattoni alla Juventus, sono meno di quelli vissuti da Helenio Herrera all’Inter, proprio al Liverpool il leggendario Bob Paisley è stato capo allenatore per nove stagioni, quindici l’irraggiungibile Bill Shankly. Tutte dinastie vincenti legate a un singolo allenatore, che somigliano a quelle leggendarie degli sport americani – Phil Jackson ai Chicago Bulls e ai Los Angeles Lakers, Joe Torre ai New York Yankees, Steve Kerr ai Golden State Warriors.

Il dizionario Merriam-Webster descrive una dinastia come un «franchise sportivo che ha una lunga serie di stagioni di successo». All’interno dello stesso sport, o anche della stessa lega, le dinastie possono essere concorrenti tra loro, spiega il dizionario, come nel caso della splendida rivalità tra Liverpool e Manchester City, che poi realtà è la sfida corpo a corpo, anche se a distanza, tra la dinastia di Klopp al Liverpool e la dinastia di Pep Guardiola al Manchester City. Perché anche l’uomo da Santpedor potrebbe decidere di prolungare virtualmente all’infinito il suo rapporto con i Citizens: d’altronde sulle rive dell’Irwell sta costruendo la stessa cattedrale che a Barcellona aveva dovuto solo restaurare, quella che gli aveva lasciato in eredità la scuola olandese con Johan Cruijff. Il contratto in scadenza nel 2023 meriterebbe di essere prolungato almeno di un paio d’anni, è quello che vogliono tutti.

Lo stesso dovrebbe accadere al Chelsea con Thomas Tuchel, almeno in un mondo ideale, quello in cui il Chelsea è un club stabile dal punto di vista politico, prima ancora che tecnico. Tuchel dovrebbe avere la stessa opportunità concessa a Klopp e Guardiola, cioè quella di lasciare alla sua attuale squadra un’eredità basata su ciò che ha costruito nel primo anno e mezzo: i Blues, insomma, dovrebbero riscrivere la propria essenza, permettendo al manager tedesco di diventare qualcosa di più del semplice allenatore con vincere e poi troncare il rapporto appena le cose iniziano a incrinarsi, come fatto praticamente con chiunque nell’ultimo ventennio. Lo stesso Tuchel dovrebbe avere maggiore autonomia sui trasferimenti, o quanto meno gli si dovrebbe costruire una rosa sempre adatta alle sue idee, portargli i giocatori che vuole davvero, guardando al rendimento futuro oltre che all’immediato. Poi, certo, il Chelsea è da sempre un club abituato alle schizofrenie comandate dai risultati del momento, e in questi giorni non si capisce nemmeno chi è e chi sarà a gestirne il futuro dopo l’era-Abramovich, quindi non sempre le decisioni ai piani alti sono le più lucide.

Il lavoro di Tuchel al Chelsea vale anche come dimostrazione che un grande club moderno può massimizzare i rendimenti e le vittorie mantenendo una buona sostenibilità sul lungo periodo. O almeno era così fino alla scorsa estate, quando il club ha inserito in rosa Romelu Lukaku uno calciatore che si è rivelato piuttosto ingombrante – per status, prezzo, stipendio e stile di gioco – in un meccanismo fluido e funzionante, finendo per incrinarlo un po’. Al di là delle valutazioni sull’acquisto di Lukaku, però, il Chelsea aveva dimostrato che si può vincere investendo sui giovani nel modo giusto: Mount, James, Pulisic, Hudson-Odoi sono tutti protagonisti dei blues di oggi e di domani. Ma vale anche per le altre squadre. Il Liverpool ha avuto e ha la pazienza di aspettare Alexander-Arnold, Konate, Harvey Elliot; il Real Madrid acquista giovanissimi prospetti e poi si crea i campioni in casa, operazione riuscita piuttosto bene con Vinícius, Valverde e Camavinga; il Bayern Monaco fa lo stesso con Alphonso Davies e Musiala, il City con Foden e Gabriel Jesus. Saper puntare sui giovani permettere ai top club di rinnovarsi senza cambiare guida tecnica, durare più a lungo e aprire un secondo o anche un terzo ciclo mantenendo l’identità tattica e sistemica radicata nel corso di diverse stagioni da un solo allenatore.

Guardiola non era mai stato così tanto tempo sulla stessa panchina: è al Manchester City dal 2016, quando invece al Barcellona e al Bayern aveva resistito per quattro e tre stagioni, rispettivamente (Alex Livesey/Getty Images)

Chi ha un grande allenatore, e può foraggiarlo con la squadra giusta per lui, se lo tiene strettissimo, soprattutto dopo la pandemia che ha affossato o comunque mutilato i conti dei club. Anche il Barcellona in piena ricostruzione avrebbe buon gioco a stare a lungo con Xavi. Perché nessuno più di lui ha il potenziale – ideologico, culturale, umano – per guidare la rinascita dei catalani. E nessuno più di lui, che è stato allenato da Van Gaal e Rijkaard, Guardiola e Luis Enrique, può insegnare come il Barça possa vincere e rinnovarsi, cambiare e mantenere la sua identità. La sovrapposizione perfetta tra l’immagine di Xavi e quella del Barcellona, come oggi sono sovrapponibili Guardiola e il City, Klopp e il Liverpool (e domani potrebbero esserlo Tuchel e il Chelsea), è il motivo per cui l’élite calcistica è diventata sempre meno accessibile per gli allenatori outsider, quelli che non hanno il timbro del predestinato – leggasi Nagelsmann – o un passato da calciatore ad altissimo livello.

Non è detto che valga per tutti, che per tutte le grandi squadre abbia senso legarsi a un solo allenatore. Ma il mercato degli allenatori dei top club va verso la stagnazione anche perché la distanza tra questo gruppo di società e il resto del mondo è diventata talmente alta – in termini di possibilità economiche, qualità e costanza sul lungo periodo – che è sempre più difficile pensare di rimpiazzare un allenatore già testato ai massimi livelli con uno che non ha ancora dimostrato lo stesso. Allora diventa più facile pensare che un brutto momento vada superato con il timoniere che c’è già. È il motivo per cui per Klopp non ha senso cambiare panchina e per il Liverpool non avrebbe senso cambiare allenatore anche se a fine stagione i trofei dovessero fermarsi alla sola Carabao Cup già vinta. Ciò che hanno costruito insieme Klopp e il Liverpool va molto oltre il risultato di una singola stagione.