Panatta, un tennis e un’Italia che non esistono più

La nuova docuserie Una Squadra non racconta solo la vittoria in Coppa Davis conquistata da Pietrangeli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli, ma è uno spaccato del Paese che fu negli anni Settanta.

Una Squadra, la docu-serie di Domenico Procacci che Sky sta mandando in onda in queste settimane, è un documentario storico più che sportivo. Il tennis c’entra fino a un certo punto. È uno spaccato dell’Italia, degli anni Settanta, di uno sport che allora era per gaudenti, non per collezionisti di tic o rituali – come li definiscono oggi per sembrare meno ossessivi. Di ossessivo, i protagonisti della Coppa Davis del ’76 non avevano proprio niente. «Che devo dire? Che eravamo tennisti professionisti? Ci piaceva giocare a tennis, e ci divertivamo». È la sintesi di Adriano Panatta, il leader indiscusso (Barazzutti ci perdonerà) di quel gruppo che trasformò il tennis da sport d’élite in sport popolare. Di storia della società e del costume italiano.

L’appartamento di cinquanta metri quadrati che Panatta e Bertolucci avevano preso in affitto a Collina Fleming, con Adriano che cucinava e Paolone che faceva i servizi («ero lo sguattero», dice Panatta). Le cene con la banda di Arbore, Boncompagni e quelli di Alto Gradimento. Il negozio di articoli sportivi che Bertolucci aveva aperto in quel quartiere e in cui ogni tanto si affacciavano i giovanissimi e sconosciuti Loredana Bertè e Renato Zero nei loro improbabili abbigliamenti leopardati. «Appena li vedevo spuntare in lontananza, mi precipitavo fuori dal negozio e li portavo al bar, altrimenti i clienti sarebbero fuggiti», racconta Bertolucci. I protagonisti dfornano aneddoti come le macchine spara-palle con cui si allenano i tennisti. Il mental coach lo avrebbero messo a lavare i piatti. Il pretesto è celebrare quel successo storico – anche perché unico – del 1976 su cui, circa trent’anni dopo, si è costruita l’epica delle magliette rosse indossate in finale contro il Cile di Pinochet. In realtà è un tuffo in un’altra Italia, più spiazzante di una partita di calcio in cui il portiere poteva raccogliere con le mano i retropassaggi. Sembra un’altra era geologica. Un’operazione di archeologia sociale. Eppure non sono trascorsi neanche cinquant’anni.

La trama si snoda attraverso i racconti dei cinque personaggi principali: i quattro giocatori – Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli – e il capitano Nicola Pietrangeli, il più forte tennista italiano di sempre. Sono uomini che incarnano il lato gaudente della Lazio che vinse lo scudetto nel 1974: profondamente divisi al loro interno, ma compatti contro gli avversari. Stavolta, però, niente fucili né colpi di pistola. I fiumi di retorica versati sull’importanza e la sacralità del gruppo sono demoliti a colpi di battute velenose e sfottò. Si detestavano allora, si beccano ancora oggi. «Le squadre erano due», racconta Pietrangeli. «Panatta e Bertolucci da una parte e Barazzutti e Zugarelli dall’altra. Non si parlavano, si spogliavano separati, non correvano insieme». Spesso le versioni dei protagonisti non concordano e il regista Procacci è abilissimo a farlo emergere senza indugiare più di tanto.

Persino la trovata delle magliette rosse – la ebbe Panatta, che convinse Bertolucci a questa forma di protesta «di cui non si accorse nessuno» – quasi cinquant’anni dopo viene giudicata con sufficienza, diciamo anche contestata, da Pietrangeli e Zugarelli. Che negano qualsiasi retropensiero politico e di fatto liquidano come pubblicitario il racconto postumo. Proprio Pietrangeli e Zugarelli, che ancora oggi non hanno cambiato idea sui loro litigi. Come quella volta che a Barcellona, a risultato acquisito, “Zuga” si rifiutò di giocare da riserva obbligando così Panatta a scendere in campo per l’ultimo inutile incontro. Finì col pubblico catalano che fischiò tutto il tempo, Adriano che le spedì tutte fuori, perse 6-1 6-0 e poi finì a fare i cazzotti in tribuna. Molto prima di Cantona. E quando negli spogliatoi si presentò il console italiano in Spagna per una rimostranza diplomatica, Zugarelli lo apostrofò a brutto muso e stretto stretto gli disse «vedi d’annattene sennò menamo pure a te».

Oggi sarebbe impensabile perdere una partita come Panatta la fece perdere contro l’Inghilterra, in doppio. Aveva in antipatia uno dei fratelli Lloyd. «Adriano detestava i brutti e chi si vestiva male», racconta Pietrangeli. «Aveva un rovescio scarso e un dritto fortissimo», aggiunge Bertolucci, «e Panatta si era fissato che doveva dargli una lezione giocando sul suo colpo più forte, gli doveva togliere il vizio, diceva. Ovviamente finì che il vizio lo tolse lui a noi». «Ero insopportabile», confessa candidamente Adriano, capace in un doppio misto con Monica Giorgi di fermare un pallonetto avversario con la mano per catechizzare la compagna: «Qui gli smash li faccio solo io». Poteva battere chiunque e perdere da chiunque. Alto, bellissimo, perfetto esemplare del disincanto romano, con i capelli lunghi (che una volta fu costretto a tagliarsi per giocare in Coppa Davis), quella mano perennemente ad aggiustarsi la fila di lato, il Foro Italico così distante dallo stile british di Wimbledon con il coro “Aaaadriano” e monetine e oggetti vari lanciati in campo, un colpo – la volée alta di rovescio–- che per lui venne ribattezzata “veronica”. Era semplicemente un mito. Avrebbe potuto vincere molto di più è l’accusa che gli è sempre stata mossa. Oggi si può rispondere: Sì è vero, ma la serie tv sarebbe stata di gran lunga meno interessante e divertente.

Non era solo Panatta. Nella trasferta in Polonia, Bertolucci si infortunò per giocare a calcio-tennis («l’unico momento in cui si impegnava davvero», lo punzecchia Panatta) e allora scese in campo l’inedita coppia dei “nemici” Panatta e Barazzutti. E ovviamente vinsero. Per non parlare degli scherzi con cui Barazzutti e Zugarelli si vendicavano di Adriano: gli nascondevano scarpe, calzini e altri accessori. Divertenti e divertiti, i quattro cambiano quasi voce e postura quando parlano di Mario Belardinelli. Il Carlo Vittori della racchetta, per chi ama l’atletica leggera. Durante il regime fascista dava lezioni di tennis al Duce. È l’uomo che diede vita al centro tecnico di Formia. Che li andò a pescare uno per uno. Che si inventò la coppia Panatta-Bertolucci. Che in Cile quasi aggredì fisicamente Adriano quando questi osò dire che non stava bene e forse non se la sentiva di giocare. Che finì in ospedale la sera prima della finale perché si andò a fracassare contro una vetrata dopo una discussione con Pietrangeli. Gli davano tutti del lei. Il rispetto e la stima per quella figura carismatica sono tuttora palpabili.

Il trailer ufficiale

Un racconto lieve, che non sminuisce di una virgola la forza di quel gruppo. Di quella squadra. Che in cinque anni raggiunse quattro finali giocandole purtroppo tutte fuori casa. Una in Australia, sull’erba, con un clima interno che cominciava a farsi teso, con Pietrangeli e Panatta che sul più bello ruppe una corda. L’ultima in Cecoslovacchia, dove furono battuti da arbitraggi da Paese comunista. Allora il muro c’era ed era bello alto. Era un altro mondo. Gli anni Settanta. L’Italia delle lotte politiche. Col Pci oltre il 30% e una sinistra extraparlamentare che si faceva sentire. Una delle puntate è dedicata alla battaglia per andare a giocare quella finale nel Paese di Pinochet, per evitare il boicottaggio. Battaglia condotta da Nicola Pietrangeli, un ruolo che tutti gli riconoscono. Persino Zugarelli. Il Pci non voleva, il governo Andreotti non si sarebbe certo impiccato alla Coppa Davis, l’opinione pubblica – fortemente orientata a sinistra – era fermamente contraria. Domenico Modugno scese in campo con una canzone che irrideva la trasferta cilena. Pietrangeli condusse una vera e propria campagna elettorale, si confrontò con esponenti del Pci (lui che era decisamente di idee opposte) e alla fine la spuntò. Anche qui c’è una divisione. Panatta ricorda che anni dopo la verità venne fuori, il comunista Pirastu raccontò che i compagni clandestini cileni fecero sapere a Berlinguer che lasciare la vittoria al Cile sarebbe stato un boomerang propagandistico. E alla fine si partì. E si vinse. Finale che in Italia venne quasi oscurata, se ne parlò il minimo necessario. Non venne trasmessa in diretta tv e dell’evento ci sono pochissime immagini (girate da Gigi Oliviero) e un introvabile disco-racconto del giornalista Rai Mario Giobbe. Archeologia, appunto. Al loro ritorno in Italia, agli “eroi” fu consigliato di utilizzare un’uscita secondaria. Il tributo di questi giorni, in fondo, è una sorta di risarcimento. Con quarantasei anni di ritardo.

Ha ragione il regista Procacci quando, a proposito di Panatta e Bertolucci, dice: «Resto convinto che per colpa del tennis l’Italia abbia perso una grande coppia comica. Totò e Peppino? Anche un po’ Sandra Mondaini e Raimondo Vianello». Era un’altra epoca. Per il tennis come per l’automobilismo. Erano professionisti, sì, ma vivevano e soprattutto si divertivano. Lo stress non sapevano che cosa fosse. La serie tv Una squadra è un po’ la versione tennistica del film Rush, almeno per quel che concerne la vita del pilota britannico di Formula Uno James Hunt. Capelli lunghi anche lui, pur se biondi. Fila di lato anche lui. Non a caso il suo Mondiale lo vinse nel 1976.