Scalare, scappare, resistere

Come si vince contro il tempo in bicicletta? Un viaggio tra i diversi tipi di ciclista.

Una delle prime immagini che viene associata a una gara di ciclismo è quella di una lunga salita. Un’ascesa ripida e infinita, con tornanti lunghissimi che non mostrano via di scampo, e una massa di corridori chini sulle loro biciclette, boccheggianti, pieni di pensieri, o forse con un solo pensiero in testa: quello di arrivare in cima. Questo scenario rispetta e rispecchia l’idea del ciclismo come sport popolare, umile; racconta la fatica, la passione, la voglia di superare i limiti che caratterizzano tutti i ciclisti. Il vero elemento decisivo, però, è il tempo. Battere il tempo, infatti, significa battere anche tutti gli altri avversari, significa sconfiggere il dolore e la sofferenza di una tappa, di una corsa. «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia». Con queste parole Marco Pantani, uno dei più grandi scalatori della storia, cercava di spiegare a Gianni Mura il senso delle sue imprese in salita, nello scenario che abbiamo già descritto. Questo stesso discorso vale anche per tutte le altre tipologie di ciclisti, a cominciare ovviamente dai cronoman, fino ad arrivare ai passisti e ai velocisti. Si tratta di atleti fisicamente e anche emotivamente diversi, che quindi intendono e vivono il cronometraggio delle proprie gare – affidato a Tissot, Official Timekeeper del Giro d’Italia, del Tour de France e della Vuelta a España, oltre che dei Campionati mondiali di ciclismo su strada, su pista, mountain bike e BMX e della Coppa del mondo di ciclismo su pista – in maniera differente. Perché il tempo è l’avversario più difficile da battere, e quindi non può esistere un solo modo per farlo. Per riuscirci.

Scappare
Le corse a cronometro sono quelle in cui ogni corridore parte da solo, a distanza di pochi minuti dai suoi avversari. Vince chi fa il tempo più basso, quindi un cronometraggio preciso, puntuale, è la cosa più importante. Esiste anche la “cronometro a squadre”, che si disputa tra squadre composte da più atleti. La distanza di queste prove (di solito ce ne sono due o tre nei grandi giri) varia da pochi chilometri fino a un massimo di 60/70 km. Gli specialisti di questo tipo di corsa vengono definiti Cronoman. Questi ciclisti, flessibili e aerodinamici, riescono a tenere una potenza sui pedali molto alta per un breve lasso di tempo, tra la mezz’ora e l’ora – questa potenza è definita wattaggio, dall’unità di misura Watt. A livello biologico, i cronoman sono in grado di smaltire elevate quantità di acido lattico in breve tempo, senza accusare noie muscolari o crampi: è come se il loro corpo riuscisse a nascondere il dolore per un determinato arco di tempo. In questo senso, la loro percezione della gara può essere vista come una fuga fin dal principio: il tempo deve crollare alle spalle del corridore, che non può fare altro che scappare verso il traguardo, sperando che quello non lo raggiunga mai.

Nel caso dei cronoman, dunque, il tempo è una ghigliottina a cui sfuggire, un’onda anomala da cui scappare verso riva. Per misurare la portata di questa onda, Tissot utilizza una serie di sistemi tecnologicamente all’avanguardia: cronometro, fotocellula di arrivo, fotofinish, transponder e computer, tutti in duplice esemplare a garanzia della massima sicurezza. Nelle tappe a cronometro, tutto viene integrato da fotocellule sulla rampa di partenza che vengono attivate dagli stessi ciclisti, dopodiché il tempo viene registrato più volte in corrispondenza dei punti intermedi e ovviamente al traguardo, grazie ai transponder installati su tutte le biciclette, e che inviano dei segnali e dati al computer di cronometraggio. Questi dati sono subito disponibili per essere divulgati su ogni supporto, ma soprattutto sono precisi fino al decimo di millesimo di secondo.

Espiazione
Ci sono ciclisti che hanno trovato il loro habitat naturale nelle strade inclinate, quelle su cui è più difficile andare veloci. Gli scalatori, infatti, sono leggeri e vanno forte in salita: Pantani è stato il loro simbolo, oggi possiamo pensare a Quintana, Sagan, Roglic, quest’ultimo vincitore delle ultime tre edizioni della Vuelta a España, oro olimpico nella prova a cronometro ai Giochi di Tokyo 2020 e ambassador di Tissot. Possono essere divisi in due sottogeneri: regolari e attaccanti. I regolari riescono a mantenere un’andatura costante, restando seduti sul sellino, mentre gli attaccanti hanno la capacità di alzarsi sui pedali, staccando il gruppo, facendo il vuoto dietro di sé; questi ultimi solitamente non vanno molto forte in pianura, sia nelle gare dove si corre in gruppo sia in quelle a cronometro, dove si corre da soli, e quindi devono far fruttare al massimo le loro doti nei giorni in cui ci sono i tratti con le salite più dure, soprattutto nell’economia di una corsa a tappe come il Giro, il Tour, la Vuelta.

Nell’approccio degli scalatori attaccanti c’è un’urgenza che li rende spesso i ciclisti più amati dal pubblico. È qualcosa che ha a che fare con l’empatia che proviamo nei confronti del protagonista di una qualsiasi storia, un essere umano che compie un viaggio per sanare la propria ferita. È come se gli scalatori decidessero di prendere il dolore di petto, di affrontare il proprio destino con determinazione. Un bisogno che può anche essere letto come una fuga dall’inferno, un’espiazione da compiere il prima possibile. Per restare più nello specifico della gara, è come se facessero un tentativo di accorciare il tempo, di trasformarlo, per farlo passare da denso a inconsistente, volatile, rado.

Tissot è diventato Official Timekeeper del Giro d’Italia a partire dall’edizione 2020, dopo aver riallacciato i rapporti con Tour de France e Vuelta a partire dal 2016. In questo modo, Tissot ha completato un vero e proprio Grande Slam ciclistico, diventando il primo marchio di orologeria a essere partner mondiale di tutte e tre le corse a tappe più importanti in assoluto, tra le competizioni sportive più amate e prestigiose del mondo. (Foto Tornanti Cycling Photography)

Resistenza
Se il tempo degli attaccanti è aritmico, quello dei “passisti” è esattamente l’opposto: scandito, cadenzato, ritmato. Un tempo rallentato e pesante come quello di un orologio a pendolo antico, di quelli che muovono con fatica le loro lancette impolverate, anche se in realtà il cronografo è moderno ed estremamente preciso, e corre esattamente come per tutti gli altri ciclisti in gara. I passisti riescono a mantenere un’andatura sostenuta per lunghi tratti in pianura, distribuendo le forze. Hanno anche la capacità di stare al vento per molto tempo, cioè di stare in testa al gruppo, definendo il ritmo della gara per tutto il giorno.

Questa forza nel resistere racconta la tenacia e la pazienza di chi sa ascoltarsi, seguendo la propria strada. In un mondo dominato da continue tentazioni, dove l’ultimo stimolo è sempre quello più importante, la capacità di mantenere la rotta senza incagli ha qualcosa di eroico. È qualcosa che c’entra con la scoperta di sé, con la ricerca della propria identità. I passisti sono animati da domande, più che da desideri di vittoria: quanto posso durare? Quanto posso spostare la soglia dei miei limiti? Non siamo quindi di fronte a un approccio alla gara come qualcosa da consumare il prima possibile, ma come una scalinata da salire con calma, un gradino alla volta. Anziché accorciarsi, il tempo si allunga e si dilata; nel tentativo del passista, la gara potrebbe potenzialmente durare per sempre. È sempre maggiore la parte di noi che non conosciamo, rispetto a quella che pensiamo di conoscere.

Azzannarsi
Una gara di ciclismo può anche essere vista come un agguato. Da studiare, da preparare, mentre il cronometro corre. È il caso dei velocisti, favoriti nelle gare poco mosse, quelle con un rettilineo finale. Per loro il tempo è un’attesa, una preparazione, un rito che richiede cura e costanza per la maggior parte della sua durata. Ma che si compie veramente solo nelle sue ultime fasi. Anche in questo caso, però, va fatto un distinguo. Ci sono i velocisti puri, generalmente molto pesanti (dai 75 kg in su), in grado di esprimere una potenza altissima in pochissimo tempo, che in salita faticano molto e in volata hanno bisogno di un “treno” di compagni che gli apra la strada, di cui possano seguire la scia – anche se questa tattica oggi è piuttosto in disuso. E poi ci sono i velocisti fondisti, più leggeri e aerodinamici, in grado di reggere bene anche dopo tanti chilometri e di sprintare in autonomia. Per entrambe le categorie, la scelta del momento esatto in cui colpire, prima di una volata, ha in sé qualcosa di mistico e primordiale. Nel caso dei velocisti puri è fondamentale il gioco di squadra.

Il treno di una squadra che si prepara alla volata è come un branco di iene che si aggira nella mandria di gnu per scegliere una preda, e coordinandosi si prepara ad attaccare. In questi casi è fondamentale sentire la presenza del proprio compagno a ruota, così come quella degli avversari. Quando spostarsi per far passare il capitano, quando attaccare, sono scelte che hanno a che fare con un tempo sospeso, con la tensione. Un tempo che viene coltivato per ore, per poi essere bruciato, frantumato in pochissimi secondi. Il progressivo abbandono della tattica del treno ha portato molti velocisti contemporanei a scegliere direttamente l’avversario giusto a cui incollarsi fino a un attimo prima dello sprint finale, per tentare di superarlo negli ultimissimi metri. Come sciacalli in cerca di un animale ferito da seguire finché non crolla, finché non è il momento giusto per azzannare.

Ogni ciclista, a prescindere dalla tipologia cui appartiene, è predisposto per navigare in un’aria diversa, per percepire il tempo in un certo modo, che sia resistendo o attaccando in modo fulmineo, ma tutti passano da una profonda connessione col presente. Un concetto che oggi, viziati come siamo dalla tecnologia on demand, è sempre più difficile da sperimentare. In questo senso, alcune parole di Marco Pastonesi – ex giornalista della Gazzetta dello Sport e autore di due meravigliosi libri sui gregari, Il diario del gregario ovvero Scarponi, Bruseghin e Noè al Giro d’Italia (Ediciclo, 2004), e Spingi me sennò bestemmio (Ediciclo, 2018) – sono piuttosto significative: «La bicicletta stessa può essere vista come una macchina del tempo. Guardando le nuove bici di adesso (come quella avveniristica con cui Ganna ha fatto i 101 km/h ndr) e guardando la draisina (la prima bicicletta, costruita nel 1817) stai guardando a due secoli di storia. È un pezzo di evoluzione tecnologica. Ma la bici è anche simbolo di regressione, in senso più sentimentale: chi pedala ringiovanisce. È una metafora esistenziale». È il tempo e il cronometro che tornano indietro invece di andare avanti: non è possibile, ma è bello pensare che possa succedere, anche solo per qualche istante.

Da Undici n° 44