Federer, Nadal e la costruzione di una rivalità perfetta

Un estratto dal libro L'ultima scimmia: L'evoluzione del tennis dalle origini dell'uomo a Roger Federer, di Marco Bucciantini e Federico Ferrero.

Se un tennista sembra essere stato costruito per portare avanti l’evoluzione della specie, con i gesti e i movimenti del passato adattati alle velocità dell’oggi, quello è Roger Federer. Se un tennista sembra essere stato studiato, col senno di poi, per mettere in difficoltà la macchina perfetta, quello è Rafa Nadal. Nadal non è stato l’alter ego per contrasto di Federer soltanto in quanto è esteriore: ma anche in quello. Mentre gli stilisti di una notissima marca di abbigliamento ripescavano linee e ricami dal passato, per permettere a Federer di vestire tessuti tecnologici che conservassero un’aura di vintage, gli stessi cambiavano scrivania per dare un taglio a tutto quanto di elegante e classy la tradizione del tennis portasse con sé: la canottiera, i pantaloni a pinocchietto, i colori fluo – sdoganati da Andre Agassi tempo prima, per il vero. Come purtroppo accade sempre, chi deve rispondere delle sue azioni al mercato, al padrone, al capitale, intuisce le cose in anticipo o almeno ci prova. Così, già dal 2004 la Nike inaugura due stili dei modi di vivere che riflettono esattamente l’estetica del gioco dei protagonisti. Aiutano a costruirla, ma è già presente, netta, visibile: una specie di architettura originaria che prevede ed esalta le due cose insieme. È l’archetipo del duello che ha elevato Federer e Nadal sopra tutte le altre rivalità, anche quelle più ripetute nelle sfide (fra Djokovic e Rafa, per esempio). Che crea narrazione, attrae come un destino ineluttabile i contendenti, li chiama “dentro”, come fu per Sampras e Agassi, McEnroe e Borg: non conta quante volte è successo, ma fu decisiva la capacità di esplorare tutti i sensi e tutte le possibilità del gioco e convocarne così tutte le passioni. E così per altri sport: quante volte l’avversario è stato necessario alla narrazione? E quanto ha guadagnato il racconto di un’epoca e di uno sport dalla concorrenza di due campioni in forte contrasto caratteriale e di stile? Perfino accentuando queste sfumature, fino a farle diventare tipicità?

In Italia, questo rispondeva anche alla necessità di dividersi, costume profondo ed eterno della nostra origine: si era per Bartali o per Coppi, ed erano due modi di vedere il mondo, non solo una salita. Due interezze straordinarie che conveniva dividere, per riunire solo nella somma. Gli esempi sarebbero molti, spesso addirittura si cercano rivali fra campioni di epoche diverse, con la scusa del paragone. Federernadal, allora. A lottare ognuno per rivendicare un modello di gioco, di esistenza e insieme affermare un mondo di ricchezza tecnica, agonistica ed emotiva. Sono parallele che si incontreranno in un campo di tennis ma sono anche linee che hanno raccolto un desiderio nostro di appassionati e loro di campioni perché la rivalità resta un nutriente dalle proprietà antiossidanti – ancora pescando nel mondo: guardate Ronaldo e Messi quanto sono ossessionati dal collezionismo di titoli e gol, in una sfida ai numeri della storia, in un’urgenza dei loro caratteri ma anche nell’infinito duello fra loro.

Federer ha assaggiato Nadal in una finale per la prima volta nel 2005, a Miami (ci aveva già giocato, e perso, l’anno prima, sempre in Florida, in secondo turno: un avviso al quale Federer non sembrò dare la giusta importanza). La finale dell’anno successivo era comunque inattesa, la terra sudamericana aveva già mostrato il futuro tiranno della superficie, ma altrove Nadal sembrava valere la sua classifica: era ancora fuori dai primi 30. Dopo il torneo di Miami sarebbe stato numero 11, dopo tre settimane sarebbe entrato nei primi 10 e non è mai uscito dalla top ten dal 25 aprile del 2005 fino a questa stampa: sono quindici anni e mezzo che lo spagnolo sta lì. Sono quindici anni e mezzo che si iniziò a capire qualcosa: Federer riuscì affannosamente a raccapezzarsi, indietro di due set e 1-4. Schiacciato, quasi fino alla sconfitta, da un avversario che proponeva un’intensità, una capacità difensiva e una esplosività che mettevano in dubbio le certezze fino a quel momento acquisite sulle qualità di ribattitore nella storia. In un attimo i Borg, i Vilas, i Courier parevano personaggi sbiaditi di un filmino super-8.

Quello stesso schema, nel tempo, si sarebbe riproposto in più contesti: dalla terra battuta, superficie sulla quale Federer poté giusto rimpiangere due match point nella partita per il titolo a Roma nel 2006, al cemento e all’erba. Dove giunse la più dolorosa delle sconfitte per lo svizzero, nella finale del 2008, perché molti la vissero come la violazione dell’ultimo fortino – in realtà, rispetto all’erba rallentata dei tempi moderni, sono i tappeti indoor a essere i più ostici per lo spagnolo.A un certo punto della loro rivalità, da più parti si levava un’obiezione: come può Federer essere considerato il più grande di tutti i tempi, se non riesce a essere migliore del suo primo antagonista? A macchiare, per così dire, la valutazione degli incroci Federer- Nadal è subentrata, col trascorrere delle sfide, una variabile non imparentata con la tecnica né la tenuta fisica, ma con la mente. Semplicemente, Federer si era dovuto convincere di non avere il controllo della situazione, se di là c’era Rafa Nadal. Una sensazione mai provata prima.

Nella lotta per la conservazione dei suoi primati – su tutti il numero di Slam, la prima posizione mondiale – Federer ha però accettato compromessi che un altro tennista classico come Pete Sampras rifiutò dogmaticamente. O forse, più che di compromessi bisogna parlare di progressismo. Si è rivolto a più di una guida tecnica per ottenere risposte al dinamismo del tennis contemporaneo, accettando suggerimenti da Stefan Edberg prima, da Ivan Ljubicic dopo. Si è aperto alla prova di una nuova racchetta, con un ovale maggiorato rispetto a quei microscopici telai da 90 pollici – addirittura, agli esordi, la Wilson Pro Staff Original da 85 – adottando un piatto da 97 pollici, più ampio e capace di perdonare impatti imperfetti, più capace di dare un aiuto alla spinta nei colpi.

La finale degli Australian Open del 2017, e poi il filotto vincente di quella stagione, hanno solo in parte raddrizzato la contabilità delle sfide tra Federer e Nadal ma hanno soprattutto offerto una vista su un qualcosa che, probabilmente, sarebbe potuto accadere molto prima e più spesso e hanno permesso ai tifosi di Federer di accertare che nelle possibilità del beniamino vi erano anche i mezzi, le qualità, le idee per battere Nadal: andavano solo trovate. D’altra parte, Federer, da Nadal più che da ogni altro, è stato messo nelle condizioni di non farsi più bastare quanto era sufficiente per domare la concorrenza. Dal canto suo, il giovane Nadal aveva trovato l’incastro perfetto per inceppare il meccanismo-Federer ma non quello per rendersi competitivo con costanza su tutti i terreni del tennis. Circostanza che lo indusse ad aggiungere, pezzo per pezzo, anno per anno, nuove dotazioni al suo gioco: più servizio, più rovescio, più aggressione a rete. Fatto sta che la rivalità si presentava perfetta, era attesa come l’evento di ogni torneo importante, ma cresceva in pendenza. La vittoria di Nadal a Wimbledon nel 2008 e quella sei mesi dopo in Australia, in una finale drammatica che Federer affrontò in splendida forma, con un gioco al massimo delle sensazioni, e che Nadal invece agguantò dopo una semifinale infinita e sfibrante contro un grande Verdasco, eppure ne ebbe ancora in finale per spegnere al quinto set l’allora numero 1 del mondo, sbilanciarono definitivamente non solo i quozienti delle sfide ma anche l’immaginario: Federer, il più grande, in quella partita diventava lo sfidante.

Anche questo serviva alla teoria: la minaccia al gesto bianco era reale, grave, ostile. Lo svizzero tremava, lo spagnolo mai. Lo svizzero volava sempre qualche metro sopra Nadal, ma poi atterrava, e l’altro rimaneva sopra, inesorabilmente. Ogni partita sembrava tracciata prima, già vissuta da entrambi, già vinta da Nadal, già persa da Federer che pure – ogni partita – aveva momenti di eleganza, dominio, facilità così da poter illudere, appena un po’, ma passava il tempo e non era nemmeno più illusione: era consolazione.

Un estratto dal libro L’ultima scimmia: L’evoluzione del tennis dalle origini dell’uomo a Roger Federer, di Marco Bucciantini e Federico Ferrero, edito da Hoepli