Gianni Clerici è morto di pomeriggio, o perlomeno la notizia s’è diffusa di pomeriggio: attorno alle cinque, l’ora del tè e delle corride di Federico García Lorca, il contesto che si attaglia più di tutti a Rafa Nadal. Molto più delle albe australiane che duravano solo due settimane o delle sere americane, a volte troppo lunghe fino a diventare notti per essere seguite fino in fondo, il pomeriggio era il suo habitat catodico. Nell’immaginario di un ragazzino davanti a uno schermo inondato di rosso o di verde, Clerici era un uomo da chiacchiera post-prandiale, un accompagnatore dolce e ironico da cui farsi guidare sull’erba di Wimbledon e sulla terra battuta del Bois de Boulogne, filtrando attraverso i suoi pensieri spericolati le incredibili vicende trasmesse dalla tv: Michelino Chang che serve da sotto contro Lendl, André Agassi che risponde comodini stando due passi più in qua della riga di fondo, la crisi di nervi di Martina Hingis contro Steffi Graf.
Da giornalista di lunghissimo corso, superata da un pezzo la boa dei 50 anni, ottenne nuova e imprevista popolarità scoprendo di possedere tempi televisivi miracolosi in simbiosi con Rino Tommasi, affiatati come forse solo Jack Lemmon e Walter Matthau sono stati nella storia dell’intrattenimento. Tommasi era ovviamente Matthau, burbero, cinico, razionale, di destra; Clerici era Lemmon, svampito, allegro, di sinistra, seminatore di scompiglio nell’inflessibile rendiconto del collega intento a decorare di circoletti rossi i suoi taccuini, formidabile computer umano decenni prima che inventassero Internet.
Penna magnifica, ma questa è un’ovvietà. Così ricordava l’ultima volta che si era occupato di calcio, come vice di Gianni Brera al Giorno per seguire Inter-Liverpool, semifinale di Coppa Campioni 1965: «Scrissi come sempre ispirandomi a miei maestri di sense of humour, specialità poco praticata da noi. Il giorno dopo, ricevetti una telefonata di alcuni tifosi dell’Inter, che mi minacciavano di bruciare il bosco – vivo in un bosco – e di uccidermi i cani – ho sempre avuto cani. Chiesi di occuparmi di sport meno cruenti, e fui esaudito». Una quantità innumerevole di soprannomi, aforismi, frasi celebri come quella con cui infiocchettò l’articolo sulla mitologica Borg-McEnroe, ultimo atto di Wimbledon 1980: «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì. Non solo per questo, la finale mi è parsa indimenticabile».
Ha del clamoroso il modo in cui un uomo vicino alla sessantina si sia trasformato in strepitoso commentatore dello sport più anti-televisivo di tutti, di cui è ignota la lunghezza dell’evento che si va a commentare e persino se sarà interrotto da eventuali agenti atmosferici. Tommasi & Clerici sono stati il non plus ultra degli ultimi trent’anni (almeno) di telegiornalismo sportivo, a un livello toccato forse dai soli Federico Buffa e Flavio Tranquillo: ma Buffa e Tranquillo raccontavano l’NBA, l’evento adrenalinico e iper-vitaminico per definizione, mentre la passionaccia di Gianni e Rino li portava in cabina anche per scontatissimi secondi turni stile Sampras-Reneberg 6-3 6-4 6-2, partite che senza il brivido dell’incertezza agonistica diventavano mere decorazioni, semplici cornici dei numeri di situazionismo dei due. Ogni tanto, nei momenti di maggior noia, Clerici si cimentava nel “game didattico”, descrivendo didascalicamente le mosse dei giocatori a uso e consumo della casalinga di Voghera: «I punti nel tennis sono 15-30-40-game, il colpo con cui la pallina si muove parallela alla linea laterale si chiama lungolinea», eccetera. Altre volte discettava di politica estera e interna, gastronomia, viabilità, educazione sentimentale, sospiri rimembrando una Suzanne Lenglen peraltro mai conosciuta. Inimitabile, e perciò inimitato: anche alla hybris c’è un limite.
Tommasi e Clerici hanno elevato il tennis rendendogli un servizio immenso, con un racconto insieme coltissimo e precisissimo, senza mai trattare lo spettatore come un cretino, alternando come fossero dritto e rovescio la statistica e lo svolazzo, antenati di ogni tentativo di storytelling. Nelle sue scatenate divagazioni Clerici dava il meglio di sé, lanciandosi senza paracadute in resoconti immaginifici – e forse immaginati – come quando raccontava di essersi inginocchiato a baciare il ginocchio di Venus Williams sotto lo sguardo benevolo di papà Richard, e non sapevi se era la verità o una scena di Eric Rohmer. Alcuni aneddoti oggi sarebbero irriferibili e gli costerebbero almeno una mail di reprimenda da parte di qualche direttore di rete poco spiritoso. Il livore e la schematicità dei tempi odierni probabilmente gli impedirebbero di intonare “Bingo Bongo” all’inizio di ogni collegamento da Melbourne come ha fatto per anni, divertito dal cazzeggio e fiero dell’enorme libertà di poter dire e fare qualunque cosa pensasse, una libertà che insieme alla credibilità da Hall Of Fame si era conquistato con decenni di servizio impeccabile sul campo.
La storica intro di Clerici e Tommasi
Negli anni bui del tennis italiano, gli Ottanta e i Novanta in cui c’era da stappare lo spumante se un nostro rappresentante si spingeva fino alla seconda settimana di uno Slam, Tommasi e Clerici furono sempre durissimi verso il potere incarnato dall’intoccabile presidente Galgani e sempre attenti a non indulgere mai nel giustificazionismo o peggio nel tifo verso un tennista italiano anche quando la faccenda si faceva appassionante, per non apparire “ùltras” alla maniera di un Bisteccone Galeazzi da loro sempre affettuosamente sfottuto. Una lezione dimenticata, ma in fondo non voleva nemmeno essere una lezione: a Clerici fregava davvero poco di star simpatico ai cacìcchi del Foro Italico. Giornalista di fama e stampo internazionale, che conversava normalmente con i colleghi di tutto il mondo, che s’incuriosiva di qualunque tennista fino anche a intervistarne i genitori, che bazzicava i campi laterali in cerca della milionesima storia da raccontare (celebre l’aneddoto sul giovanissimo Pete Sampras agli US Open juniores 1987). Autoreferenziale ma mai ombelicale, cittadino del mondo, newyorkese londinese e parigino, un uomo non per tutte le stagioni ma per tutte le superfici.
Chissà come avrebbe commentato gli exploit della nouvelle vague italiana. Non gli sarebbero certo piaciuti i comportamenti di Fognini (chi scrive ricorda ancora l’imbarazzo per le bestemmie a tutto volume del toscano Daniele Bracciali in un match contro Bjorkman a Wimbledon 2006). Magari avrebbe sottovalutato Berrettini, forse troppo romano per i suoi gusti lacustri, trattandolo più come un sex symbol che come un top 10. Invece gli sarebbero andati a genio Musetti e soprattutto Sinner, più mitteleuropeo, più nervoso e tormentato, nonché allievo del suo allievo e amico Riccardo Piatti. Se n’è andato nella fascia oraria della giornata dove ha lasciato i ricordi più profondi, che negli appassionati della mia generazione sono ricordi legati all’infanzia e all’adolescenza, quando la voce di Clerici diventava geniale, severa, squillante, ridanciana, provocatrice, in ogni caso sorprendente, una boccata d’aria fresca contro l’afa di luglio o il tran-tran degli infiniti scambi tra due “arrotini”. Viene in mente la prima strofa della più bella e famosa delle canzonette italiane, che dipinge in modo impareggiabile la noia dei pomeriggi d’estate, quando non trovi “neanche un prete per chiacchierar”. Certo Gianni Clerici non era un prete, ma è stato tutto il resto.