L’umanità del futuro ci studierà attraverso i nostri equivalenti delle pitture rupestri e delle tavolette incise con il cuneiforme. Proveranno a capirci attraverso i meme e gli hashtag, su TikTok e Instagram i posteri ritroveranno di noi quello che noi abbiamo scoperto dei nostri antenati nella grotta di Lascaux e nei templi di Shiraz. Un giorno, un archeologo degli anni Centomila si chiederà perché, a un certo punto, gli esseri umani che millenni fa abitavano la penisola italica – un luogo nel frattempo affondato nel Mediterraneo e asceso nella leggenda grazie all’innalzamento del livello del mare – cominciarono a recitare infinite variazioni di una sorta di filastrocca, una poesiola la cui origine, per l’archeologo degli anni Centomila, sarà una segreto perso come per noi è quello della vera identità di Omero. Perché, si chiederà l’archeologo degli anni Centomila, a un certo punto lo strumento prediletto per esprimere una controversa opinione personale è diventata quella breve successione di versi?
Cristiano Ronaldo mi piace? NO!
Ha fatto 807 gol… Chapeau!
Ha vinto tanto? Chapeau!
Mi piace come giocatore? NO!
Lo metto tra i più grandi della storia? NO!
Parere mio personale, sbaglierò? AMEN!
Per me è la qualità, raffinatezza, Ventola…
Chi era Cristiano Ronaldo, si chiederà l’archeologo, interrogandosi su di lui come noi ci interroghiamo su Achille, condottiero dei Mirmidoni di Ftia. E chi era questa Ventola (i suoi avveniristici traduttori non gli eviteranno l’equivoco tra il nome proprio e il sostantivo) con la cui invocazione si chiude la poesia, vorrà sapere l’archeologo, in volto la stessa espressione ammirata con cui noi sogniamo le Muse ispiratrici dei poemi omerici. Ma, soprattutto, l’archeologo vorrà sapere dell’autore del componimento, delle sue motivazioni e delle sue scelte, della sua formazione artistica e delle sue passioni culturali. Da altri reperti e precedenti ricerche, l’archeologo saprà che il nome dell’artista era Cassano, e che era solito impegnarsi in settimanali agoni poetici in compagnia di altre figure con le quali evidentemente condivideva status, aveva familiarità e che gli concedevano ampie libertà. Quello conosciuto come Bobo sembrava sedere a capo di questo simposio, affiancato da un Lele il cui nome viene pronunciato da Cassano sempre all’interno di una rapida ripetizione («Le-le, le-le»), seguita spesso da un imperativo «senti ammè». L’ultimo componente del gruppo, Ventola, è causa di difficoltà ed equivoci interpretativi: perché, nella poesia, Cassano sembra rivolgersi a lei con deferenza, mentre nei settimanali appuntamenti in presenza della divinità ripete spesso che quest’ultima «non capisce un cazzo?». Trattasi forse di un caso di omonimia, proverà a indagare l’archeologo, come quello che noi sappiamo esserci stato tra Aiace Telamonio e Aiace d’Oileo sul campo di battaglia di Troia?
Naturalmente queste saranno le domande minori che l’archeologo si porrà. Il mistero resterà sempre la poesia e l’attenzione si poserà sempre su di essa. Perché il poeta ha dato alla composizione quella particolare struttura nei versi e nelle strofe? Sette versi raggruppati in una sola strofa, i primi quattro che sembrano seguire la successione della rima incrociata (ABBA), dominati dal susseguirsi di quello «Chapeau», un “tanto di cappello” pronunciato in un peculiare creolo barese-parigino («Sciapòh») che non sfigurerebbe in una versione de L’odio di Kassovitz ambientata a Bari Vecchia. Gli ultimi tre versi, invece, rifiutano ogni fissità strutturale, abbandonandosi a liberatorie negazioni in chissà quale delle lingue romanze (NO!) ed affermazioni in ebraico antico (AMEN!).
E cos’è questa metrica che sembra sfuggire a ogni precedente storico, questa successione di domande retoriche alle quali si alternano risposte scontate e opinioni sorprendenti, facendo sì che i concetti ricalchino la sequenza delle rime che li esprimono? Non è esametro né giambo né endacasillabo, ma una cosa nuova pensata appositamente per lo scopo del poeta. Ma qual era, questo scopo? Apparentemente spiegare un’opinione molto personale e molto controversa, sfidare una verità considerata universale e proteggere il diritto dell’individuo non solo alla sua visione del mondo ma a una sua errata visione dello stesso («Parere mio personale, sbaglierò? AMEN!»). Un messaggio indubbiamente universale ai tempi in cui il poeta Cassano lo componeva, penserà l’esploratore, come dimostra l’amplissima diffusione e condivisione dell’opera sui primordiali social di inizio anni Duemila.
Genesi
Nei giorni successivi alla prima recita dell’agone poetico noto al tempo come BoboTV, infatti, su TikTok se ne videro rielaborazioni di ogni tipo. Ci fu chi lo usò per esprimere il suo disappunto nei confronti della famiglia, per criticare sorelle minori e figli infanti. Ci furono studentesse adolescenti che ne fecero uso per rivendicare la loro scelta di fare serata invece di passare la nottata sui libri in vista dell’esame di Stato e maestre d’asilo che lo reinterpretarono per spiegare quanto schifassero i lavoretti realizzati dai loro piccoli alunni. Ci furono compaesani del poeta che presero in prestito le sue parole per raccontare la superiorità di Cerignola e Alberobello rispetto a Dubai. Persino Paperino, uno dei personaggi di finzione più popolari del Novecento, recitò la poesia per confessare la sua antipatia per il collega Topolino. Nutrizioniste la reinterpretarono per spiegare che, all’interno di una dieta equilibrata, non fa nessuna differenza mangiare la pizza margherita o quella wurstel e patatine. L’opera superò addirittura i confini nazionali e fu tradotta in chissà quante lingue: l’archeologo troverà forse l’unica giunta fino a lui, la trasposizione albanese in cui, curiosamente, la dea Ventola viene tradotta con una versione maschile chiamata «ventilatore».
Scrivo queste righe non per i miei contemporanei ma per l’esploratore degli anni Centomila, sperando che arrivino a lui in qualsiasi forma la parola scritta verrà letta in futuro. Voglio dargli una mano nella sua ricerca e dirgli che l’origine di “Sciapòh” è sconosciuta anche ai contemporanei di Cassano. Forse ha sempre fatto parte dei suoi stilemi, forse noi ne siamo diventati consapevoli solo quando la usò in una filippica contro Riccardo Trevisani, reo di non considerare meritato il Pallone d’Oro 2021 assegnato a Lionel Messi (se Ronaldo è Achille, come detto più su, Messi è Agamennone, caro archeologo degli anni Centomila), per questo definito da Cassano come uno che «non capisce un cazzo» nonostante «porti gli occhiali», strumento di ausilio alla vista al quale, secondo Cassano, Trevisani dovrebbe provvedere cominciando a metterli «doppi» (non è chiaro neanche a noi se Cassano intendesse che Trevisani dovrebbe indossare due paia di occhiali contemporaneamente o un solo paio ma con lenti di spessore raddoppiato).
Ma a parte questi dettagli, questa filippica è certamente la prima occasione in cui ci siamo accorti – noi contemporanei del poeta – dell’uso che Cassano faceva della parola chapeau. «Sciapòh a sua maestà Leo», diceva, per sottolineare la grazia con la quale il suo calciatore prediletto (e acerrimo rivale di Cristiano Ronaldo, caro archeologo degli anni Centomila) aveva pubblicamente riconosciuto che il premio di miglior giocatore del 2020 spettasse a Robert Lewandoski. Ma, soprattutto, caro archeologo degli anni Centomila, voglio che tu sappia che Cassano non è davvero un poeta, nonostante quanto hai letto fin qui. Come avrai capito dai tuoi studi e dalle tue ricerche, questa è un’epoca in cui il sarcasmo ha infiltrato lo Spirito del Tempo ed è per questo che Cassano è entrato a far parte del linguaggio. Voglio che tu sappia, caro esploratore degli anni Centomila, quello che penso davvero di Cassano, e per farlo userò le parole che il mio tempo mi fornisce: Cassano mi piace? NO! È diventato virale su TikTok? Chapeau! Lo amano in tanti? Chapeau! Mi piace come commentatore? NO! Lo metto tra i più grandi della storia? NO! Parere mio personale, sbaglierò? AMEN! Per me è la qualità, raffinatezza, Ventola.