Quel caratterino di Paolo Maldini

Ambizioso, irremovibile e tagliente: Paolo Maldini dirigente non è così diverso dal Paolo Maldini calciatore, e lo sta dimostrando.

Tra le espressioni idiomatiche più antiche e più usate a livello globale, quindi anche più distorte ed equivocate, c’è noblesse oblige. Secondo l’Oxford English Dictionary, è una combinazione di parole per cui «un lignaggio nobile costringe a un comportamento onorevole», per cui «un privilegio impone responsabilità». Il tempo e l’inevitabile mutazione dei costumi e delle percezioni, come detto, ha cambiato il senso e anche la destinazione d’uso di noblesse oblige, trasformandola in un’espressione derisoria, in un attacco verbale ai privilegi di chi appartiene alla cosiddetta casta, a un’aristocrazia che resta chiusa nel suo guscio mentale e non riesce a sintonizzarsi sulla condizione degli altri, sulle idee e sulle necessità degli altri. Di coloro che non appartengono alla nobiltà.

Paolo Maldini ha compiuto 54 anni da poche ore e da 54 anni è evidentemente un uomo nobile, un aristocratico moderno. La sua storia – familiare, personale, professionale – è imbevuta, anzi impregnata di una superiorità che sembra naturale, del tutto simile a quella che, in linea del tutto teorica, appartiene a chi discende da un grande casato, agli eredi di una dinastia di principi, di conti, di marchesi. Dal punto di vista del carattere e quindi del comportamento, delle manifestazioni pubbliche, Paolo Maldini non ha mai fatto niente per nascondere questa sua condizione di superiorità. Anche perché la genetica è stata molto generosa con lui, nel senso che ha preso la prestanza atletica e il talento calcistico e la classe squisita di suo padre Cesare e ha elevato tutto a potenza: Paolo Maldini-calciatore ha segnato la sua epoca e tutte quelle dopo di lui, ha incarnato un nuovo prototipo di terzino e poi di difensore centrale, è stato fisicamente dominante per non dire brutale, tecnicamente regale per non dire monumentale, sportivamente ed emotivamente encomiabile, quasi fastidioso nella sua pretesa di perfezione – una pretesa quasi sempre sfiorata, spesso raggiunta.

Insomma, la sua grandezza in campo, unita a una professionalità manichea e a un carattere da leader, ha ampiamente giustificato le asprezze, gli spigoli, le contraddizioni del suo modo di essere. Di un modo di vedere e vivere la vita che l’ha portato a scontrarsi abbastanza spesso con i media, i tifosi. È inevitabile ricordare, a questo proposito e a questo punto, la storia del suo approdo a Radio 105 come co-conduttore – insieme a DJ Ringo – della trasmissione Codice Rap, un’esperienza vissuta nel corso di una stagione pessima per il Milan: i tifosi – e non solo – lo rimproveravano per questa scelta in un momento così delicato, gli chiedevano perché?, e la sua risposta era perché no?, visto che faccio il mio dovere in campo e sono uno dei difensori più forti del mondo e di tutti i tempi? – la seconda frase non la diceva apertamente, ma si leggeva in sovraimpressione sul suo volto, tra le righe di ogni sua intervista. Non a caso, qualche tempo dopo, Maldini spiegò che «quell’avventura è finita con la nascita di Christian: Adriana, mia moglie, voleva giustamente che io dedicassi il mio tempo libero al bambino». Qualsiasi altra discussione – più importante, meno importante – con la stampa e soprattutto con i tifosi, a cominciare da quella storica dopo la crudele sconfitta a Istanbul nella finale di Champions League 2004/05, Maldini deve averla portata avanti nello stesso modo non proprio conciliante, abbastanza diretto e altezzoso e sicuro di sé. Proprio come un nobile che, in qualche modo, finisce per dimenticare che noblesse oblige, soprattutto per chi nobile non lo è. O magari proprio come una persona che crede nella nobiltà in maniera diversa, che sia un’altra cosa, che si manifesti in un altro modo. D’altronde, ricordiamolo sempre, parliamo di un giocatore che è stato fischiato da una certa parte del suo stadio San Siro nel giorno storico della sua ultima partita casalinga con il Milan, proprio perché non era proprio riuscito a legare con certe idee di una certa frangia del tifo rossonero.

In questi giorni si è parlato di Paolo Maldini come di un dirigente teso, nervoso, arrabbiato, in aperto contrasto con i suoi datori di lavoro. Per il suo futuro che – al momento in cui scriviamo – non è stato ancora definito con il rinnovo del contratto. Al di là di come siano andati realmente i fatti, ed è impossibile ricostruirli davvero per chi è esterno al Milan, certe parole – teso, nervoso, arrabbiato, in aperto contrasto – non sono eccessive. Non possono esserlo. Perché è stato proprio Paolo Maldini, in un’intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport, a far trasparire certe sensazioni. Attraverso queste parole: «Io e Massara siamo in scadenza e non abbiamo ancora rinnovato. Devo dire che, per il nostro percorso e per ciò che è successo in passato anche durante il periodo di crisi con Rangnick, trovo poco rispettoso il fatto che a oggi l’amministratore delegato ed Elliott non si siano neanche seduti a parlare con noi. Dico solo a parlare». Poi ha aggiunto che «io non sono la persona giusta per fare un progetto che non ha un’idea vincente. Non potrei mai farlo. La realtà è che la proprietà non si è mai seduta al tavolo e questa cosa non va bene». C’è tanto, in queste dichiarazioni. Anzi, c’è tutto quel che serve per aprire lo scrigno virtuale dei ricordi e parlare del caratterino di Paolo Maldini, del suo modo diretto e altezzoso e sicuro di sé di interfacciarsi col mondo. Che poi è più o meno lo stesso modo di porsi che aveva da calciatore, solo che oggi il suo mestiere è quello di dirigente sportivo, solo che oggi una parte importante del suo lavoro – forse la più importante in assoluto – è la cura dei rapporti umani all’interno e all’esterno del suo microcosmo. Insomma, Paolo Maldini direttore dell’area tecnica del Milan è fin troppo simile al Paolo Maldini giocatore. Inevitabile, a questo punto, porsi alcune domande: può permetterselo? Questo atteggiamento e certi comportamenti, certe scelte, possono rappresentare un limite per lui, per il suo futuro come dirigente e per il suo futuro al Milan?

Maldini è tornato al Milan nell’agosto 2018, prima come direttore dello sviluppo strategico dell’area sport, e poi – dal maggio 2019 – come direttore tecnico. Il suo primo scudetto da dirigente si aggiunge ai sette vinti da giocatore (Chris Ricco/Getty Images)

Diego Guido, autore del libro Paolo Maldini, 1041 (66thand2nd, 2021) e quindi profondo conoscitore della materia, crede che ci troviamo di fronte all’ennesima manifestazione della coerenza di Maldini: «Parliamo di un uomo con una personalità fortissima, che ha un carattere che si potrebbe definire permaloso», ha dichiarato a Undici. «Maldini ha un certo modo di vedere le cose, lo stesso di quando ha detto che Rangnick “tende a invadere delle zone nelle quali lavorano dei professionisti con regolare contratto, e allora dovrebbe imparare a portare rispetto, prima che a parlare italiano”. Quelle dichiarazioni, esattamente come lo stallo di oggi per il rinnovo del contratto, non nascono da una sete di potere, quanto da un’idea di professionalità e di lavoro ben chiara, anzi cristallizzata. E quindi da rispettare». In realtà proprio la gestione del caso Rangnick, secondo Guido, è un segnale del fatto che, con il tempo, sia diventato un dirigente – e quindi anche un uomo – più elastico: «In un altro momento storico, Maldini avrebbe sbattuto la porta anche lui, proprio come fece Boban. Invece è rimasto calmo, lucido, razionale, ha dimostrato di aver capito come trattare con persone diverse e soprattutto diverse da sé. Certo, è rimasta un uomo molto diretto, che non accetta compromessi e non manda a dire le cose. E allora deve unire queste due anime: potrebbe guardare molte persone dall’alto in basso e invece scende nell’arena con loro, si confronta, si sporca, questo fa di lui un dirigente ambizioso».

Ecco, questa è la parola chiave: ambizione. Paolo Maldini è sempre stato un uomo ambizioso e oggi è un dirigente ambizioso, che ha voglia di far crescere il Milan ma anche di crescere professionalmente. Niente di diverso da quando era un calciatore, insomma. Ecco, allora questo potrebbe essere un limite per un professionista che lavora in un club mentre questo club sta vivendo un cambio di proprietà, che in realtà ha iniziato da poco a fare questo mestiere – il ritorno al Milan è stato ufficializzato il 5 agosto 2018 – e che, almeno secondo le ricostruzioni giornalistiche, con un nuovo contratto potrebbe aspirare ad avere maggior potere decisionale, magari un ruolo più importante all’interno dell’organigramma societario, o semplicemente vorrebbe avere un budget più alto per il calciomercato. E nel frattempo il Milan è sostanzialmente fermo sul mercato, non ha ancora iniziato un – cruciale – rafforzamento in vista della prossima Serie A e soprattutto della prossima Champions League.

Diego Guido crede che questo limite, anche solo eventuale, rappresenti in realtà un punto di forza anche per il Maldini-dirigente: «Non conosco e non posso conoscere le richieste di Maldini, ma in ogni caso ci starebbe che lui voglia prendersi ancora più responsabilità. Sarebbe coerente con la sua storia, col suo carattere. È importante smorzare certe voci, soprattutto se chi le mette in giro non conosce davvero la persona e il professionista. Perciò io credo che il punto più importante, per lui, resti l’attenzione per la separazione di competenze e ambiti di influenza, per esempio tra parte tecnica/sportiva e parte finanziaria. Ognuno deve fare il suo senza invadere il campo d’altri, che poi è la stessa cosa che lui contestava nell’approccio di Rangnick. Maldini è tornato al Milan in punta di piedi, nelle prime immagini dopo il suo ingresso in dirigenza lo si vede stare vicino a Leonardo e studiare l’ambiente, le persone, ha imparato a fare questo nuovo lavoro mixando la propria sensibilità di ex fuoriclasse, uno studio continuo e la mano felice nella scelta dei suoi collaboratori, a cominciare da Massara, dopo l’addio di Leonardo. Ora ha una sensibilità e un occhio diversi rispetto a pochi anni fa, vuole continuare a fare questo lavoro però vuole farlo e vuole crescere con la giusta autonomia. Del resto ha la fortuna, lo ammette lui stesso, di poter vivere senza lavorare, fuori dal calcio ha moltissimi interessi da curare tra Milano e la Florida, e quindi continua a rilanciare perché è sempre stato un uomo ambizioso, lo è stato da giocatore, ora lo è da dirigente, ed è un’ambizione che riguarda il Milan ma anche se stesso. Ha rifiutato di tornare quando gli è stato chiesto dalla proprietà cinese, ha accettato l’offerta di Elliott per la solidità e lo spessore del progetto, ha imparato a essere un dirigente, ha vinto. E ora vuole vincere sempre di più, sempre meglio e a modo suo: è Maldini in purezza. E tutto questo non può essere un limite, per un dirigente di una grande squadra di calcio».

Ecco, Paolo Maldini avrà sicuramente un carattere difficile, un caratterino niente male, dei modi eleganti ma anche troppo diretti e altezzosi e sicuri di sé, come se fosse un nobile, un uomo consapevole del proprio status di superiorità, uno status che ora ha acquisito anche da dirigente. Tutto questo fa di lui una persona e anche un professionista non facile da gestire, da incasellare, di certo un’espressione idiomatica come noblesse oblige non può appartenergli: troppo scontata, anche se fondamentalmente giusta. E allora forse Paolo Maldini intende la propria nobiltà in un altro modo, in un modo più complesso, per esempio quello intercettato da Ernest Hemingway: «La vera nobiltà è essere superiori a chi eravamo ieri». No, questo non può essere un limite, per un dirigente di una grande squadra di calcio.