L’ultimo grande spot calcistico, per Fernando Torres, 15 anni fa

Il suo passaggio al Liverpool venne celebrato con una bonaria e ironica trasformazione della città inglese in una colonia spagnola.
di Davide Coppo 04 Luglio 2022 alle 16:16

Tra le manifestazioni sparite di un mondo passato per cui i Millennial di oggi provano una certa agrodolce nostalgia, sincera o posticcia che sia – come le macchine fotografiche a rullino, come i Nokia 3210, come i Magnum quando erano ancora grandi – c’è un posto dedicato gli spot sportivi e calcistici. Nel 2007, quindici anni fa, ci trovavamo a metà strada tra l’era delle televisioni “come le avevamo sempre conosciute”, ubique più o meno in ogni casa, destinazione di ogni investimento commerciale in formato video, e la crescita di Youtube, che stava iniziando a prendersi uno spazio sempre maggiore sia in termini economici sia in termini di spazio. Dopo l’era anni Novanta dei grandi spot televisivi calcistici – il “Colosseo” di Nike, il Brasile in aeroporto, sempre di Nike, ma anche il setting “medievale” della Pepsi con Ronaldinho, Beckham, Totti e Raul – a luglio 2008 succede qualcosa che produrrà l’ultimo grande spot di quella bellissima tradizione: Fernando Torres si trasferisce dall’Atlético Madrid al Liverpool.

È necessario un briciolo di contesto: all’epoca – un’epoca in cui Messi e Ronaldo esistevano già, ma non erano le macchine da gol che sarebbero diventate di lì a pochi anni – Fernando Torres è uno degli under 25 migliori del mondo. Un attaccante rapido, capace di gol di potenza ma dotato di un’ottima tecnica, completo come pochi altri al mondo. Modernissimo, direi vanbasteniano, tutto ovviamente messo in scala per non dire blasfemie. Viene da sei stagioni da protagonista a Madrid – un Atlético anche qui pre-Simeone, e quindi piuttosto modesto, che gioca anche la Segunda División – in cui supera quasi sempre i dieci gol a stagione, e talvolta anche i 20. Torres è anche un leader, capitano da quando ha 19 anni di una squadra con un’importanza storica nel calcio spagnolo, e sono diversi anni che sembra sempre dover partire. C’è ogni anno, intorno al suo nome, il ronzio di Galliani e del Milan, che però non riesce mai nel colpo – ci riuscirà troppo tardi, quasi dieci anni anni dopo.

Che fosse un altro calcio si capisce anche dal fatto che i 26 milioni di sterline che il Liverpool spende per portarlo in Inghilterra sono un record per il club. Lui dirà che voleva solo il Liverpool, che è quello il miglior club d’Europa, e in effetti non è un’affermazione così strana o ruffiana, perché i Reds hanno vinto la Champions League nel 2005, hanno giocato la finale del 2007, e inanellato una serie di podi in Premier pur senza mai vincere. Insieme a Torres arrivano anche giocatori come Mascherano e Babel, Voronin e Benayoun, e tutti si riveleranno importanti a modo loro. Ma in un certo senso l’anima di quella squadra è profondamente spagnola: a partire dal tecnico, Rafa Benítez, passando per uno dei migliori registi del pianeta, Xabi Alonso, e finendo con il portiere Reina, che sostituisce Dudek dopo la finale di Istanbul. C’era l’anno prima anche Luis García, il dieci che condannò la Juventus ai quarti del 2005, ma viene inserito come conguaglio per l’Atlético Madrid nell’affare per Torres.

La Spagna, quindi. Capita che in Inghilterra, campionato di immigrazione per eccellenza, certe squadre siano segnate anche linguisticamente e geograficamente dai loro allenatori, in una data epoca: Conte portò diversi italiani al Chelsea, e prima ancora lo stesso fece Vialli (che allenò Ambrosetti, Di Matteo, Casiraghi, Zola, Dalla Bona); l’Arsenal di Arsène Wenger parlava francese Vieira, Wiltord, Henry, Pirès, Clichy, e meteore come Cygan, Aliadière. E quindi Liverpool diventa, in quegli anni, città con una spiccata vocazione spagnola. Che gli inglesi abbiano una certa predilezione, tra le varie nazioni europee, per la Spagna, è una cosa ben nota. Solo che non è un amore per così dire culturale, ma esclusivamente vacanziero, e vacanziero in un particolar modo di intendere le vacanze, tutto britannico. Se Marbella era il buen retiro negli anni Settanta per George Best e altre stelle del jet-set calcistico britannico, negli decenni successivi le orde barbariche tipo Geordie Shore invadono Maiorca, la Costa Brava, Ibiza, Benidorm.

Ecco lo spot, ora ne parliamo

Nike si mette a scrivere e girare uno spot dedicato a Fernando Torres sapendo tutto questo, celebrandolo per certi versi, e scimmiottandolo per altri, in un equilibrio perfetto tra l’epica e la presa in giro. Si inizia con l’inquadratura di uno dei “tori di Osborne”, enormi sagome nere originariamente nate per una campagna pubblicitaria presenti un po’ ovunque in Andalucia, mentre una versione flamencata della classica canzone “When Johnny Comes Marching Home” viene introdotta da una chitarra classica.

Un van che procede spedito nel traffico cittadino, sullo sfondo di un cielo plumbeo, è decorato con bandiere giallorosse. In un mercato, un venditore ambulante dal forte accento regionale vende enormi padelle da paella. Urla anche uno slogan: «Vivaey la Espaniaey». La Kop aveva fabbricato un coro destinato a rimanere nella storia dei cori del calcio dalla notizia dell’annuncio, che viene insegnato nella scena dopo da un insegnante di spagnolo in una classe piena di studenti: «Nunca caminarás solo», dice, you’ll never walk alone. un muratore appende una lettera A all’insegna del Cavern Club, storico club in cui si esibirono i primi Beatles, per farlo diventare Club Caverna. Poi una scuola di flamenco con le ballerine scousers visibilmente impacciate, due anziani che escono da un pub che propone “tapas all day” e salutano gli amici con un «adios lads!», infine una partita di calcio di ragazzini in un parco, un pallone che rotola verso un passante, il passante – che è Torres stesso – che lo rimanda indietro. L’umorismo sta tutto nella cronica incapacità inglese di adattarsi ad altre pronunce, e allora diventa quasi tormentone il ragazzo che dice al Niño: «Gracias, mate!».

Il coro del Liverpool per Fernando Torres prendeva spunto da un tatuaggio che El Niño si era fatto prima di firmare per i Reds, un semplice e universale “You’ll Never Walk Alone” diventato segno di un destino inequivocabile: his armband proved he was a Red / Torres, Torres / You’ll Never Walk Alone it said / Torres, Torres.  Poi c’è spazio per un po’ di inevitabile paternalismo coloniale impossibile da evitare, da quelle parti, e quindi: we bought the lad from sunny Spain / he gets the ball and scores again, fino all’ultimo Fernando Torres, Liverpool’s number nine! Ma è proprio sulla consapevolezza di questo cripto-esotismo che si regge la forza di questo spot, e inevitabilmente viene da chiedersi quante “rivolte del web” ci sarebbero oggi per la feticizzazione della Spagna fatta di paelle e balli tradizionali, che non capirebbero che l’obiettivo della presa in giro, bonaria, sono i tifosi stessi, pronti a vendersi e trasformarsi come camaleonti per un campione che segni una manciata di gol. Quelli Torres li segnerà, come una grandinata lunga tre anni e mezzo, e saranno tra i più belli che Liverpool abbia mai visto.

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