L’amore per Koulibaly è il boato per una scivolata

A Napoli, il difensore senegalese è diventato un top player, ha vissuto otto anni in simbiosi con la squadra e la città. E anche il suo addio si è consumato nel modo giusto.

Per un calciatore e un club e una tifoseria, otto anni sono un tempo condiviso abbastanza lungo perché possa essere costruito un album di ricordi nutrito e vario, ricco e trasversale. Nel caso di Kalidou Koulibaly e del Napoli e dei suoi tifosi, la cosa si amplia e si amplifica: l’immagine del gol segnato alla Juventus nello scontro-scudetto dell’aprile 2018 giganteggia – è proprio il termine giusto, vista la dinamica di quella giocata, di quel colpo di testa così imperioso – su tutte le altre nonostante quello scudetto non sia mai arrivato, e poi ci sono tanti altri momenti belli e indimenticabili, istantanee che riguardano il campo ma vanno anche oltre, che raccontano il legame profondo che si è creato tra il difensore francosenegalese e l’ambiente intorno a sé, un legame che in questi giorni è stato celebrato sia dal giocatore che dalla società su tutte le piattaforme, e ovviamente anche dai tifosi.

Un aspetto su cui vale la pena riflettere prima di andare avanti è quello relativo al razzismo e all’antirazzismo, il fatto che Kalidou Koulibaly sia stato identificato – si può dire anche eletto – come uomo-simbolo di buona e riuscita integrazione. In realtà credo che in questo senso si sia un po’ esagerato, perché Koulibaly è stato semplicemente vittima del razzismo neanche tanto strisciante che esiste nei nostri stadi e nel nostro Paese, un razzismo contro i napoletani e contro i neri che nel suo caso – anzi: nei suoi casi, visto che in diverse occasioni è stato ricoperto di ululati e fischi e versi scimmieschi – si sono mescolati e sono detonati insieme. Koulibaly in alcuni momenti si è ribellato come farebbe qualsiasi essere umano di qualunque etnia, Napoli-città e Napoli-tifoseria si sono schierate al suo fianco e l’hanno protetto, l’hanno trattato per quello che è, un uomo comune bravissimo a giocare a calcio. Insomma, nessuno dei soggetti in questione ha fatto cose che dovrebbero essere considerate speciali in un Paese civile del nostro tempo. Non che avrebbero dovuto farlo, ed è proprio questo il punto: Koulibaly e il Napoli sono stati vessati e hanno reagito insieme, hanno mostrato il loro disagio, lo hanno raccontato, hanno fatto in modo che se ne parlasse. Questo è sicuramente un merito, ma la verità è che l’incombenza di arginare e di risolvere la questione toccava – e tocca – ad altre persone, ad altre istituzioni, non certo a un calciatore e a una società sportiva.

Una volta filtrata questa questione, restano otto anni di calcio, di crescita continua: l’ambientamento complicato della prima stagione, l’esplosione fragorosa con Maurizio Sarri in panchina, il miglioramento e il completamento proseguito anche dopo l’addio di Sarri, qualche mese di crisi a cavallo del ribaltone Ancelotti-Gattuso, la rinascita, la continuità imperiale nell’ultima stagione con Spalletti, la collocazione definitiva nella shortlist dei migliori difensori del mondo – l’offerta del Chelsea campione del mondo per club non è arrivata a caso – e la vittoria della Coppa d’Africa come capitano del Senegal a suggellare questo percorso. Kalidou Koulibaly ha vissuto tutti gli stadi evolutivi del calciatore contemporaneo che diventa un top player, l’ha fatto con la maglia del Napoli addosso, e poi ha continuato a indossarla anche dopo, mentre era diventato un giocatore globale, forse più grande – nel senso di più riconoscibile – rispetto allo stesso club azzurro.

Forse è per questo che la mia immagine preferita di Kalidou Koulibaly è un’altra: quella del duello vinto contro Kylian Mbappé durante una partita di Champions League tra il Napoli e il Psg. È il 6 novembre 2018, Mbappé ha vinto da pochi mesi il Campionato del Mondo da protagonista assoluto ed è ovviamente attesissimo e temutissimo da tutti, come avviene sempre in occasione di gare internazionali in cui scendono in campo i grandi campioni. A un certo punto del primo tempo si viene a creare una situazione di uno contro uno nel mezzo spazio di centrosinistra, una ventina di metri dentro la metà campo del Napoli; Mbappé avrebbe molto campo davanti a sé però deve fare i conti con la presenza di Koulibaly, che inarca il busto in avanti, abbassa un po’ la testa e cerca di coprire lo spazio da attaccare alle sue spalle, solo che lo fa lasciando – in teoria – un po’ di aria per uno scatto alla sua destra. È il suo atteggiamento difensivo classico, sembra un errore di posizionamento, invece è pura consapevolezza di sé: Koulibaly è certo di poter recuperare quella distanza con una scivolata oppure correndo all’indietro con la sua falcata possente, e neanche Mbappé può riuscire a bruciarlo; non che a volte non sia successo, qualche attaccante è effettivamente riuscito a bruciarlo prendendosi proprio quello spazio lasciato ad arte, ma KK in quel momento è in forma – tecnica, atletica, psicologica, emotiva – strepitosa, e allora non c’è niente da fare. Neanche per un fenomeno come Mbappé, che prova a superarlo portandosi in avanti il pallone e attivando il suo NOS o il suo DRS, usate la formula che vi piace di più, ma il pallone gli viene sottratto con una scivolata regale, perfetta per tempo, pulizia, coordinazione. Il boato dello stadio San Paolo è quello che ti aspetteresti dopo un gol del Napoli, e invece era semplicemente Kalidou Koulibaly che ha fermato un’azione di Mbappé sulla trequarti campo. Probabilmente anche il pubblico aveva percepito quella giocata difensiva per quel che era: un’investitura, un passaggio di stato.

Anche Koulibaly deve essersi gasato molto per questa scivolata, anche se non lo dà a vedere

Ecco, questa breve sequenza racconta quella che è la vera morale della storia di Koulibaly al Napoli: Kalidou è stato amato come Hamsik, Mertens e Insigne, gli altri calciatori che sono diventati grandigrandissimi con la maglia del Napoli e non hanno lasciato la squadra azzurra per un club di prima fascia. Certo, alla fine il difensore senegalese si è trasferito al Chelsea ma l’ha fatto solamente adesso, dopo otto anni, e quindi è come se avesse tracciato una certa differenza temporale con Lavezzi, Cavani, Higuaín e Jorginho, i top player prodotti dal Napoli che dopo tre, quattro o cinque stagioni hanno voluto mettersi alla prova in un contesto ancora più competitivo. In questi otto anni KK è diventato un fuoriclasse di livello internazionale, eppure ha sempre detto e ha pure dimostrato di essersi davvero affezionato al club, alla tifoseria. Su The Players’ Tribune, nel 2019, scrisse che «Napoli è una città che ama la gente.  La gente vuole toccarti, vuole parlarti. La gente non ti tollera, ti ama». Sono più o meno gli stessi concetti trasmessi nei suoi messaggi di addio. Lui ha ricambiato questo affetto in molti modi, si sprecano gli aneddoti sulle sue iniziative di solidarietà negli ospedali della città, nelle scuole dei quartieri più difficili, è come se avesse dimostrato prossimità con tutte le facce di Napoli, anche quelle più oscure. In questo modo ha finito per solleticare le corde più emotive – e anche più retoriche, perché no – di un ambiente che ama sentirsi gratificato da titoli onorifici come quello di piazza calda, di pubblico vibrante e appassionato. Non c’è niente di male, magari Kalidou Koulibaly si è davvero innamorato del Napoli, di Napoli, della sua gente. Ma resta il fatto che i napoletani amano essere amati e sentirsi amati, ma soprattutto amano sentirsi dire che sono speciali.

Insomma, quello tra Koulibaly e il Napoli è stata un rapporto bello, lineare, pulito, tra due entità che si sono capite in tutti i modi possibili: la squadra azzurra l’ha scovato in Belgio e l’ha portato in Italia, l’ha trasformato in un calciatore di livello internazionale, il pubblico si è affezionato a lui e lui ha sempre risposto manifestando sentimenti di gratitudine, di rispetto, di comunione spirituale. Non a caso il suo addio è stato vissuto in maniera diversa rispetto a quelli di Lavezzi, Cavani o Higuaín: non ci sono state contestazioni isteriche, anzi ci sono state ma solo nei confronti di De Laurentiis, Kalidou non è stato considerato un traditore; certo, il rammarico tecnico per aver perso un giocatore così forte è stato palpabile, dopotutto parliamo di uno dei migliori difensori al mondo, del capitano designato, dell’uomo che avrebbe inevitabilmente ereditato la fascia lasciata da Insigne. Allo stesso tempo, però, si è percepita anche la consapevolezza condivisa per cui l’offerta del Chelsea fosse davvero irrinunciabile. Per lui, e forse anche per il Napoli. Amore, dopotutto, significa anche capire il momento in cui è giusto lasciarsi, pure se fa male. Anzi, spesso è proprio l’addio il momento in cui una storia d’amore si mostra per quello che è stata, se è stata sana o tossica, e in questo caso non ci sono dubbi.