Guardare un cavallo impegnato in una prova di salto a ostacoli è un’esperienza che ha del magico. C’entra, nessun dubbio, il silenzio che scende all’inizio di ogni prova, che è un silenzio richiesto per la serenità e concentrazione del cavallo, ma che mostra anche quanta tensione si annida in ogni spettatore. Un silenzio religioso, di fiato sospeso. C’entra poi la grazia con cui questo animale enorme si stacca da terra, prima con l’anteriore e poi con il posteriore – un’eleganza che sembrerebbe impossibile nel momento stesso in cui si mostra – e si deposita dall’altra parte continuando a trottare o a correre. Non sai dire se è lui che disegna una curva o se si trasforma lui stesso in quella curva. Dopo quei sessanta secondi circa, all’ultimo ostacolo, è una liberazione di esultanza e commozione. Applausi, musica, e la telecamera che zooma sul cavaliere o l’amazzone che ride, se tutto è andato bene, e accarezza l’animale e si complimenta o gli dice qualcosa di intimo, e tu, anche se semplice spettatore, senti una specie di liberazione.
Per chi non conosce a fondo questo mondo il mistero è fittissimo: perché non si tratta di immaginare lo sforzo, la sofferenza, l’agone di una gara sportiva individuale oppure di squadra. C’è invece da capire come funziona il rapporto intimo, personale, e anche fisico con un animale. Cosa si prova a “guidare” un essere vivente? «Puoi parlare di un cavallo come parli di una persona», mi spiega Giulia Martinengo, due volte Medaglia d’Oro ai Campionati Italiani Assoluti (nel 2015 e 2018), una delle più forti amazzoni italiane e Ambassador Land Rover. Dice: «Non è solo una sfida, ma un rapporto di quotidianità, fiducia, rispetto».
Ⓤ: Com’è questo rapporto nella quotidianità, come lo costruisci, e poi come esplode in gara?
C’è quella parte fatta di tecnica e allenamento che è fondamentale, vale sia per il cavaliere che per il cavallo, e fatta insieme poi diventa un’intesa. Ma in verità ci sono tanti altri piccoli dettagli che sono dati dalla frequentazione quotidiana anche giù dalla sella: tante volte succede qualcosa anche se fai una passeggiata con un cavallo, perché individui degli aspetti che sono importantissimi ma che non scaturiscono solo nel momento in cui sei nel campo. È un continuo ragionamento, un continuo conoscersi perché il cavallo si fidi di te e che quindi sia portato a darti il 100%, e te lo dà se ti vede anche come un amico, e non solo come un partner sportivo.
Ⓤ: Quanto puoi intervenire tu e quanto invece c’è qualcosa di innato, una parte che non tocchi, nella crescita del cavallo?
Non c’è dubbio che un campione nasca campione. Ma non c’è dubbio che il campione possa essere rovinato oppure portato alla ribalta. Io ho sempre detto che il novanta per cento di questo sport lo fanno i cavalli. C’è un bellissimo detto in inglese che dice: “You can only be as good as your horse”, ed è la cosa più vera che ci sia. Però è vero che un grande talento non resta tale in cattive mani. Il campione può essere un campione timido, un campione introverso, e spesso i cavalli di maggiore qualità i veri campioni da giovani sono dei giovani difficili.
Ⓤ: Se tu hai una giornata in cui ti senti particolarmente in forma, oppure il contrario, riesci a comunicarglielo?
Il cavallo lo sente. I cavalli sono delle spugne incredibili per cui se ti senti bene il cavallo lo recepisce immediatamente, così come recepisce immediatamente uno stato emotivo non corretto.
Ⓤ: Facendo un paragone con un altro sport, nei motori si dice sempre: quello è un fenomeno in pista, ma magari non è un buon meccanico, oppure quello è un meccanico straordinario e per questo vince sempre anche se non ha tutto questo talento. È applicabile anche al mondo dei cavalli questo paragone?
Assolutamente sì. Ci sono dei cavalli che a vederli a casa diresti: questo può vincere un’Olimpiade, e poi invece in gara non rendono. E a proposito di quella parte che non puoi insegnare: ci sono dei cavalli che a casa fanno lo stretto necessario, poi entrano in gara e lì esplodono.
Ⓤ: Devi capire anche come gestire le loro emozioni, la loro ansia?
Certo, è come l’ansia da prestazione di un esame. Stessa cosa i cavalli: normalmente i grandi campioni entrano in gara e migliorano da soli, non glielo puoi insegnare. Viceversa ci sono i cavalli che sembrano dei campioni a casa, e poi in gara non reggono la tensione.
Ⓤ: Negli sport di squadra c’è sempre comunque il concetto di egoismo: un atleta può demotivarsi e non sentirsi parte del gruppo e giocare come si dice “da solo”. Con i cavalli è impossibile?
Impossibile. Sei sempre una coppia inscindibile. Sei nessuno senza il cavallo. Secondo me per gli atleti degli altri sport a motivarti è il traguardo di una medaglia all’Olimpiade, il Mondiale, l’Europeo. Per noi è il cavallo a motivarti, la storia con quel cavallo.
Ⓤ: Quanto sono importanti tutte le figure che girano intorno a cavallo e cavaliere e che non si vedono di solito? E quali sono?
Fondamentali: questo è uno sport individuale solo sulla carta. Dai proprietari, fondamentali a livello chiaramente economico-finanziario e di sostegno, agli sponsor, per me mio marito che è anche il mio allenatore; e poi la figura fondamentale di una scuderia importante che è il groom, ovvero l’artiere, è la persona che vive più a contatto con i cavalli e quindi li conosce in tutti gli aspetti. È una persona di fiducia e di riferimento che li porta in concorso, guida il camion, organizza le soste… Poi il veterinario, il maniscalco, il fisioterapista, il dentista.
Ⓤ: Qual è la cosa che ti piace di più in assoluto del tuo mondo?
Sicuramente il rapporto che si crea con il cavallo. Perché ti senti realizzato quasi al di là della prestazione sportiva.
Ⓤ: Ci sono volte in cui proprio non capisci un cavallo?
Ma certo. Fa parte del gioco. La verità è che devi metterti in discussione tutto il tempo. È la capacità di adattarsi e la capacità di ascoltare, la capacità di gestire poi quel patrimonio che hai imparato e quindi capire se il cavallo preferisce i campi in erba, oppure quelli in sabbia. Fargli fare le pause giuste prima che si stanchi… tante cose.
Ⓤ: Tu hai sempre voluto questo?
Sempre. Un chiodo fisso, una passione infinita, e non è mai cambiata, è mutata, è evoluta, ma non è mai cambiata. Ho avuto una carriera giovanile abbastanza tranquilla, lo sport era un po’ meno frenetico allora. E poi ho veramente spinto dai 20 anni in poi, c’è anche da dire che ho avuto la fortuna perché lì ho avuto la fortuna di condividere con quello che adesso è mio marito questa passione. Però l’ho sempre saputo. L’ho sempre saputo e non avrei accettato nessun tipo di compromesso. Poi sono stata molto fortunata, in senso che tutto si è incastrato bene, ma non c’è dubbio che l’abbia fortemente voluto.