Romagnoli, Nesta e una bandiera che la Lazio aspettava da anni

Era dai tempi di Nesta che la tifoseria biancoceleste desiderava l'arrivo di un laziale vero, di un uomo-simbolo in grado di riaccendere l'identificazione con il club.

Per comprendere davvero cosa rappresenti l’acquisto di Alessio Romagnoli per la Lazio e i suoi tifosi, bisogna tornare a vent’anni fa, al 31 agosto del 2002. Quel giorno Roma si risvegliò dal torpore delle ferie estive e nel farlo si ritrovò blindata, a causa di una vera e propria guerriglia urbana scoppiata per le strade della città: scontri tra ultras e polizia, lanci di lacrimogeni, due volanti incendiate, alcuni uffici del Coni distrutti, 500mila euro di danni complessivi. Fuori dallo stadio Olimpico apparve uno striscione piuttosto eloquente, scritto come se fosse un messaggio all’allora presidente della Lazio Sergio Cragnotti: «E adesso vendi anche l’aquila». Tutto questo era successo perché, qualche ora prima, la Lazio aveva ufficializzato la cessione di Alessandro Nesta al Milan.

A Cinecittà, quartiere a sud-est della Capitale dove Nesta è nato, raccontano che suo padre, di mestiere ferroviere, rifiutò per il figlio un’offerta da dieci milioni di vecchie lire arrivata dalla Roma, trascinandolo invece a fare un provino con la Lazio: la squadra di famiglia. I 18 anni di Nesta in biancoceleste, contando anche quelli vissuti nel settore giovanile, sono coincisi – per uno strano eppure sensato scherzo del destino – con il periodo più fortunato della storia laziale: la squadra che riuscì a vincere lo scudetto 26 anni dopo l’ultima volta e a battere, nella Supercoppa Europea del 1999, il Manchester United di Sir Alex Ferguson, è senza dubbio la Lazio più forte di sempre. E allora era certamente una delle squadre più forti al mondo. Alessandro Nesta non ne era solamente capitano e leader difensivo, ma anche icona e simbolo. Ne era il volto, la voce e l’identità, e i tifosi si rispecchiavano completamente in lui. In città, Nesta veniva considerato un romano atipico. Timido e introverso, mai caciarone, Quando negli spogliatoi di un Lazio-Real Madrid di Champions League Fernando Hierro gli si avvicinò sussurrandogli all’orecchio «devi venire da noi», Nesta rispose con un sorriso e disse: «E perché mai? Io ho la Lazio».

Quella Lazio, però, era malata da tempo. In dieci anni la società aveva speso sul mercato oltre 800 miliardi di lire, con il monte ingaggio che era salito fino a 130 miliardi nel 1999. Costi che non erano più sostenibili: l’indebitamento complessivo aveva infatti raggiunto i 137,3 milioni di euro, e per recuperare un po’ di liquidità Cragnotti dovette cominciare a vendere – o meglio: svendere – i suoi gioielli più preziosi. Nell’ultimo giorno di calciomercato dell’estate 2002, oltre ad Alessandro Nesta al Milan, il presidente della Lazio cedette Hernán Crespo all’Inter. Ma l’operazione superò ben presto i confini sportivi. Il giorno dopo, il Corriere della Sera scrisse che «il passaggio di Nesta al Milan assume una sorta di valore epocale, è una simbolica epica dello stato attuale del calcio, dell’intero orizzonte della cultura e della comunicazione, di tutto il destino dell’Italia. Le strade che portano a Milano sono quelle che portano al vertice dell’Italia calcistica, nel nesso Milan, Lega Calcio, Televisione, Governo. La fuga verso il Milan è la fuga verso il nuovo assetto dell’Italia del centrodestra». Insomma, la cessione di Nesta al Milan di Silvio Berlusconi era diventata un affare politico, proprio perché Nesta non era solo un giocatore, ma un simbolo. Della Lazio, certo. Ma anche di una certa Lazio, quindi di certi equilibri sportivi, economici. Non a caso, le uniche emblematiche parole d’addio pronunciate da Nesta, abbassando il finestrino della sua auto nel bel mezzo della contestazione, furono: «Dovevo farlo per il bene della Lazio». Era la fine di un’epoca: quattro anni dopo, dopo essersi fatta accarezzare e quasi strangolare dal fallimento, la società biancoceleste fu acquistata da Claudio Lotito.

Da allora sono passati 18 anni. Nella gestione-Lotito, mai nessun giocatore si è avvicinato alla grandezza identitaria di Nesta. La sua maglia numero 13 ha avuto diversi successori, tutti rimasti anonimi nella memoria collettiva del tifo biancoceleste: Dino Baggio, Cristiano Gimelli, Sebastiano Siviglia, Guglielmo Stendardo, Andrea Sbraga, Abdoulay Konko, Milan Bisevac, Wallace, e, per ultimo, il giovane Nicolò Armini. È come se fosse mancato qualcosa, perché a Roma non si guarda soltanto alle qualità tecniche di un giocatore, a quanti gol segna, a quante scivolate fa o a quanti chilometri percorre in campo. A Roma l’appartenenza ha un valore e un significato che va oltre, che permea l’essenza stessa di una città che vive e si crogiola costantemente nel mito della propria storia. Roma è una metropoli dilaniata da problemi di vivibilità, ma che comunque non ne compromettono il fascino. L’assunto per cui nessun romano vorrebbe vivere lontano da Roma esprime perfettamente la mentalità dei suoi residenti. E il calcio, in quanto bene populistico e di effimero consumo, amplifica ancora di più questo modo di essere.

È soprattutto per questo che la trattativa tra Alessio Romagnoli e la Lazio è stata vissuta dall’ambiente biancoceleste con un pathos che non si vedevano da tempo, anche perché storicamente il mercato di Lotito è caratterizzato da disillusione e disfattismo. Eppure, al momento dell’annuncio di Romagnoli, i laziali sono scoppiati in festa – sui social, ovviamente. E le qualità calcistiche dell’ex Milan pesano fino a un certo punto su questa gioia. C’entra il fatto che Alessio Romagnoli si è sempre dichiarato tifoso della Lazio, ha sempre detto apertamente di voler giocare nella sua squadra del cuore. Una condizione che fa passare in secondo piano il recente calo di prestazioni, anche dovuto a qualche guaio fisico. Romagnoli per anni è stato un difensore di qualità e pure carismatico, ha indossato la fascia di capitano del Milan, ma da tempo non ha un ruolo da protagonista. Inoltre il suo adattamento al calcio di Maurizio Sarri è tutto da verificare.

Alessandro Nesta ha esordito in Serie A con la Lazio il il 13 marzo 1994, pochi giorni prima del suo 18esimo compleanno, in occasione di una sfida contro l’Udinese. Al momento dell’addio, avvenuto nell’estate del 2002, aveva messo insieme 261 presenze e tre reti in tutte le competizioni (Grazia Neri/ALLSPORT)

Nonostante questo, in tutto l’ambiente Lazio si respira la sensazione, certo ingenua e semplicistica, che niente possa andare storto. E poco importa se Romagnoli e Nesta appartengono a due ere e – soprattutto – a due classi calcistiche diverse. Il loro è un confronto che non esiste sul piano razionale, perché i due sono su livelli incomparabili dal punto di vista tecnico: Nesta è stato uno dei migliori difensori della storia del calcio italiano e non solo, mentre Romagnoli non può certo avvicinarsi a certe definizioni. Anche in virtù di questo, Nesta è stato capitano e volto di una Lazio lontanissima da quella attuale, per tanti motivi – congiunturali e non. Anzi, forse l’acquisto di Romagnoli può essere considerato come la fotografia della Lazio attuale: un buonissimo centrale si unisce a una squadra che ogni anno lotta per la qualificazione a una delle coppe europee – non sempre quella più nobile – ma che finora è stata incapace di andare oltre, se non per qualche momento isolato. Un acquisto del genere può essere letto e vissuto come un tentativo di migliorare questo status che sembra connaturato alla gestione-Lotito. Allo stesso modo, però, traccia anche una distanza netta dalle ambizioni stratosferiche – anche se finanziariamente posticce – dell’era-Cragnotti.

Eppure, come detto, c’è qualcosa di più che sta scuotendo l’ambiente. Lo stesso Lotito sa benissimo che l’arrivo di Alessio Romagnoli potrebbe cambiare la percezione della sua gestione, fin qui storicamente contestata – per non dire osteggiata – della parte più calda del tifo laziale. Anche perché Romagnoli è il complemento emotivo di un mercato inusualmente scoppiettante, che fin qui ha portato sei acquisti – e almeno altri due dovrebbero essere completati prima della chiusura delle liste – senza cessioni di rilievo, e che ha riacceso un entusiasmo che non si percepiva dall’estate del 2011, quando a Roma arrivarono Djibril Cissé e soprattutto Miroslav Klose. Insomma, Romagnoli alla Lazio è il segnale di un cambiamento, restituisce la Lazio a un laziale e quindi alla sua gente, e poi un difensore centrale torna a indossare il numero 13 vent’anni dopo l’ultima volta. Attraverso Romagnoli i tifosi della Lazio si sentono di nuovo rappresentati. E questo, a Roma, è come se concedesse un’armatura, una sensazione di invincibilità che in realtà non ha ragione razionale di esistere, ed è proprio questo il fascino e la rovina di questa città, del suo rapporto complicato e bellissimo con il gioco del calcio.