Alia Guagni non vuole fermarsi qui

Intervista alla giocatrice del Milan sulla sua carriera, le sue esperienze in Italia e all'estero, il presente e il futuro del calcio femminile.

Quando Alia Guagni fa una partita delle sue si adopera per la squadra, mette a servizio i cross e ribadisce ancora una volta quanto sia stato importante il suo ritorno in Italia a gennaio. Ingaggia la battaglia sulla velocità, sulla discesa sulla fascia e anche quando finiamo l’intervista dopo poco la vedo inventarsi una corsa nella pioggia. L’atletismo, le fughe sui corridoi sono ormai un marchio di fabbrica, che danno alla partita un ritmo definitivo, l’efficacia giusta e fanno emergere una qualità su tutte che esemplifica il suo gioco: la precisione – nel prendersi un tempo, nell’occupare uno spazio, nel lanciare un pallone. Alia Guagni è una calciatrice d’esperienza, esponente di quella generazione che rimarrà nella storia del nostro calcio femminile come quella della battaglia per il professionismo, un traguardo che, primo tra gli sport femminili, il calcio raggiunge il primo luglio 2022. Un desiderio, prima di ogni altra cosa, che avvicina un movimento in forte ascesa a una pretesa di riconoscimento, a una rivendicazione della qualità dello spettacolo e soprattutto a una vittoria collettiva storica, che potrebbe aprire la strada per lo stesso percorso anche ad altre discipline.

Con una carriera di soddisfazioni a Firenze e una parentesi in Spagna, Alia dimostra talento e solidità e sa interpretare il gioco sulla fascia nel modo più completo possibile. Da gennaio 2022 terzina del Milan, in uno dei club più importanti di Italia, è una delle artefici principali del cambio di passo della squadra nel girone di ritorno del campionato. Per le calciatrici italiane è un esempio di esperienza e costanza: con testimonial come lei, Nike celebra il viaggio tanto quanto il traguardo, abbracciando il progresso rispetto alla perfezione. Prima di iniziare la nostra chiacchierata, le chiedo se si è divertita: siamo in un centro di allenamento a Milano, piove appena, lei ha appena finito il servizio fotografico e tra uno scatto e l’altro mi sembra a suo agio. Accenna un sorriso accogliente e mi risponde di sì.

Ⓤ: Primo luglio 2022: il calcio femminile italiano taglia il traguardo del professionismo. Cosa significa per te?

Solo qualche anno fa era incredibile e impensabile. A pensarci è un risultato enorme: noi abbiamo iniziato tutte per passione e divertimento e non c’era futuro.

Ⓤ: Lo avete spinto voi.

Volevamo una speranza, un sogno da coltivare, una possibilità concreta per le ragazze giovani che arrivano adesso.

Ⓤ: Il prossimo campionato vedrà anche un altro cambiamento: ci saranno solo dieci squadre.

Ci saranno meno squadre, dunque poche partite, finirà presto. Questo è un difetto di questo passaggio, ma è anche vero che per alzare il livello bisogna fare delle scelte. In Italia non abbiamo ancora i numeri per pensare a un professionismo per tante squadre. Ci sono dei costi e bisogna tenerlo a mente.

Ⓤ: Secondo te qual è l’eredità principale che la tua generazione lascerà alle calciatrici più giovani?

Il professionismo. Abbiamo lavorato per loro, per chi verrà dopo. Noi non ci godremo il professionismo per tanti anni; le calciatrici più giovani e quelle che adesso sono nelle giovanili e ancora prima a casa a guardare la tv, invece, sì.

Ⓤ: Nel 2019 si è aperta la strada all’affermazione più marcata del calcio femminile in Italia. Quell’esperienza è ritenuta un punto di svolta innegabile per la crescita di pubblico. Cosa ha inciso su questo?

Il gruppo, su tutto, perché ci siamo aiutate e ci siamo spinte a vicenda e anche chi non ha mai giocato è stata di supporto. Poteva esserci chiunque in campo, l’obiettivo era comune e l’intenzione era una.

Ⓤ: Cosa pensi della preparazione atletica nel calcio femminile italiano?

È cambiata tantissimo nel tempo e negli ultimi anni. Prima mi allenavo tre volte a settimana alle otto di sera. Sembra una cosa di poco conto ma l’orario proibitivo e il fatto di non farlo quotidianamente ha una influenza sostanziale sulla preparazione atletica. E poi adesso si investe nelle diverse figure tecniche negli staff delle squadre.

Ⓤ: Se dovessi importare una cosa dal calcio estero in Italia quale sarebbe?

L’intensità di gioco. Atleticamente noi siamo indietro nel calcio giocato, nelle partite, ma anche a scuola: l’insegnamento dello sport, come pratica e come allenamento, dovrebbe essere più rilevante.

Ⓤ: E cosa esporteresti, invece?

La tattica. Su questo fronte lavoriamo bene.

Bra Nike, top Spaccio Maglieria

Ⓤ: Se non avessi fatto la calciatrice?

Nei miei piani iniziali c’era l’università. Ho studiato Scienze Motorie per insegnare nelle scuole.

Ⓤ: Quali sono i momenti più importanti della tua carriera fino a qui?

Se devo scegliere, dico i primi. A Firenze e all’inizio era davvero come stare in famiglia. Oggi abbiamo una certa popolarità mentre in quegli anni si trattava di uscire con le amiche e tirare calci a un pallone. Ho avuto la possibilità di vivere un tempo del nostro sport in cui il pensiero principale era il divertimento e l’unica spinta era la passione.

Ⓤ: È nostalgia?

Un po’ mi manca quell’atmosfera. Adesso ci sono gli eventi, le interviste e va bene, si parla del calcio femminile ed è giusto, ma queste cose ti fanno cambiare prospettiva sulle cose.

Ⓤ: Qual è il rischio di questa evoluzione?

Troppe luci possono far perdere l’orientamento.

Ⓤ: Hai sempre pensato di voler fare la calciatrice?

Ho praticato altri sport: pallavolo, karate. Da piccola volevo fare le capriole in aria, ho provato la ginnastica ma non era decisamente il mio. Il calcio, però, è stata sempre la cosa che mi ha fatto stare meglio. In campo passa tutto. Il calcio ti fa sfogare, ti fa stare in compagnia e ti fa divertire o arrabbiare. È emozione.

Ⓤ: Nella tua carriera hai interpretato diversi ruoli difensivi: qual è quello in cui ti senti più a tuo agio?

Come esterna, terzina o quinta di difesa. Al centro mi sento invece in gabbia, bloccata. Mi piace stare sulla fascia perché ho bisogno di vedere lo spazio, il campo, di andare e anche di attaccare.

Ⓤ: Alcuni dicono che gli infortuni possono essere momenti utili per un’atleta per fermarsi e riflettere. Qual è invece l’aspetto peggiore da gestire?

Lo stop in sé è un problema. Perdi continuità, il ritmo partita. A Madrid ho sofferto il tira e molla, ho perso fiducia nel mio fisico ed è stato complicato.

Ⓤ: C’è stato un momento difficile in cui hai pensato di smettere di giocare a calcio?

Un anno in particolare, durante la Laurea magistrale: lavoravo a scuola e giocavo. Era due anni prima che iniziassi a Firenze con la Fiorentina. Avevo un contratto a zero, avevo comprato casa, era stressante. Ho pensato di dire basta, ma poi i piani sono cambiati.

Ⓤ: Uno dei pregiudizi più grandi nei confronti del calcio femminile è che, rispetto a quello maschile, manca l’agonismo: come commenti quest’affermazione?

Non sono affatto d’accordo. C’è sempre stato tanto agonismo tra di noi, però finita la partita finiva la competizione. Fuori dai campi ci conoscevamo tutte, mentre nel maschile dubito che accada. Il nostro agonismo era attaccamento alla maglia, era voglia di scendere in campo in ogni condizione, era “immolarsi alla causa”, senza pentimento.

Ⓤ: Il calcio fa parte della tua vita anche fuori dal campo?

Non guardo il calcio spesso, a dir la verità. Le partite importanti sì, ma preferisco dedicarmi ad altro. Libri, film. E poi mi piace costruire le cose, usare la manualità. Anche dipingere, per esempio.

Ⓤ: Quale consiglio daresti a una bambina che vuole diventare una calciatrice?

Lottare. Adesso per le nuove generazioni sono più facili tanti aspetti, ma c’è una cosa che non cambierà mai: se non si impara a tirare fuori la grinta non si arriva da nessuna parte. Direi anche di fare sempre affidamento alla passione e alla gioia che il calcio regala.

Da Undici n° 45
Foto di Rachele Daminelli
Nella foto in apertura: Bra e Shirts Nike, sciarpa Spaccio Maglieria