Vedere una corsa di ciclismo dal vivo è un paradosso, perché in realtà non la vedi veramente. Sali in montagna, scegli un tornante in cui fermarti e aspetti ore e ore quei pochi secondi in cui i ciclisti ti passeranno davanti senza degnarti di uno sguardo; poi, una volta svanita l’apparizione, loro continueranno fino al traguardo, mentre tu resterai fermo a pochi chilometri dalla vetta senza sapere se qualcuno avrà attaccato, se le posizioni che ti sei appuntato nella mente saranno confermate o no, chi avrà vinto. Ai duemila metri d’altitudine del Col du Granon, internet prende poco o nulla. I tifosi sloveni si aspettano che il primo a transitare nel loro tratto sia Tadej Pogacar, la maglia gialla, e invece spunta il danese Jonas Vingegaard, da solo. Dietro di lui c’è Nairo Quintana, poi Romain Bardet. Quando Pogacar arriva, insieme ad Adam Yates, il distacco da Vingegaard preso artigianalmente con il cronometro del cellulare è già di un minuto e mezzo. Un tifoso sloveno bestemmia in italiano: ha capito che le cose si stanno mettendo molto male.
All’inizio del Tour de France 2022 non ci si chiedeva se Tadej Pogacar avrebbe vinto, ma con quanti minuti di vantaggio lo avrebbe fatto. Le quote dei bookmaker lo davano a 1.60, 1.70, mentre Vingegaard e Primoz Roglc non erano a meno di 5. Delle dodici corse a tappe a cui ha partecipato dal 2020, Pogacar ne ha vinte nove. Delle tre di questa stagione — UAE Tour, Tirreno-Adriatico e Giro di Slovenia — non ne ha persa neanche una. A marzo, alla Strade Bianche, una mini-classica che si corre tra le campagne sterrate della provincia di Siena, ha attaccato a 50 chilometri dal traguardo e gli avversari l’hanno rivisto solo in Piazza del Campo.
Dopo aver vinto a sorpresa (e a soli 21 anni: il secondo più giovane di sempre) con una rimonta alla cronometro conclusiva il Tour 2020, e aver scherzato con i rivali al Tour 2021, chiuso di fatto già dopo la prima settimana, il suo dominio in Francia sembrava paragonabile a quello di Roger Federer a Wimbledon nel lustro 2003-2007. Quest’anno Pogacar ha conquistato subito la maglia gialla vincendo la sesta tappa, poi il giorno dopo si è ripetuto senza pietà alla Planche des Belles Filles. Su Twitter gira una statistica assurda: a 23 anni lo sloveno conta già nove successi di tappa al Tour de France. Mark Cavendish alla stessa età ne aveva quattro, Bernard Hinault tre, Eddy Merckx zero. Solo che ogni Federer deve aspettarsi l’arrivo di un Nadal. E Nadal è arrivato, anche prima del previsto.
All’inizio dell’ascesa verso il Col du Granon, Tadej Pogacar sorride a una telecamera. È in pieno controllo anche se, sulle altre salite di giornata, il Télégraphe e il Galibier, ha dovuto rispondere ai continui attacchi del Team Jumbo-Visma. Ci hanno provato più e più volte Roglic e Vingegaard, consapevoli che, se esiste un modo per scalfire le certezze di Pogacar, è proprio sfruttare la superiorità della propria squadra contro la UAE Team Emirates dello sloveno. Una squadra che ha perso, a causa del Covid, un gregario fondamentale come Matteo Trentin prima della partenza del Tour e Vegard Stake Laengen e George Bennett a corsa già iniziata. La Jumbo-Visma comincia il Granon con cinque uomini, la UAE ne ha solo due. Dopo qualche chilometro, però, Vingegaard rimane da solo, mentre Pogacar può ancora contare sul ritmo di Rafał Majka. Accade in un attimo: Vingegaard attacca, Pogacar non riesce a reagire e arriva al traguardo con quasi tre minuti di ritardo. È la prima volta che va in crisi in tutta la sua carriera. Qualcuno sostiene che soffre il caldo, altri che si è alimentato male. Lui dice: «Sono stato bombardato tutto il giorno dagli attacchi della Jumbo-Visma, oggi sono stati bravissimi nella tattica di squadra. Hanno fatto un’ottima gara e per me l’ultima salita della giornata è stata davvero dura».
Un momento destinato a rimanere nella storia di questo Tour de France e del ciclismo in generale: Pogacar cade durante il bellissimo duello con Vingegaard. Che, però, rallenta, lo aspetta, e fa ripartire la sfida ad armi pari. Il ciclista sloveno suggella il tutto con una stretta di mano
Il ciclismo è sempre stato uno sport di squadra, basti pensare ai dream team del passato del Team Sky in cui, per esempio, un giovane Chris Froome doveva addirittura rallentare in salita per non staccare il suo capitano Bradley Wiggins. La comparsa di un campione generazionale come Tadej Pogacar, capace di vincere due Tour de France, una Liegi-Bastogne-Liegi e un Giro di Lombardia e allo stesso tempo di partire come favorito per la Milano-Sanremo e per il Giro delle Fiandre, e tutto ciò ad appena 23 anni, rischiava però di farcelo dimenticare. Così sono serviti gli Avengers della Jumbo-Visma (la prima squadra dal 1969 a portare a Parigi la maglia gialla, la maglia a pois della classifica degli scalatori e la maglia a verde della classifica a punti) a ricordarcelo: non solo Vingegaard e Roglic, ma anche Sepp Kuss, Tiesj Benoot, Steven Kruijswijk, Christophe Laporte. E, soprattutto, il belga Wout Van Aert.
Come ha scritto su Twitter Leonardo Piccione di Bidon, «smettiamo di chiamarlo Tour de France e passiamo direttamente a “Tre settimane di Wout Van Aert che porta a spasso per la Francia altre centosettantacinque persone particolarmente brave ad andare in bicicletta”». Secondo i dati di ProCyclingStats, Van Aert è andato in fuga in sette tappe su 21 ed è stato il ciclista che ha percorso il maggior numero di chilometri davanti al gruppo, 687 sugli oltre tremila dell’intera corsa. Una costante tattica apparentemente distante dalla tradizione, ma che tutte le volte si è rivelata vantaggiosa per la Jumbo-Visma, come se ci fosse un disegno astrale noto solo a pochi eletti: Van Aert andava in fuga, poi Vingegaard rimaneva da solo contro Pogacar, e allora ecco che proprio in quell’istante compariva il belga con la stessa importanza di una vita extra in un videogioco. Vingegaard, Pogacar e Van Aert si sono ritrovati insieme, solo loro tre, sulla salita di Hautacam di giovedì scorso, l’ultima tappa di montagna, l’ultima occasione per lo sloveno di ribaltare la corsa alla maglia gialla. È finita che a causa del ritmo di Van Aert — che era in fuga dalla mattina e che pesa almeno dieci chili in più di lui — Pogacar si è staccato di nuovo e ha detto definitivamente addio alle speranze di vincere il suo terzo Tour de France consecutivo.
Quello del 2022 sarà ricordato a lungo come uno dei migliori Tour degli ultimi anni, o addirittura decenni. Dopo aver perso la maglia gialla sul Col du Granon, Tadej Pogacar ha provato ad attaccare Jonas Vingegaard almeno dieci volte, ma il danese è sempre rimasto incollato alle sue ruote, dimostrando di avere anche la condizione fisica necessaria per vincere. Durante l’ultimo tentativo, in discesa, Pogacar ha osato troppo ed è scivolato: a quel punto, sicuro che ormai il piano inclinato pendeva tutto dalla sua parte, Vingegaard si è fermato e ha aspettato il suo avversario, in una scena che Netflix — al seguito del Tour per girare un documentario in stile Formula 1: Drive to Survive — contribuirà certamente a rendere più iconica di quanto non sia già diventata. Stefano Rizzato, il telecronista della Rai, in quegli istanti ha esclamato: «Dateci altre venti, altre trenta tappe di questo Tour de France!». È quello che abbiamo pensato tutti.