In palestra con Irma Testa

È nata in un contesto difficile, ma grazie al pugilato ha conquistato l’emancipazione, le vittorie, la cultura. Intervista a una delle migliori atlete italiane, che è anche qualcosa in più: un esempio.

Prendiamo Jo, per esempio. Jo March. È quella ragazzina di quindici anni che ci hanno raccontato come audace, sincera, soprattutto ribelle. Un tipo che pare scontroso, in realtà sarebbe meglio chiamarla impulsiva. Quando Jo March appare in Piccole Donne sulla scena dei romanzi di formazione, è uno dei pochi personaggi femminili a cui sia concesso l’onore di evolversi. La crescita è degli uomini, degli Oliver Twist e dei giovani Holden. Nella società americana di fine Ottocento, a Jo si poteva al massimo dare del ma- schiaccio. Legge, vuol fare la scrittrice, si fa portavoce di una morale nuova. Un secolo e mezzo più tardi, perfino fuori dalla finzione letteraria, una ragazza può comporsi da sola la propria educazione, con le sue mani, fasciandole di bende, tre o quattro metri, prima con un paio di giri intorno al polso, poi sulle nocche, una a una, senza stringere, e dopo in mezzo alle dita, pollice compreso: infilandole alla fine nei guantoni da boxe – e farla per davvero la boxe, fare a pugni su un ring, senza che sia uno scandalo. Senza che ci sia più qualcuno a dire quella parola. Il maschiaccio.

Irma Testa è cresciuta per questa seconda via. Non ha niente a che vedere con i personaggi della Alcott. Si è scritta il suo romanzo di formazione partendo da un rione con una brutta fama nell’hinterland di Napoli, fino a diventare la prima donna pugile italiana a un’Olimpiade (Rio 2016) e la prima a tornare con una medaglia (bronzo, Tokyo 2021). Torre Annunziata è uno dei venticinque comuni dentro la zona rossa ai piedi del Vesuvio, 40 mila persone in 7 km quadrati che convivono col silenzio angosciante del vulcano. Non si fa sentire ma sai che c’è. Come accade in certe strade, dove ti fanno capire cosa vogliono senza parlare. Sotto il Vesuvio, in modo inconsapevole, si impara a consumare un giorno alla volta. A domani: poi ci pensiamo. Negli ultimi quindici anni, tra il 2007 e il 2022, l’amministrazione comunale di Torre Annunziata è stata sciolta due volte. La zona grigia di una certa borghesia ha fatto patti col diavolo. Se qua ti passa per la testa di scrivere il tuo Bildungsroman, buona fortuna.

Irma Testa l’ha fatto. Ha compiuto un percorso di 400 km per trasferirsi ad Assisi, dove la Federazione italiana pugilato ha il suo centro e dove si sta in ritiro permanente. Una clausura di pugni e di carne magra, di chili da non prendere o da smaltire, corpi che si restringono quando un match s’avvici- na, cicli mestruali che sballano. Un percorso perfino più lungo di 400 km, quando Irma si ferma a pensare alla ragazzina che era e alla donna che è. «Sono andata via di casa a 14 anni. Mia madre si era preoccupata di tenermi lontana dai guai e di darmi un’educazione, ma stava fuori tutto il giorno per pagare i debiti che avevamo in famiglia. Se andavo o non andavo a scuola, non lo sapeva nessuno. Sono cresciuta con i miei nonni che non hanno avuto modo di imparare a leggere e scrivere. La boxe è stata un mezzo per conoscermi. Mi sono fatta un’opinione sui discorsi che sentivo intorno a me. Ho letto i romanzi di Dostoevskij quando mi è servito per parlarne con chi mi stava vicino e li citava. È questo il cambiamento che mi rende fiera, non le medaglie sul ring. Quelle sono venute. La crescita l’ho voluta io».

L’incontro magico che l’ha messa in cammino verso la consapevolezza è stato quello con Lucio Zurlo, un signore sopra gli ottanta con le gambe arcuate, a Napoli si dice che tiene le cosce a bancarella. È un gigante minuto, piccolo di statura, immenso per ambizione. Sta dal 1960 nei locali della palestra della Boxe Vesuviana, con un dito indice piegato in due e una resistenza che nessuno piega. Apre le porte a certe vite da cani sciolti, gli dà un sacco da prendere a pugni e una ragione per non buttarsi via. Tutto alle soglie del rione Provolera, il nome sta per polveriera, una delle piazze di spaccio della città. Nemmeno Clint Eastwood saprebbe inventarlo meglio, uno come Zurlo. Pensava che la boxe non fosse roba per le femmine e s’è trovato sopra il ring un ragazza che pare nata per far quello, così elegante da sembrare miracolosa, così bella da sembrare una finzione.
Quando torna a casa ogni tanto in vacanza, le altre bambine che stavano in strada con lei, la trattano come l’amica geniale, a proposito di romanzi di formazione. Irma attraversa le vecchie strade del disagio che conosce per filo e per segno, la guardano, la indicano, adesso tecnicamente sarebbe pure una poliziotta, perché quasi tutti i dilettanti di caratura internazionale possono permettersi di dedicarsi allo sport d’élite solo appartenendo a uno dei gruppi sportivi di Stato.

È andata a prendersi in Turchia una medaglia mondiale che le mancava, un argento dopo il bronzo olimpico dell’estate scorsa, battuta in finale da Lin Yu-ting, la ragazza di Taipei che non conosce stile. Lei trattiene e lega, lega e colpisce, ha vinto facendo una boxe da catenaccio contro la guardia bassa di Irma, che sul ring invece danza, pattina e si sente libera. «Ma io l’ho vissuto come un grande risultato, non come un sconfitta. Sono rientrata con una sensazione che mi mancava, con la consapevolezza di essere diventata più forte e che il podio ai Giochi non è stato un caso. Ne avevo bisogno. Ci sono ancora dei momenti in cui non credo in me stessa. La boxe ti mette in discussione a ogni colpo che prendi, e si sentono, si sentono tutti. In faccia, al fegato, precisi, sporchi, dritti, incrociati, fanno male di più quelli che non ti aspetti, i colpi sotto sono i più difficili da incassare. Io non lo so che cosa avrei fatto, senza la boxe. Credo che mi sarei scelta un altro sport individuale. Non vado d’accordo con l’idea che un mio errore possa finire per danneggiare altri, o tutta una squadra. Io penso che se sbaglio, devo pagare da sola».

È questa visione quasi titanica della boxe che le fa vedere tutta la potenza nascosta nel gesto di una donna che sale su un ring, nel messaggio che è in grado di lanciare. «L’unica barriera che ancora resiste è il pregiudizio, ma ostacoli non ce ne sono più. È il momento migliore per essere donna, per essere pugile, per essere una donna-pugile. Non c’è mai stata tanta visibilità, non era mai successo che due donne potessero battersi nel tempio del Madison Square Garden. Il match del 30 aprile tra Katie Taylor e Amanda Serrano ha detto al mondo che la boxe femminile esiste ed è bellissima. Per durezza, cattiveria, eleganza. Pensavo che avrebbe vinto Serrano, Taylor invece è uno spettacolo per come invecchia e ancora impara. È stata un’apripista per noi tutte. Agli ultimi Mondiali, la Federazione internazionale ha introdotto dei premi in denaro, con le stesse cifre per gli uomini: 100 mila euro per l’oro, la metà per l’argento. Lo dobbiamo a chi ha lottato prima di noi».

Eppure le pioniere sarebbero un ceppo sterile, se non ci fossero le eredi a intestarsi battaglie nuove. Le conquiste femminili viste da un ring fanno perfino più impressione. «I Mondiali di boxe», dice Irma Testa, «sono una vetrina sportiva e un osservatorio sociale. Più delle Olimpiadi, dove arrivano poche atlete dopo un lungo processo di qualificazione. Gli ultimi Mondiali hanno avuto il record di iscrizioni, con 93 Paesi, di cui 13 presenti per la prima volta. In qualche caso si trattava di nazioni dove i diritti delle donne sono a rischio, in altri dove la boxe fa fatica a trovare una legittimità perfino in campo maschile».

Aveva una squadra il Pakistan, che occupa la 167esima posizione su 170 nel report 2021/22 dell’ONU su Woman, Peace and Security, un monitoraggio del benessere sociale ed economico. Sotto ci sono solo Siria, Yemen e Afghanistan, dove essere donna può costare la vita. Avevano una pugile ai Mondiali alcuni dei 43 Paesi privi di una legge che punisca lo stupro commesso dal partner, e altri fra i 30 che limitano il diritto delle donne a muoversi liberamente, senza il permesso di un uomo. In 20 nazioni sono ancora in vigore i matrimoni riparatori, secondo l’ONU ci sono 12 milioni di donne che ogni anno vengono costrette a sposarsi prima dei 18 anni. Eppure le ragazze di quei paesi erano là, a battersi tra un gong e l’altro, una simulazione della vita rinchiusa in tre round. In Giordania la boxe sfida le tradizioni e il conservatorismo religioso. Malissa Smith, autrice di A History of Women’s Boxing, ha scritto: «Quando ero una ragazzina, i nostri libri di testo di storia consistevano in racconti di re e regine, generali e presidenti, ben poco sugli uomini e sulle donne le cui vite hanno influenzato collettivamente la società con il passare dei secoli. In questo microcosmo della società vive la storia della boxe, il potere della cultura popolare. L’immagine di una donna con i guantoni è diventata un simbolo potente del cambiamento del nostro posto nella società».

C’è stato un tempo in cui sul ring potevi salirci solo con un bikini, portando un cartello con il numero del round. «È stato un Mondiale bellissimo, anche per questo. Ho visto ragazze», dice Irma, «che combattono per emanciparsi, altre che lo fanno con l’hijab. Ho visto l’Asia che adoro. Nei miei viaggi in India, Thailandia, Cina, ho conosciuto culture lontane dalla mia, un modo di pensare differente, persone con un’esigenza di spiritualità fortissima. Sono una credente, ma non in un dio specifico, non quello che ci hanno inculcato da bambini. Sento l’esistenza di qualcosa di grande da scoprire, forse la vita neppure ci basterà. È il fascino del mondo senza barriere, ma poi sento il bisogno di tornare presto a casa. Che ormai è Assisi. A Torre c’è la mia famiglia, dove sono una figlia, sono una sorella, sono una zia. Solo ad Assisi sono tutto. Sono una pugile, sono una donna, un giorno mi piacerebbe essere anche una madre. È un istinto. Non lo cercherò di corsa o disperatamente. So che si può essere madre in molti modi. Ecco, mi piacerebbe che accadesse, mi piacerebbe che ci fosse prima o poi un modo anche per me».

Da Undici n° 45
Foto di Gabriele Seghizzi