Perché il Dream Team ci fece innamorare del basket Nba

Trent'anni fa la Nazionale di basket americana trionfò alle Olimpiadi di Barcellona nel modo più affascinante e crudele che ci potesse essere.

Il museo olimpico dello sport, dedicato allo storico presidente del CIO Juan Antonio Samaranch, non è certo la struttura che ruba maggiormente l’occhio mentre si percorre l’Avenida de l’Estadi sulla collina di Montjuïc, a Barcellona. Il primato spetta, naturalmente, allo Stadio Lluís Companys, al Palau Sant Jordi e soprattutto alla piscina Bernat Picornell, teatro dell’impresa del “Settebello” di Ratko Rudic. Proseguendo più avanti lungo l’Avinguda Miramar c’è, poi, la Piscina Municipale, quella delle centinaia di foto di tuffatori in volo con la Sagrada Familia sullo sfondo: queste ultime in particolare, secondo Ana Pantaleoni di El Pais, rientrano tra le immagini che «hanno segnato la storia di una città» che per due settimane del 1992 riuscì ad essere il centro di un mondo in espansione dopo la caduta del muro di Berlino e a cambiare per sempre l’idea e la percezione dei Giochi Olimpici come evento globale e globalizzato. Un evento, quindi, destinato, pensato, realizzato e voluto per un pubblico che non fosse solo quello presente all’interno degli impianti.

Entrando all’interno del museo si può notare come le testimonianze del passaggio del “Dream Team” del ‘92 – la squadra di basket americana che, per la prima volta, portava alle Olimpiadi i professionisti della NBA – non siano così tante e così vistose come ci si aspetterebbe: c’è una foto, commovente, in cui Magic Johnson sta per passare il pallone a Michael Jordan e Drazen Petrović cerca di anticipare il movimento in scalata per tentare l’intercetto; c’è un poster orizzontale della cerimonia del podio, quando i giocatori americani, su pressione dei rispettivi sponsor tecnici, coprirono il logo Reebok delle loro tute con il risvolto delle stesse, abbassando la zip del pezzo superiore fin quasi a metà; c’è, infine, un ritaglio di giornale, un trafiletto dell’edizione di Usa Today del 9 agosto, in cui si annunciava che la squadra americana aveva portato a termine la sua missione vincendo la medaglia d’oro più scontata di sempre.

Quello che potrebbe sembrare un minimalismo a tratti inspiegabile, in realtà restituisce alla perfezione quello che il Dream Team ha rappresentato e continua a rappresentare ancora oggi: un gigantesco, colorato e rumoroso fenomeno di costume a sé stante, quasi completamente staccato dalla dimensione agonistica, un’espressione di pop culture contemporanea che ha anticipato di vent’anni l’idea di comunicazione e connessione multimediale, e in cui gli aspetti sportivi e di campo costituiscono un’appendice ridondante e talvolta persino superflua del racconto. Lo sapeva anche l’allenatore Chuck Daly che, negli anni, avrebbe definito quell’esperienza come «un viaggio fatto insieme a 12 rockstar, come se un giorno Elvis e i Beatles avessero deciso di andare in tour insieme».

In effetti, le partite del Dream Team al Palau D’Esports di Badalona furono contenutisticamente vuote, una dimostrazione di forza bruta talmente evidente e non necessaria da sembrare artefatta, come una qualsiasi esibizione degli Harlem Globetrotters contro i Washington Generals di turno, in cui la componente di intrattenimento non sempre bastava a colmare il vuoto lasciato dall’assenza di qualsiasi elemento di incertezza ed emotività. Se volessimo filtrare il tutto attraverso la lente della competizione pura, potremmo persino arrivare a dire che quella selezione formata da 11 superstar e un collegiale – Christian Laettner da Duke – sia stata nociva per sé stessa e per gli altri, un bug di sistema che alterò l’ideale olimpico della prevalenza della partecipazione sulla vittoria e che alimentò una visione di superiorità per diritto di nascita, che non aveva una ragion d’essere nemmeno con una squadra simile, e che avrebbe presentato il conto nel decennio successivo.

Vedere avversari già battuti in partenza, il cui unico scopo era quello di farsi fotografare mentre condividevano il campo con gente che credevano avrebbero continuato a vedere solo in televisione, convinse gli americani che la distanza tra loro e il resto del mondo sarebbe rimasta quella, incolmabile. E la conseguenza, come tutti gli scialbi sequel di un qualsiasi blockbuster generazionale, furono i tentativi di imitazione sempre meno riusciti che ebbero il loro culmine nel disastroso biennio 2002-2004, quando il settimo posto ai mondiali di Indianapolis e il bronzo alle Olimpiadi di Atene convinsero USA Basketball della necessità di un “Redeem Team” che a Pechino 2008 lavasse via l’onta degli allievi che fino a quel momento non erano stati all’altezza dei maestri.

Non è un caso, perciò, che l’unico momento di sport degno di nota di quei giorni irripetuti e irripetibili fu una partita di allenamento a Montecarlo, uno scrimmage a porte chiuse voluto proprio da Daly per stabilire le gerarchie all’interno di un gruppo che avrebbe potuto sgretolarsi sotto il peso di quegli ego troppo grandi per poter coesistere a lungo. «La partita più fantastica del mondo che nessuno vide mai», così ribattezzata da Jack McCallum nel suo meraviglioso Dream Team, vide la vittoria della squadra bianca di Jordan su quella blu di Magic, con MJ che poi si divertì a torturare psicologicamente il rivale canticchiando il claim di Be Like Mike, il commercial Gatorade che lo stava rendendo l’atleta più ricco e famoso del globo.

Il fatto che ancora oggi si parli più di quella partita che non delle otto che portarono Team USA a riconquistare l’oro dopo lo smacco di quattro anni prima a Seul – sconfitta in semifinale contro l’Unione Sovietica del “blocco lituano” formato da Sabonis, Marčiulionis, Kurtinaitis e Chomičius – rientra nella logica, allora non così tanto familiare per i media europei, che quando la notizia non è nella competizione in sé allora la si deve cercare nel dietro le quinte, nel contesto, nelle storie che formano la storia ben al di là del singolo evento partita. Una storia che nei trent’anni successivi è stata raccontata da ogni angolazione possibile e che, però, non stanca mai, conservando intatto quell’alone di come eravamo e cosa siamo diventati grazie a un’esperienza mistica che era ugualmente individuale e collettiva, in un modo tale che anche chi non c’era – o non poteva esserci – potesse esserne testimone diretto.

Nel caso del Dream Team si intuì subito che «le notizie non erano le partite ma gli allenamenti». E che più dei record, degli oltre 40 punti di scarto inflitti agli avversari, degli zero time-out (non) chiamati da Daly nel corso del torneo, valeva la pena concentrarsi su tutto il resto, su tutto ciò che avrebbe rivoluzionato la visione immutabile e stereotipata degli sportivi d’elite: gli eccessi notturni di Barkley, il nonnismo perpetrato ai danni del povero Laettner, le partite a carte giocate a notte fonda, la hall dell’Hotel Ambassador trasformata in una hospitality per le famiglie dei dream teamers, Johnson che promise a Jordan e Pippen l’aiuto di tutta la squadra per far pagare a Toni Kukoč l’affronto di aver strappato al general manager dei Bulls Jerry Krause un contratto troppo alto per un rookie impedendo l’adeguamento di quello di Scottie, l’esclusione preventiva di Isiah Thomas a causa del veto posto da Jordan.

Per la prima volta il giocatore, anzi i giocatori, divennero il centro di tutto, il soggetto unico e privilegiato di un racconto costruito sulla base della visione americana per cui tutti devono avere un ruolo e una caratterizzazione ben precisa da rispettare all’interno di una storyline che interessi e intrattenga una platea generalista, o comunque non solo quella degli appassionati, degli esperti, dei “die-hard fan”. Un’intenzione che la NBC tradusse nel The Usa Basketball Selection Show, lo speciale condotto da Bob Costas che il 21 settembre 1991 rivelò in prime time i primi dieci nomi della selezione olimpica: Magic Johnson, Charles Barkley, Karl Malone, John Stockton, Patrick Ewing, David Robinson, Larry Bird, Chris Mullin, Scottie Pippen e, last but not the least, Michael Jordan. Il quale nel 2003, in una chiacchierata con il leggendario coach di Georgetown John Thompson, avrebbe ricordato come «il Dream Team sia stato l’inizio di tutto, il momento esatto in cui ho capito che non sarei potuto più andare da qualche parte senza essere riconosciuto. Prima capitava che mi trovassi a Parigi o Milano con la gente che non sapeva chi fossi e questo mi permetteva di sedermi da qualche parte e rilassarmi con la mia famiglia e i miei amici: dopo il Dream Team non c’era più alcuna differenza tra quanto mi accadeva negli States e quello che succedeva in Europa. I fans erano completamente impazziti».

Il processo di costruzione e racconto dell’atleta moderno – la Paramount, nel 2020, avrebbe approfondito questo aspetto con un documentario in cinque parti – era già diventato una ”divinizzazione” in piena regola, il lasciapassare per l’immortalità che spetta alle icone senza tempo: «Quei ragazzi hanno cambiato il basket per sempre, perché per la prima volta i tifosi iniziarono realmente a diventare fan anche dei giocatori: fan di Larry Bird, e non solo dei Boston Celtics» avrebbe poi detto nel 2017 Draymond Green commentando l’impatto che il Dream Team ebbe sulle successive generazioni di giocatori.

Non era tanto, o non era solo, una questione legata a uno star power unico nel suo genere o alla visione dell’atleta-azienda che si stava progressivamente consolidando attraverso la «pornografia della scarpa» (sempre McCallum) e il peso specifico sempre più rilevante dei grandi marchi di abbigliamento sportivo; il merito di chi accettò di andare a Barcellona dopo una stagione massacrante di quasi 100 partite fu quello di allargare definitivamente i confini e gli orizzonti del basket professionistico, trasformando la NBA in qualcosa di davvero globale, qualcosa di concreto, tangibile, reale, e non più solo un fenomeno di nicchia che fino ad allora era sopravvissuto grazie all’immaginazione, alle testimonianze orali di chi aveva avuto il coraggio di attraversare l’Atlantico, al gracchiare delle trasmissioni radio per i militari americani di stanza in Europa, alle immagini sbiadite delle tv private che di tanto in tanto trasmettevano qualche partita. Finalmente una generazione di giovani europei – e non solo – potevano guardare a “The League” come a un qualcosa di accessibile, di raggiungibile, qualcosa alla loro portata dal punto di vista agonistico e culturale: «L’impatto che il Dream Team ebbe in Europa e nel mondo fu enorme. Se guardate le interviste che nel corso degli anni abbiamo rilasciato io, Dirk Nowitzki, Pau Gasol e Manu Ginobili, potete capire come e quanto siamo stati tutti influenzati da quella squadra» avrebbe rivelato Tony Parker nel 2020 in una diretta su Andscape.

In fondo era proprio questo il motivo per cui Boris Stanković, il visionario segretario generale della FIBA con un passato da ispettore della carne a Belgrado, aveva lavorato più o meno nell’ombra nei precedenti cinque anni, cercando di convincere il commissioner David Stern e il resto del mondo che portare i “pro” NBA ai Giochi era una necessità, la soluzione a un problema che si faceva finta di non vedere in attesa di una soluzione che non sarebbe comunque arrivata da sola. Guadagnandoci, per di più. Sarebbe riuscito nel suo intento solo nel 1989, al congresso FIBA di Monaco, quando la sua risoluzione sarebbe stata approvata con 57 voti favorevoli e 13 contrari inaugurando una nuova era dello sport professionistico: «Il mio obiettivo era quello di far crescere il gioco del basket, di renderlo più forte, eppure c’era questa ipocrisia di fondo per cui i professionisti americani non potevano partecipare alle Olimpiadi diversamente dai giocatori delle altre nazionali che erano professionisti de facto: per me era semplicemente impossibile da tollerare».

La storia e il tempo avrebbero dato ragione a Stanković, scomparso nel 2020 a 95 anni, trenta dei quali spesi nel tentativo – riuscito – di rendere il basket un fenomeno di massa che fosse in grado di scandire lo scorrere del tempo attraverso il meglio che quel tempo ha da offrire. Il Dream Team fu, anzi è ancora, la sua creatura più riuscita, la dimostrazione che l’eternità contenuta in un singolo attimo non è altro che la dimostrazione di come un sogno o una visione possano diventare realtà fino ad influenzarla e cambiarla per sempre. Lo scrisse anche Peter Vecsey sul New York Times il giorno dopo il risveglio collettivo più dolce di sempre: «Tutto questo è stato un sogno. Eppure per alcune settimane questa squadra è esistita davvero. Abbiamo visto come è stato possibile dominare i migliori giocatori europei senza farli sentire in imbarazzo. È stato un nobile esperimento ed ha funzionato».