Lo stadio dei padri e dei figli

La prima volta allo stadio di un figlio con il padre è aprire una finestra sul loro rapporto, e su come muterà nel tempo.

La prima volta che ho portato mio figlio allo stadio è stato il 15 aprile. La seconda il weekend scorso, nella bizzarra vernice ante-ferragostana della Serie A. Nello zaino le cose a cui pensi per un bambino di sei anni. I fazzoletti, l’acqua, i panini da casa, anzi no meglio là, ai furgoni con le salsicce i peperoni le piadine di gomma perché nel pacchetto stadio c’è anche quello e va fatto così. Una maglietta di ricambio che se non la porti stai sicuro che serviva. Quella del Milan invece da indossare solo una volta arrivati, ché per il viaggio è molto meglio il cotone. Scelte, paranoie, organizzazioni da padre che solo sabato ho per la prima volta davvero sovrapposto alle stesse organizzazioni che mio padre avrà fatto con me alla mia prima volta lì, trent’anni fa.

I centossessanta chilometri in A4 prima dei tratti a piedi come tante formiche, a tracciare sentieri guidati da chi sta davanti. In auto il bambino ascolta il padre, poi l’adolescente inizia a sapere più cose riguardo alla formazione, a ricordare il risultato, la statistica, conosce meglio gli avversari perché ha molto più tempo del padre per guardare i tg sportivi e molto più spazio nei file mentali, poi il ragazzo si occupa in autonomia di trovare i biglietti, di sceglierli, ma con i soldi del padre dato che magari ancora studia. Col trascorrere degli anni i discorsi si trasformano in auto e si trasformano sui seggiolini dell’anello in cui hanno trovato i loro biglietti. I primi tempi si tratta solo di ascolto, di pendere dalle labbra del padre, poi le prime timide prese di posizione discordanti dalla sua opinione, su quel cambio o su quella scelta tattica, senza però la personalità, o forse più semplicemente la sicurezza, per andare fino in fondo, per dire che no, non va fischiato quel centrocampista se ha deciso di tornare indietro con un retropassaggio al portiere, era giusto fare così, verticalizzare era più rischioso, non aveva senso in quel momento, tornare indietro non è per forza sprecare tempo, perdere occasioni, mostrarsi deboli, come non lo è confessare di voler cambiare liceo o di non voler più andare in vacanza con lui e la mamma.

Ma ancora è difficile dosare le parole perché non escano come eccessivamente ribelli e neppure eccessivamente prudenti. Si dice che un ragazzo capisca di essere diventato un uomo quando scopre di avere opinioni diverse da quelle del padre. È la nave che scopre che può uscire dal porto battendo la bandiera che ha scelto per sé, con i vantaggi e i rischi che comporta abbandonare la flotta che in caso di tempesta indicava sempre cosa farsene delle vele e la rotta da tenere, e ci si poteva permettere il lusso di non fermarsi un solo momento a chiedersi cosa se ne pensava realmente delle indicazioni. Semplicemente accettandole come l’unica opzione possibile.

I rapporti tra due persone sono stanze. Alcune stanno chiuse per mesi, anni, e quando le riapri le trovi sempre identiche a se stesse, sai che nessun oggetto cambia posto, sono abitate dalla rassicurante solidità della certezza. Altre le chiudi e non t’accorgi nemmeno d’averlo fatto, di non sapere più dove hai messo la chiave. La stanza di un padre e un figlio esattamente come ogni altra è fatta di pavimento, pareti, arredi. Ed esattamente come ogni altra affronta il rischio di snaturarsi nel tempo, di mutare, anche se in realtà vederla cambiare non è di per sé dannoso. Anzi, considerato che è una stanza inaugurata da un adulto e un infante, è fisiologico che continui a mutare. La questione non sono i mutamenti, piuttosto quanto i mutamenti la manterranno per entrambi un luogo in cui restare a proprio agio. Per un padre e un figlio che condividono l’amore per una stessa squadra, il loro guardare la partita insieme, ancor di più se allo stadio, rappresenta un grande specchio appeso a una delle pareti della loro stanza.

Sabato scorso salivo le scale verso il secondo anello arancio di San Siro mano nella mano con Pietro e pensavo a quando le salivo con mio padre ed ero io il bambino. Pensavo a cosa ci dicevamo in quei momenti io e lui, con me piccolo, con me adolescente, con me uomo. E alle cose che non ci dicevamo, alle cose che avevamo smesso di dirci, a quelle che non avevamo mai nemmeno sfiorato, a quelle che invece oggi abbiamo avuto il coraggio di raccontarci. Guardare da qui alla scalinata con lui, alla camminata che facevamo da Lampugnano allo stadio, alle nostre esultanze a volte abbracciandoci altre restando invece ognuno nel suo spazio, significa avere davanti le stagioni che ha attraversato la nostra stanza e diventa inevitabile pensare a quella che da sei anni vivo con Pietro e da tre con Bianca. Perché arriverà anche la sua di prima volta, in primavera, e già so che ripenserò a tutto questo mentre preparerò anche per lei i fazzoletti e la maglia di ricambio.

Entri allo stadio per la prima volta con tua figlia o tuo figlio e stai appendendo uno specchio in cui vi guarderete lungo gli anni. Come i compagni d’ombrellone in riviera che da un anno all’altro cambiano d’aspetto e di carattere, obbligandoti a una verifica con te stesso, a volte a ripartire da capo, facendo i conti con i riscontri della realtà: a che punto siamo rispetto all’ultima volta che siamo passati di qui? Ci stiamo più simpatici? Meno? Cosa abbiamo fatto bene e cosa male per ritrovarci così, ora? Una volta che appendi lo specchio, appendi alla parete l’ingenua curiosità di sapere a te padre come andrà. Io e i miei figli saremo sempre naturali tra noi? Faremo cose, vedremo posti, affronteremo problemi, scambieremo felicità in modo fluido oppure ci allontaneremo? Chissà come vivremo la banale e pura gioia di un gol visto insieme allo stadio tra cinque anni. E tra dieci. E tra venti. Chissà se poi smetteremo di andarci insieme per sempre. E se nel caso compenseremo la complicità che trovavamo lì con altro oppure se la perderemo per strada e basta.

Quando ho sentito parlare dell’effetto che la prima-volta-di-un-bambino-a-San-Siro aveva avuto su degli adulti, mio figlio aveva appena due anni, troppo pochi per iniziare a pensare realmente alla sua. Mentalmente ero ancora lontano da quella cosa. Mi trovavo sul set di uno spot e nel pomeriggio, dopo qualche chiacchiera superficiale sul calcio, un tecnico della produzione mi aveva raccontato che s’era emozionato entrandoci con un amico e suo figlio piccolo. Mi diceva che s’era rivisto lui bambino guardare i colori e le quantità, ascoltare il rumore e l’eco mastodontica. Lui mi raccontava e io per la prima volta realizzavo che il giorno in cui sarebbe successo non sarebbe stato solo andare allo stadio con mio figlio. Sarebbe stato guardare indietro e avanti nella mia vita e nelle nostre.

Ora al ritorno da San Siro lui ogni volta dorme. Al risveglio la mattina so che ha ancora negli occhi il verde brillante del campo e le quattro torri, perché sono le ultime cose che ha visto prima di abbandonarsi al sonno e perché ricordo che accadeva anche a me. So che arriverà il momento in cui torneremo e lui sarà più sveglio di me, poi il momento in cui magari mi darà pure il cambio alla guida. E ricorderò quando lo mettevo a letto di peso. Mi ricorderò del bacio della buonanotte e sarò costretto a capire se gli anni ce l’avranno tolto. Se nel tempo avremo finito per considerarlo appiccicoso senza porci il dubbio che un bacio della buonanotte, senza alcuna pretesa di proteggere il cucciolo dal mondo, può servire a non perdere l’abitudine al contatto. Durare per sempre. Perché non si diventa troppo grandi o vecchi per tirar fuori l’amore, perché una volta che lo inizi a voler controllare rischi di sfibrarlo, di dargli la condanna dell’automatismo, “siamo padre e figlio per forza ci vogliamo bene”, ma dei sentimenti sulla carta finisce che poi non se ne fa nulla nessuno. Risposte che ci darà tutto quello che avremo nella nostra stanza, e dunque anche lo specchio del nostro stadio insieme.