Le prime parole italiane di Samuel Umtiti sono state in realtà parole francesi: suis très content d’avoir. Sono state le prime e le uniche di quell’ormai famosa serata di giovedì scorso, con lui che esce dalle porte del piccolo aeroporto di Brindisi, una sciarpa gialla e rossa del Lecce appesa al collo, si ferma davanti ai microfoni e dà vita a una scena storica per i tifosi salentini e paradossale per chiunque altro. Non fosse per quelle quattro parole, Umtiti non avrebbe parlato. Gli applausi e i cori sono partiti immediatamente, lui ha sorriso e salutato imbarazzato, gli è arrivata davanti alla bocca la spugna rossa del microfono di Antenna Sud. Il rumore delle decine di tifosi continuava tutt’attorno, costringendolo ad abbassarsi leggermente verso i giornalisti per cercare di sentire cosa gli chiedevano. Loro provavano a fargli le solite domande, così come lui tentava di rispettare il copione classico dell’arrivo di ogni nuovo acquisto attorno a cui si sia creata molta attesa.
Davanti ai microfoni, Umtiti aveva tentato di seguire la prassi prevista, presto però l’aveva fatta saltare: circondato dai cori aveva alzato gli occhi al cielo, per un attimo aveva finto di tornare ad ascoltare le domande dei giornalisti, ma un istante dopo aveva già le mani agli occhi per premere le lacrime dentro, per cercare di contenersi. Dopo un ultimo tentativo di far cominciare un’intervista che non sarebbe mai cominciata, si è definitivamente abbandonato al momento. Aveva scosso la testa al ritmo dei cori, iniziato a saltellare e aperto il sorriso sull’oooh oooh oh oh che del coro siam venuti fin qui per veder giocare Umtiti.
La commozione di Umtiti è stata provocata non tanto dal contesto, quanto dalla sua sorpresa nel sentirsi così toccato da quell’affetto. Si è commosso, in un certo senso, per la sua stessa commozione, spiazzato dalla sua reazione istintiva e incontrollabile. La sorpresa, a sua volta, è stata anche del pubblico. La potenza dei minuti di girato catturati all’aeroporto di Brindisi sta nella loro originalità: nessuno si aspettava che le cose sarebbero andate così, che una stella del calcio, il difensore titolare della Francia campione del mondo nel 2018 e del Barcellona, un giocatore adorato da Messi – non il genere di collega a cui è semplice strappare stima e simpatia – si sia commosso per il suo arrivo a Lecce, una neopromossa in Serie A. Ma non è davvero tutto qui: le lacrime di Umtiti sono state liberatorie, e la liberazione che hanno celebrato è quella dall’ambiente Barcellona, diventato, per lui, insopportabile nell’ultimo anno e mezzo.
Rivediamolo ancora una volta
La storia dell’uomo Umtiti ha una trama decisamente comune per la Francia post-coloniale: l’infanzia passata a Ménival insieme alla sua famiglia partita da Yaoundé, Camerun, quando lui aveva solo due anni; nel quinto arrondissement di Lione di cui lo Château de Ménival era l’unico punto gradevole in un panorama altrimenti limitato a tanti condomini sparsi come giganteschi Lego squadrati e grigi. La vicenda del calciatore ha tratti invece unici, oseremmo dire paradossali: aveva bruciato le tappe, la crescita era stata ripida e costante. L’esordio nel Lione a diciotto anni nel 2012, nel 2013 la titolarità nell’OL e la vittoria del Mondiale Under 20, l’esordio con i grandi dei Bleus nel corso degli Europei casalinghi del 2016, ai quarti di finale, e poi in semifinale, e poi in finale. Con l’argento continentale al collo era arrivato al Barcellona per 15 milioni e due anni dopo aveva vinto i Mondiali russi, segnando in semifinale sopra alla testa di Fellaini ed esultando come un Celentano dinoccolato. È stato da quel momento che tutto ha iniziato a cambiare. In negativo.
Un malessere profondo è preso a serpeggiare, tra infortuni e conseguenti partite saltate. Poi la scena madre della rottura, che appartiene alla recente storia dell’Estadi Johan Cruyff, piccolo rettangolo di tribune basse in cui tutto è rosso e blu. Era il Trofeo Gamper della scorsa estate, contro la Juventus. Attorno al minuto sessanta, Ronald Koeman aveva deciso di dare un po’ di spazio anche a Umtiti. Araujo era uscito dando la mano al francese e i tifosi blaugrana avevano sommerso di fischi lo scatto con cui Umtiti era entrato in campo, indossando la caotica divisa del Barcellona dello scorso anno, perfetta sintesi estetica della confusa improvvisazione con cui il club sta sopravvivendo contro ogni teoria della finanza. I fischi erano proseguiti a ogni tocco di palla del francese. Gerard Piqué avrebbe dichiarato che «chi fischia Umtiti non ha combinato mai nulla nella vita». Per i tifosi, Umtiti era colpevole di ostacolare il risanamento dei conti della società: l’origine del loro sillogismo era che il difensore francese sembrava deciso a non accettare nessuna offerta da altre squadre, né tantomeno un rinnovo con il Barcellona orientato a spalmare su più anni il suo ingaggio da 20 milioni a stagione.
Il rinnovo infine è arrivato, all’inizio di quest’anno. Ha spalmato l’ingaggio, legandolo però a doppio filo al numero di presenze. Da un lato il club si era preso una garanzia, alla luce delle cinquanta presenze scarse registrate lungo le tre stagioni 2018/19 2019/20 e 2020/21, e soprattutto alla luce dell’ultima, la 2021/22, in cui è sceso in campo una sola volta; dall’altro lato c’era una velata dichiarazione d’intenti: se resterai qui, ci converrà non farti giocare. Ecco che nel corso dell’estate che sta per finire il Barcellona non gli ha nemmeno assegnato il numero di maglia e ogni volta che si affacciava una società interessata ad acquistarlo, la condizione era che sostenesse prima un provino. Comprensibile? Certo. Ma anche umiliante per un atleta di ventotto anni che ha vinto due Mondiali – uno Under 20 – e molte altre cose, che finalmente si sentiva guarito dopo tutti i problemi al menisco e ai legamenti del ginocchio sinistro patiti tra 2019, 2020, 2021 e dopo una frattura al piede all’inizio di quest’anno. Umtiti si sentiva di nuovo Umtiti, ma ovunque si voltasse trovava scetticismo, ostilità, insofferenza, accuse d’avidità.
«A Umtiti hanno proposto quell’ingaggio faraonico senza che fosse lui e pretenderlo», aveva detto ancora Gerard Piqué, sempre dopo il Gamper della contestazione. Eppure la vittima delle accuse è finito per essere lui e non la scelleratezza di chi gli ha offerto tutto quel denaro senza avere le coperture necessarie per sostenere certe spese. Oltre a questo, il suo rifiuto ad andarsene non era motivato da nient’altro se non dalla sua ferma convinzione di poter ancora offrire gli standard di rendimento a cui era abituato prima del calvario fisico. Ma il pubblico aveva la sua verità e la sua ostilità, il pubblico “sapeva” che era ormai finito. Spesso si fatica a riconoscere a un atleta il diritto di avere aspirazioni professionali non in linea con le prospettive che gli altri vogliono per lui. Per Balotelli, per esempio, tutti prevedevano una grande carriera, ma lui aveva tutto il diritto di non sfruttare il suo talento. Per Donnarumma tutti avevano già predetto un futuro da bandiera del club in cui era cresciuto, ma lui aveva tutto il diritto di non avere la stessa aspirazione. Ognuno di noi e di loro ha il diritto di compiere scelte, commettere errori, cercare riscatti, o anche di non fare nessuna di queste cose. E quanto coincidano con il pensiero di chi osserva non è un fattore d’interesse.
Sarà il campo a fissarlo o meno nella memoria culturale leccese, ma le premesse sono le stesse di ogni apparizione messianica che ha reso icone quei fuoriclasse su scala mondiale che abbiano scelto di dedicarsi a un luogo e alla sua gente spesso dimenticati dai riflettori: Riva per Cagliari, Maradona per Napoli. Certo, sono paragoni fuori luogo rispetto a Umtiti per Lecce. Ciò che invece è della stessa matrice è il fascino con cui il suo arrivo ha immediatamente lucidato la dimensione narrativa di Lecce e del Salento. Umtiti è arrivato in città la sera del 25 agosto, la vigilia di Sant’Oronzo e sembrava che Lecce sapesse di doversi agghindare. I toni del viola, del verde, del giallo accesi dalle luminarie del centro, il campione del mondo con la sciarpa al collo e le lacrime agli occhi. Il sacro che concupisce il profano. Poi sono spuntati i fotomontaggi in cui Umtiti è in adorazione di due vassoi di pasticciotti, il simbolo di una terra accanto al suo nuovo eroe per acclamazione, eletto subito da un popolo che, quando l’ha visto scendere dall’aereo, ha sfoggiato il piacere istintivo che sentiamo scaldarci quando veniamo scelti da chi credevamo non si sarebbe mai accorto di noi.
Ora, passata l’ubriacatura della festa, la quotidianità dentro cui si assestano tutte le convivenze sta smorzando i toni eclatanti e scoprendo la reale natura della loro relazione. La grandezza idealizzata del personaggio è già svanita e il ragazzo è stato assorbito dal suo nuovo ambiente. «Il Salento aveva bisogno di Umtiti e Umtiti aveva bisogno del Salento». Questa è la sintesi aforistica del presidente Sticchi Damiani, quasi a voler dare un senso ampio e al tempo stesso pragmatico al suo arrivo. «Ho percepito in lui una voglia di normalità, sarà un modello di comportamento», aveva anche aggiunto, con una sorta di fierezza degli ultimi che, davanti all’ambizione per il risultato sportivo, vogliono dichiarare quella umana. Anche Umtiti ha parlato, finalmente. Lo ha fatto il giorno dopo l’atterraggio, mostrando che la sua dimensione di pensiero muove esattamente sulla stessa linea. «Cercavo tranquillità e delle persone umili. Voglio offrire alla squadra le mie qualità e il mio buonumore». Tranquillità, persone umili, buonumore. Oltre a buon cibo, un inverno mite e un obiettivo stagionale difficile ma non esasperante, come la salvezza. Oltre al culto italiano per la tattica, utile da respirare per chi come lui sembra orientato a una futura carriera da allenatore. Non c’è un solo fattore che ponga dubbi sul fatto che Lecce sia il posto che Umtiti stava cercando e che sia l’approdo assurdo di un percorso profondamente intimo, alla ricerca di una nuova normalità.