La senilità di Maurizio Sarri

Il gioco che vuole essere sempre uguale a sé stesso, un nervosismo palpabile, dichiarazioni e comportamenti provocatori e anacronistici: dov'è finito il grande innovatore?

Per un essere umano non c’è condanna peggiore di quella che lo costringe a essere sempre uguale a se stesso, anche perché spesso è una condanna che ci si autoinfligge. Guardando le partite della Lazio in questo inizio di stagione, viene da chiedersi se sulle spalle di Maurizio Sarri non inizino a pesare il passato e l’identità che lo hanno reso Maurizio Sarri, se anche lui non si sia autoinflitto la condanna di essere sempre uguale a se stesso, cioè al passato. Anche l’allenatore più innovativo della storia recente del calcio italiano può trasformarsi in un reazionario a furia di guardarsi sempre alle spalle, insistendo a tenere la mente sempre e solo su ciò che è già stato visto, detto, fatto (da lui). Il problema non è il sarrismo, presto invecchiato e superato come tutti gli -ismi che tentano di “fissare” concetti e pratiche in un mondo – quello del pallone, ma non solo – in cui concetti e pratiche cambiano con una velocità senza precedenti. Il problema è Maurizio Sarri e la sua capacità di andare oltre se stesso, oltre la sua portata rivoluzionaria, oltre la sua influenza filosofica: è capace, Sarri, di costruire una squadra che si limiti a funzionare, a giocare il miglior calcio che le è consentito, a battere tutti gli avversari che sono alla sua portata? È capace, Sarri, di essere semplicemente un allenatore, né profeta né ideologo né inventore?

Guardando le partite della Lazio in questo inizio di stagione, viene da chiedersi che cosa può succedere a una squadra quando si ritrova a sostenere il peso di due passati diversi: il proprio e quello del proprio allenatore. L’influenza di Simone Inzaghi su questa squadra, l’impronta lasciata in quegli anni, è ancora evidente in quella tendenza – quasi tensione – al contropiede: metà della migliore partita giocata dalla Lazio in questa stagione, quella vinta per 3-1 in casa contro l’Inter, è stata vinta assecondando, anzi accettando quella tendenza-tensione. Ma è nell’altra metà di quella stessa partita che si capisce come tutto sia un compromesso accettato controvoglia e quindi fragile (come spesso appare la Lazio stessa). Non appena ne ha l’occasione, Sarri fa di tutto per imporsi alla sua squadra, ricordando a essa il nuovo ordine delle cose.

È in questo tentativo di trasformazione – tentativo per definizione dello stesso Sarri, che dall’inizio della stagione ha ripetuto spesso che «il senso di partecipazione in tutti noi aumenterà» – che stanno tutte le sfide e quindi le incognite della stagione della Lazio. Riuscirà Sarri nel suo tentativo di trasformare Milinkovic-Savic in un centrocampista box to box? Riuscirà a mantenere fino alla fine giocatori come Luis Alberto e Pedro sul confine sottile che separa titolari e riserve in una squadra di medio-alto livello? Riuscirà ad aggiungere al repertorio di Immobile tocchi e linee di movimento da centravanti di manovra? E, soprattutto, ne varrà la pena? O sarebbe più semplice accettare la Lazio per come è invece che insistere sulla Lazio come la vorrebbe Sarri?

Forse è un eccesso d’interpretazione da parte mia, ma mi sembra che questo tentativo di trasformazione stia costando a Sarri uno sforzo mai prodotto prima nella sua carriera, uno sforzo di nervi che non gli era mai stato chiesto in precedenza. Non a caso, nella sua migliore esperienza da allenatore – ovviamente quella a Napoli – il suo compito non prevedeva ristrutturazioni: si trattava di proseguire il lavoro cominciato da Rafa Benítez, mai abbastanza riconosciuto come artefice delle recenti soddisfazioni napoletane. Quando si è trattato di ricostruire, Sarri è sempre andato in difficoltà molto presto e ha lasciato perdere appena possibile: al Chelsea ereditato da Antonio Conte, alla Juve che voleva superare Allegri. Entrambi allenatori che avevano lasciato un’impronta fortissima sulle rispettive squadre, entrambi allenatori di cui Sarri era considerato antitesi parziale o totale, tattica e filosofica. E nonostante Sarri abbia vinto trofei – un’Europa League con il Chelsea, uno scudetto con la Juve – proprio con quelle squadre, nel corso di entrambe quelle stagioni lo sforzo trasformativo lo ha portato, spesso e volentieri, molto oltre l’orlo della crisi di nervi. Anzi: il fatto che Sarri abbia vinto trofei proprio con quelle due squadre – mai definitivamente o propriamente sarriane – non ha fatto altro che aggravare una serie di tic, di ossessioni che oggi l’allenatore mette in bella mostra praticamente in ogni momento in cui il suo sguardo non è rivolto al campo: le sue interviste post-partita sfiorano ormai il mazzarriano per quantità e qualità delle lamentele. In certi momenti Sarri sembra preso da una sorta di ansia, l’urgenza di dimostrare che si può fare e si può fare a modo suo, come se gli rimanesse ancora qualcosa da dimostrare a se stesso e al calcio. O, almeno, a quella parte del calcio che ne costituisce l’élite, quella parte dalla quale Sarri, anche e soprattutto per mitologia personale, si ostina a considerarsi rifiutato. Questa urgenza lo rende nervoso più che mai e con meno ragioni che mai: fin qui, la stagione della Lazio non spiega in alcun modo la tensione che si avverte nel tremolio della voce del suo allenatore in ogni pubblica occasione.

Con la Lazio, finora, Maurizio Sarri ha accumulato 25 vittorie, 16 pareggi e 14 sconfitte in 55 partite ufficiali di tutte le competizioni (Photo by Marco Rosi – SS Lazio/Getty Images)

In questo inizio di stagione, Sarri ha dimostrato di aver definito una sorta di liturgia del nervosismo. Quando c’è qualcosa che lo turba, la sua retorica si fa passatista, provinciale, reazionaria. Alla fine della prima partita di campionato, vinta per 2-1 contro il Bologna all’Olimpico, si è lamentato del calendario fitto e di come questo lo abbia costretto a cambiare mestiere: da allenatore a «regista». Passa troppo tempo a guardare video e troppo poco a migliorare i singoli, ha detto, lui «innamorato della settimana, del lavoro sul campo». È la sua altra identità, quell’alter ego populista che si impossessa di lui nei momenti di (autoinflitta) difficoltà. È quella personalità che giustifica tediose lamentele sull’arbitraggio con l’obbligo morale di difendere il «popolo laziale», che immagina complotti controrivoluzionari ai danni suoi e dei suoi, che risponde alle critiche con il «lavoro del mio avvocato». Alla fine della partita casalinga contro il Verona nell’ultimo turno di campionato, una partita tutto sommato semplice vinta senza faticare troppo, la sua prima preoccupazione è stata la rendicontazione dei falli fatti e di quelli subiti: «Noi cinque falli, loro ventiquattro o venticinque», con quella posticcia congiunzione disgiuntiva che vorrebbe fingere indifferenza ma tradisce ossessione.

Durante la stessa partita, intorno alla metà del secondo tempo, si è imbestialito con il direttore sportivo del Verona Francesco Marrocu, al quale ha rivolto un dito medio che è diventato l’immagine di copertina del match (e che sicuramente entrerà a far parte dell’iconografia del tifo laziale). Pare Sarri avesse sentito Marrocu che lo invitava a «mettersi a sedere» e per questo non ci aveva visto più dalla rabbia. In realtà, come riferito dallo stesso Sarri nel post partita, Marrocu gli aveva detto di «stare calmo»: allora cambia tutto, un invito alla calma il dito medio non lo giustifica, uno a sedersi, invece, sì.

Capire quale sia la causa di questo strano – apparentemente immotivato – nervosismo di Sarri è quasi impossibile. Può essere sia davvero lo sforzo di trasformare la Lazio in una sua squadra a portarlo oltre i limiti della sua capacità di sopportazione. Può essere Sarri abbia definitivamente deciso di adottare la strategia comunicativa che tanto bene – vedi Gasperini – ha funzionato per altri. Può essere che a furia di sentirsi descritto come un rivoluzionario abbia adottato la posa che adottano tutti i rivoluzionari quando la rivoluzione fallisce: quella della vittima. Può essere tutto questo o tutt’altro. Quel che resta di sicuro è la natura contradditoria dell’eredità – in costruzione – di Sarri: il contrasto tra la manifestazione della sua identità che si vede sul campo, gioiosa anche solo nelle intenzioni, e quella che si muove fuori dal campo, sempre più spesso malinconica, in pensieri e parole.