La Coppa Davis ha addobbato il grande ponte pedonale che collega l’Unipol Arena al Gran Reno, il mastodontico centro commerciale di Casalecchio. C’erano le gigantografie con le esultanze eterne di Panatta e Bertolucci in Cile nel 1976 e le affissioni con il pomposo The World Cup of Tennis, il claim della manifestazione. Ovunque sul ponte e su tutta l’area attorno al grande palasport di Casalecchio di Reno il logo dell’evento, rappresentazione iconografica del trofeo che viene consegnato ai vincitori, un oggetto dalla forma unica che ribalta le classiche proporzioni tra il piedistallo e la reale coppa in metallo: maestoso il primo, fatto di grandi gradoni, e striminzita la seconda.
La principale ragione per cui il gruppo A della Davis 2022 giocato a Bologna con Italia, Argentina, Svezia e Croazia è, dopo tanti e tanti anni, il vero abbraccio tra l’Italia e il grande tennis, sta nella sua collocazione geografica e sociale. Non la Roma del Foro Italico, palcoscenico prestigioso fin troppo legato ormai nell’immaginario comune alle gesta di fuoriclasse stranieri, non la Torino del Pala Alpitour recente casa delle ATP Finals, anch’essa come Roma legata alla natura internazionale ed elitaria del tennis. Né l’una, né l’altra. La collocazione è Bologna. Anzi, Casalecchio di Reno. Anzi un palasport collegato con quel ponte pedonale alla grande area commerciale del Gran Reno, ai parcheggi multipiano affollati d’auto e di famiglie diretti a Primark, a Zara, che poi si fermano a cena ai Roadhouse e ai McDonald’s sparsi sulle rotonde che circondano il colosso di negozi così come l’arena già casa di Virtus e Fortitudo in passato.
Il grande tennis che scende sull’Italia vera, che si abbassa felicemente a una dimensione più popolare, trasversale, quotidiana, al fianco dei carrelli per la spesa ritirati con monete da 1 e 2 euro, con i maxischermi a led che tra le pubblicità di Intimissimi e H&M inseriscono le clip con le esultanze di Berrettini e Sinner. Se ci sono un modo e un luogo per celebrare il ritorno dell’Italia, tutta l’Italia, al tennis mondiale e del tennis mondiale all’Italia, l’Italia quotidiana e non quella dei campi ormai inglobati nel circuito principesco dei Master 1000 e delle Finals, il modo e il luogo sono esattamente questi.
Sua maestà il re ha annunciato la sua abdicazione proprio in quegli stessi giorni bolognesi. Le parole spese per ringraziare Federer e ricordare lo stile unico del suo regno, così come da tutto il mondo si sono levate anche da Casalecchio. Eppur a Bologna è stato più facile che altrove pensare che dopotutto la realtà, crudelmente e fortunatamente, se ne frega della poesia, della nostalgia, della bellezza, della gioia e in qualche modo prosegue dopo ogni addio. Talvolta trovando motivi differenti per rendere i momenti non meno indelebili. E i motivi che nei giorni di Bologna si sono appropriati in modo definitivo dell’Italia e che dall’Italia sono stati trasversalmente eletti, sono sostanzialmente due. Uno del Nuovo Salario, Roma Nord, e l’altro di San Candido, Val Pusteria.
Il primo viene dalla capitale e si fa fotografare mentre s’allena indossando la canottiera della Nazionale di pallacanestro, l’altro sta prendendo sempre più gusto a vivere un patriottismo che non ha mai davvero potuto conoscere essendo nato e cresciuto a dieci chilometri dall’Austria, in una valle che la lingua, la cultura e le tradizioni avvicinano fisiologicamente più a Innsbruck che non anche solo a Trento, senza voler scendere fino alle già dette Bologna o Roma. Eppure la Davis, questa Davis, giocata da numero uno azzurro con il tricolore sul petto stanno cambiando in lui molte cose. «Sento quanto la Coppa Davis è importante per l’Italia», ha detto Jannik Sinner a Bologna in una delle interviste lontane dal momento gara, quelle in cui non indossa il cappellino e la sua ordinata cascata di ricci dai riflessi rame gli scende sulla fronte.
A Bologna l’Italia è arrivata da favorita del suo girone e tra le favorite per la vittoria finale della Davis. Una febbre da tennis tricolore che nel nostro paese non era così alta dalla finale del 1998 con Gaudenzi, Nargiso, Sanguinetti, e Giampiero Galeazzi a commentarla sulla Rai. Ma loro non erano forti quanto ora lo sono Berrettini, Sinner, Musetti, il doppio Bolelli-Fognini. Da Bologna la forza dell’Italia attuale l’ha spiegata il presidente federale Binaghi non nascondendosi dietro ad alcuna ipocrita cautela: «Nei prossimi quattro o cinque anni la Davis è da vincere almeno una volta». Numeri alla mano, nessuna squadra distribuisce talento e risultati con così tanto equilibrio su tutti i suoi giocatori come fa l’Italia perché nessun’altra nazionale può contare su singolaristi e giocatori di doppio che nelle rispettive classifiche ATP sono tutti tra i migliori trenta al mondo. Un dato di fatto.
La vittoria di Berrettini contro la Ymer, decisiva perché l’Italia battesse la Svezia
Al di là dei numeri e del campo, emergono vibrazioni più intangibili. Probabilmente il valore delle partite che si sono giocate a Bologna da mercoledì fino al weekend può essere davvero compreso se invece che considerarle tennis le si considera la Davis. Una cosa a sé. Con il determinativo femminile, come una signora matura resa seducente dalla sua vita piena di ricordi, di viaggi, di pianti, di gioie. Un nuovo trucco – la formula dei gironi a quattro squadre giocati in contemporanea in più città sparse per tutto il mondo e delle finali a otto in un’unica sede – per aggiornare la sua innata eleganza ai tempi che corrono senza rischiare di sfiorire ed essere snobbata, o peggio dimenticata. Buon per lei e buon per noi che abbia voluto rinverdire il suo fascino proprio negli anni in cui il tennis italiano maschile s’è riscoperto giovane e bello.
La Davis è la cosa del tennis più lontana dal tennis. La grafica ufficiale del torneo per le dirette tv, quella che tiene il conto di punti, game, set non mostra i nomi dei tennisti in campo ma il nome della nazione per cui stanno giocando. I capitani – altro copyright davisiano che nel gergo significa semplicemente selezionatori – seguono la partita dalla panchina proprio come negli sport di squadra e durante i break parlano ai loro tennisti come gli allenatori negli sport di lotta lo fanno all’angolo, tra un round e l’altro. Il tennis, il più individuale degli sport individuali, in cui ogni giocatore è la sua stessa società, che seleziona assume e magari licenzia il suo allenatore e tutti gli altri membri dello staff, durante la Davis diventa sport di squadra. La Davis è dare sfogo al tifo normalissimo in ogni altro sport e del tutto atipico per il tennis. A Bologna per ognuna delle quattro Nazionali in gara c’erano piccoli gruppi di tifo affettuosamente organizzato di non più di venti persone l’uno. C’erano le bandiere e gli striscioni, come quello di otto metri con la scritta “Hinchada Argentina Copa Davis” appeso dai sudamericani. Gli italiani avevano i tamburi, i Croati le trombe, e tutti dovevano suonare e cantare in fretta e furia per poi zittirsi di colpo e mettersi seduti, perché l’etichetta e gli arbitri del tennis lo impongono.
La gestione contro natura del tifo tennistico, che per regolamento tende a reprimere la spontaneità delle reazioni del pubblico e il suo sostegno a chi sta giocando, confinandole in un rigido regime di tempi calcolati tra la chiusura di un punto e la battuta successiva, nella Davis emerge più evidente perché la dimensione di sfida tra nazioni scalda ancor più l’atmosfera. E perché, come a Bologna, si percepiva come gran parte del pubblico fosse piuttosto neofita. Lo si capiva dal ritardo nel fare silenzio, o da dettagli come un «Vai Matteee!!» lanciato da un bambino quando Berettini stava già facendo rimbalzare la pallina con la mano prima di una battuta, incitamento prontamente coperto dal fruscio degli shhhh di condanna della parte di pubblico più abituata.
È l’effetto da gioca la Nazionale a rendere trasversale l’evento e grazie a dio che è così. Perché Berrettini, Sinner e tutti gli altri lo hanno sottolineato a ogni occasione: erano lì con il gusto di godersi quelle partite davanti al pubblico italiano, cosa poi non così frequente per loro. Per fortuna tutto è accaduto lontano dai luoghi più scontati del tennis, vicino a un’Italia che, bella o brutta che sia, alta o bassa che la si veda, è il Paese vero dei venerdì sera a mangiare un hamburger, dei sabati pomeriggio all’Ikea, delle domeniche a cercare un paio di scarpe per il figlio che ha ricominciato la scuola. Dopo Casalecchio possiamo dire che il grande tennis è davvero tornato dagli italiani, non solo in Italia.