Giuntoli, architetto del talento

Successi e scoperte del dirigente che ha portato il Carpi in Serie A, che a Napoli ha lavorato nell'ombra e che quest'estate sembra aver fatto un vero capolavoro.

Il Napoli di Giuntoli. Ci sono voluti sette anni per ascoltare questa frase. Sette anni: tanti acquisti, qualche errore e la traversata in un mare affascinante e complicato quale è il Calcio Napoli. Accanto a un presidente visionario e accentratore, che ama il protagonismo e soffre di una innata allergia all’esercizio della delega. Pura kryptonite per chi ha costruito il proprio successo con la formula chiavi in mano e dà il meglio di sé quando può controllare l’intero processo produttivo e gestionale del club. Com’è accaduto al Carpi, che il patron Stefano Bonacini gli consegnò con ampi poteri. Con un budget tra il risicato e il vago. E che Cristiano Giuntoli in sei anni portò dalla Serie D alla Serie A. Era il 2009. Bonacini la racconta così: «Mi pose una condizione: “Accetto solo se mi fai mandare via dodici-tredici calciatori dell’attuale rosa”». Corsi e ricorsi storici. Più o meno quel che è successo a Napoli nell’estate 2022, quella che doveva essere del grande scontento, dipinta da tifosi e media come l’estate del ridimensionamento, con la piazza in subbuglio per 35enni sul viale del tramonto. È finita con una campagna acquisti che andrebbe citata nei manuali di gestione calcistica: riduzione dei costi coniugata al rafforzamento della rosa. Un gioiellino che ha definitivamente sdoganato il nome di Cristiano Giuntoli. Anche se lui – che ha una discreta considerazione di sé – direbbe che gli addetti ai lavori (quelli che il calcio lo masticano davvero) il suo valore lo conoscevano eccome. Ma le copertine, le interviste, le foto a tutta pagina, prima non c’erano. E in un sistema mediatico come il nostro, se non appari in fondo non esisti.

Fatte le debite proporzioni, il direttore sportivo toscano ha ripetuto a Napoli l’operazione che gli riuscì in provincia. Le similitudini sono tante. A Carpi firmò un capolavoro che Gianni Mura descrisse così: «Quattro promozioni in sei anni. (…) I numeri del Carpi fanno impressione: 5 milioni stanziati per la stagione in corso, 2,5 il monte ingaggi dell’intera rosa (la Juve 120), 100mila l’euro al più pagato (Jerry Mbakogu, già richiesto all’estero, costo sugli otto milioni). Per potenziare l’attacco si è pescato tra i dilettanti, a Este, e per 11mila euro è arrivato Kevin Lasagna, nome che sembra inventato ma è vero. I calciatori più giovani a Carpi guadagnano 20mila euro, al Milan ci sono panchinari che superano i due milioni. (…). Il ds Cristiano Giuntoli per rinforzare la squadra ha speso in tutto 100mila euro».

Giuntoli studiato per razionalizzare gli spazi – 19 esami ad Architettura per assecondare la madre – ma il suo talento è allestire squadre con pochi soldi. Il suo mondo è il calcio. Prima in campo, difensore centrale che ha militato in Serie C, poi il patentino per allenare in Serie B. E soprattutto il piacere quasi fisico nell’assaporare qualsiasi dettaglio: dalla cura del manto erboso alla scelta degli alberghi, che è un pallino di Giuntoli: «Lì non puoi risparmiare, i giocatori devono stare bene ed essere contenti», dice. Dalla cura dei rapporti personali al suggerimento tattico da elargire all’allenatore. Gli piace avere il controllo di ogni aspetto. Per brevità è definito direttore sportivo ma a Giuntoli la specializzazione sta stretta. Guarda partite a ciclo continuo. Annota i nomi che gli suggeriscono. Li segue in video e, se superano il primo esame, va a verificare di persona. Poi prende contatto. Li studia. Li conosce. Intesse relazioni. Ci sa fare nei rapporti. Sarebbe un ottimo lobbista.

Di lui dicono che difficilmente sbagli giudizio su un giocatore (le eccezioni ovviamente non mancano: Malcuit, Verdi, Maksimovic). Nel Napoli ricordano il suo pollice verso quando il club fu vicino all’acquisto di Pépé. «Non fa per noi». Andò all’Arsenal per una montagna di soldi e ha fallito miseramente. L’occhio, Giuntoli, se l’è fatto in provincia. Ha imparato lì, nel calcio povero. E ne va fiero. Nella pozione magica della gavetta ci è caduto da piccolo. Dei calciatori delle serie inferiori sapeva e sa tutto. Ha avuto bisogno di tempo per aggiornare il suo database e applicare il suo metodo a un livello più alto. Di lui potremmo dire che ha metodi antichi. Non ha social. Non è a suo agio davanti alle telecamere. Dietro, invece, è attento con i giornalisti.

A Napoli arrivò nel 2015, nell’estate da Rocky Balboa del club azzurro: «Dare una speranza a uno sconosciuto bianco di Philadelphia». Il Napoli di speranze ne diede due: una a lui e una a Maurizio Sarri. La scalata del Comandante fu decisamente più rapida. Per Giuntoli è stato più complesso e più lento. Deve tanto a De Laurentiis, ma ha anche penato molto. L’ultimo miglio, per qualsiasi trattativa, è di esclusiva competenza del presidente. Che talvolta agisce in solitudine. Per capirci, Giuntoli è quello che nel ciclismo fa il lavoro sporco, fa a sportellate, tira la volata e poi ai duecento metri si sfila per fare strada a Cipollini che sarebbe De Laurentiis. La cassa, nel Napoli, la detiene soltanto lui. È un aspetto che a Giuntoli procura sofferenza: deve sempre chiamare casa per concludere un acquisto. Non che il presidente lo faccia per cattiveria o mancanza di fiducia. È debordante di natura.

C’è voluto un bel po’ di tempo prima che a Napoli si udisse la voce di Giuntoli. È rimasto nell’ombra molto a lungo. Anche nel triennio-Sarri con cui aveva un buon rapporto. Ha poi sbagliato i calcoli con Ancelotti. Anche se nega l’evidenza, ha avuto un ruolo di primo piano nell’esonero di Re Carlo (l’unico che aveva capito l’urgenza di un repulisti) e nell’arrivo di Gattuso. Sperava di avere più voce in capitolo, di costruirsi un’area di influenza come quella che aveva a Carpi. Di uscire dal cono d’ombra. Mal gliene incolse. Il tecnico calabrese si rivelò poco incline alla condivisione. E finì con lo screditare il suo lavoro di direttore sportivo: con Gattuso, Lobotka era un ectoplasma. E Rrahmani è stato a lungo un oggetto misterioso. Oggi sono due pedine fondamentali del Napoli di Spalletti.

È stato il periodo più difficile della sua esperienza napoletana. De Laurentiis gli imputava responsabilità per l’ammutinamento oltre che per l’esonero di Ancelotti. Lo isolò. Gli lasciò l’ordinaria amministrazione. Ma non lo licenziò. Un po’ perché aveva un contratto lungo (e quindi avrebbe dovuto continuare a pagarlo), un po’ perché Giuntoli possiede un innegabile talento: venderebbe i frigoriferi agli eschimesi. Nel Napoli ha piazzato tutti. Sempre. Spesso portando a casa plusvalenze. Ha confezionato piccoli capolavori per intenditori. Ha venduto lo sconosciuto Gnahoré – acquistato a 100mila euro – a 1,3 milioni, giusto per fare un esempio. Ha chiuso in attivo operazioni calcisticamente improduttive come quelle di Verdi e Inglese. Lo stesso Duván Zapata lo ha venduto a oltre venti milioni quando non era ancora Zapata. Potremmo continuare a lungo. È abile anche in entrata. Quando si trattò di acquistare Diawara dal Bologna, fece letteralmente sparire il calciatore per un mese. Non si trovava, nessuno sapeva dove fosse. Tranne Giuntoli. E alla fine il club rossoblù si arrese e diede l’ok alla cessione. Zerbin, oggi in Nazionale, lo ha acquistato per 60mila euro dal Gozzano.

Victor Osimhen è l’acquisto più oneroso nella carriera di Giuntoli come direttore sportivo: la quantità di denaro investita per il suo cartellino è ancora incerta, secondo Trasnfermarkt è di 75 milioni mentre altre fonti riportano cifre più basse, ma in ogni caso il secondo giocatore di questa graduatoria, Hirving Lozano, è stato pagato 45 milioni, quindi non ci sono dubbi (Alessandro Sabattini/Getty Images)

De Laurentiis è uomo pragmatico. Lo aveva messo ai margini, forse anche demansionato, ma sapeva che gli sarebbe servito. E quando è arrivata la sua opportunità, Giuntoli non se l’è lasciata sfuggire. Con tre anni di ritardo, il Napoli ha capito che lo spogliatoio andava rifondato. E lui si è fatto trovare pronto. Già Osimhen era stato un affare, per quanto discusso. Pagato 50 milioni, oggi ne vale quasi il doppio. Ma l’operazione che gli ha cambiato la vita e la carriera si chiama Kvicha Kvaratskhelia. Un campione acquistato a dieci milioni. Grazie alla disgrazia della guerra e a rapporti personali coltivati per anni. «Perché», come ama ripetere sempre Giuntoli, «una cosa è “scoprire” un calciatore e un’altra è andare a prenderlo». Sono due sport diversi. Nel corso degli anni è stato abile a costruirsi una rete anche personale di talent-scout (oltre a quella, molto efficiente, del Calcio Napoli). A coltivare i rapporti: Cioffi, oggi tecnico del Verona, giusto per fare un esempio, è stato un suo giocatore al Carpi. Ha investito su sé stesso, come se agisse in proprio. Ha lavorato alla crescita dell’azienda Giuntoli. Ed è stato anche intelligente a limare alcuni errori, come quello di concludere affari sempre con gli stessi procuratori – peraltro spesso custodi di calciatori non memorabili.

Il suo nome sarà per sempre legato a Kvaratskhelia, dicevamo. Ma è merito suo se il sudcoreano Kim è finito al Napoli mentre aveva le valigie con destinazione Rennes. Lo seguiva da due anni. Lo avrebbe ingaggiato l’anno prima a 5 milioni ma c’era Koulibaly e Kim non avrebbe mai giocato. Un anno di ritardo, a questi livelli, costa: 18 milioni e non più cinque. Oggi lo United ne sborserebbe 50 senza battere ciglio. Ha acquistato l’uruguaiano Olivera dal Getafe. Ha fatto valere i suoi ottimi rapporti con Paratici per farsi dare in prestito dal Tottenham Ndombélé. Ha puntato i piedi per Simeone, calciatore per cui stravede da tempo: Giuntoli ha l’occhio per i calciatori di provincia snobbati dal calcio che conta, un’attitudine particolare che riguarda da vicino la sua storia personale. Fece lo stesso con Di Lorenzo prelevato dall’Empoli, con Rrahmani dal Verona. Fosse stato all’opera vent’anni fa, Hubner avrebbe avuto tutt’altra carriera. In fondo anche Kim e Kvara sono provincia del calcio internazionale. Ha portato a Napoli Ostigard, tuttora sottovalutato, nonché Sirigu. E ha tirato la volata per Raspadori. Per mille motivi. Calcistici e d’immagine. «Prendere uno dei giovani più promettenti d’Italia, se non il più promettente, è un atto politico che vale più di mille risposte alle critiche».

Questo è il Napoli di Giuntoli. Lo sa. Così come sa che giugno 2024 – quando scadrà il suo contratto – potrebbe essere l’inizio della sua terza vita calcistica. A 52 anni. Il possibile approdo in un top club italiano. Magari con una presidenza straniera, meno presente. Dove poter finalmente ricreare il suo modello ideale: quello chiavi in mano. È grato a De Laurentiis, gli deve tanto, ma sa che pieni poteri nel Napoli non li ha mai avuti. E probabilmente mai li avrà. Lo ripete spesso: è impossibile farsi rispettare pienamente da un calciatore se il calciatore sa che non sei tu a gestire il portafogli. Vale anche per gli allenatori, aggiungiamo noi. È stato bravo a saper aspettare quando era incudine. Oggi non lo è più. Difficilmente rimarrà a Napoli alle attuali condizioni (e non parliamo di soldi).

Nel periodo più difficile gli sono servite le lezioni apprese nelle serie minori e da ragazzino. Come quella volta che giocava negli allievi del Prato e un’estate arrivò un coetaneo proveniente dall’Australia. Non parlava bene l’italiano. Aveva praticato tanti sport ma non aveva mai giocato a calcio. Eppure il suo papà era stato un calciatore e lui desiderava a tutti i costi emularlo. Venne scartato e mandato nelle squadre provinciali, due categorie sotto. Eppure l’italoaustraliano non si arrese, gli disse: “Cristiano, io arrivo, ne sono sicuro, ce la farò”. L’anno dopo fu accettato negli Allievi, cominciò in panchina e poi piano piano arrivarono i primi gol. Non si è più fermato. Si chiamava Christian Vieri, e Giuntoli quell’episodio non lo ha mai dimenticato. Anche il mancato architetto ci ha messo un po’ di tempo. Sette anni. Ora, però, il Napoli di Giuntoli è una realtà.