Promesse e rischi del nuovo Barcellona

La rivoluzione di Laporta e Xavi ha cambiato il volto della squadra, ma ha anche ipotecato il futuro economico della società.

La prima vera, grande partita stagionale del nuovo Barcellona di Xavi è stata quella contro il Bayern Monaco in Champions League. Ripensandoci bene, si è trattata di una sfida tra due copie in negativo: un gigante totalitario che ha divorato calcisticamente lo scorso decennio contro un brand altrettanto luccicante, ma che da qualche anno sta vivendo la sua banter era – i rapporti di forza stanno ritrovando proporzioni consone, ma l’8-2 per i bavaresi è ancora troppo recente. La vera differenza tra Bayern e Barça, però, riguarda soprattutto i loro modelli: da una parte c’era una società economicamente sostenibile e con il bilancio in attivo da trent’anni, dall’altra c’era invece un’istituzione in ginocchio, indebitata fino al collo e scampata al fallimento. Un quadro rappresentato bene da quanto successo nell’estate 2021, quando il Bayern, pur potendoselo permettere, ha scelto di non soddisfare le richieste di una leggenda come David Alaba e di lasciarlo andare via, al Real Madrid, pur di non violare la propria politica salariale; il Barça, pur di garantirsi la sopravvivenza immediata, si è di colpo trovato costretto a rinunciare a Lionel Messi. In estate, non a caso Julian Nagelsmann – con l’aria di chi sa di cavalcare una posizione molto popolare – ha definito i blaugrana «l’unico club che non ha soldi ma compra tutti i giocatori che vuole». Tra quei “tutti”, c’è anche il suo ex centravanti: Robert Lewandowski.

In questi mesi, il Barcellona è stato sommerso da un sentimento di un’indignazione che probabilmente ha le sue radici nei giorni della Super Lega e ha come bersaglio un calcio che ha speso fino al collasso e nonostante ciò vuole continuare a spendere: oltre a Nagelsmann, anche Klopp – altro maestro della disciplina – ha fatto da agitatore, evidenziando l’incongruenza tra la situazione disperata dei catalani e la loro opulenta campagna acquisti. Ronald Waterreus, ex portiere olandese con alle spalle una lunga carriera nel PSV, oggi opinionista nel canale sportivo NOS, ha detto di non poter più sentire lo slogan “Més que un club” riferito al Barça, perché a suo dire simboleggia tutto ciò che c’è di brutto nel calcio moderno. Si riferiva, in particolar modo, al trattamento riservato a Frenkie De Jong, che sarebbe stato spinto – persino ricorrendo alla minaccia di scendere fin dentro cavilli contrattuali, anche se alla fine senza successo – a scegliere tra una corposa riduzione dell’ingaggio e la cessione al Manchester United, per liberare spazio ad altri nuovi acquisti e mantenere intatti i precari equilibri sui cui si regge il suo pericolante castello. L’epigrafe alla miglior idea tradizionale di Barça ha provato la firmarla Marco Van Basten, sentenziando che «Johan Cruijff si sarebbe vergognato di come si è comportato il Barcellona».

Al di là dell’indignazione olandese, di certo nel corso del tempo qualcosa è andato storto, soprattutto quando si imponeva la transizione dagli anni d’oro del Barça, quelli iniziati con la Champions vinta a Parigi nel 2006, e terminati con l’onda lunga del guardiolismo – la finale di Berlino 2015 è stata vinta da Luis Enrique con una squadra ancora simile, nel suo nucleo storico, a quella degli anni precedenti. L’incapacità di formulare e seguire una linea tecnica coerente o di reagire con le idee a un imprevisto (la cessione di Neymar, ad esempio), di farlo senza improvvisare, non ha impedito al Barcellona post-Neymar di ottenere delle vittorie in ambito nazionale, ma lo ha costretto in maniera inesorabile ad eclissarsi dall’élite europea. E così delle squadra più forti e iconiche di sempre si è persa, sperperando denaro con una nonchalance che avrebbe poi presentato il conto, affidando la panchina ad allenatori spesso incerti, non riuscendo mai ad aprire un nuovo ciclo, mentre i protagonisti di quello vecchio se ne andavano, o entravano in fase calante.

Soltanto l’arrivo di Xavi, in questo senso, ha saputo dare forma a un Barcellona credibile, con una prospettiva più ampia dell’immediato. Lo ha riallineato alla sua tradizione tattica, quella con cui lo stesso Xavi ha trionfato da giocatore e che il nuovo presidente Laporta, succeduto alla gestione disastrosa di Bartomeu, ha contribuito a forgiare dai tempi di Rijkaard e Guardiola. In poche parole, ha preso il caos del Barça, gli ha dato una forma familiare e ha tracciato una strada da percorrere, quella di un’identità di gioco ben precisa. Vedendo giocare il Barcellona dello scorso anno, l’impressione era quella di un terreno straordinariamente fertile, anche grazie a una serie di giovani giocatori con prospettive incredibili (da Pedri ad Araujo, passando per i canterani) ma con un gran bisogno di tempo e risorse per tornare ad essere competitivo e confrontarsi con l’élite.

In una situazione debitoria difficile, a cui Laporta ha messo una pezza con un ingente prestito, il club blaugrana si è ritrovato di fronte a una sorta di bivio, su come gestire il futuro tecnico del club. Da una parte una strategia fatta di progressi graduali e trattamento cauto delle finanze disastrate del club, dall’altra un all-in totale. Si tratta delle cosiddette palancas, letteralmente “leve”, un termine che ha riempito il dibattito culé con la stessa prepotenza del burofax mandato da Messi di due anni fa: in breve, una serie di misure spregiudicate con cui il Barça mette mano ora a una parte dei ricavi dei prossimi anni per avere accesso a una disponibilità economica che altrimenti non avrebbe, e imprimere una spinta forte e immediata al lato tecnico – ovvero un calciomercato da circa 200 milioni di euro. L’obiettivo è ottenere una risposta altrettanto forte e immediata sul campo e ricollocare il club in una dimensione di élite, con tutto ciò che ne consegue a livello economico.

I primi gol del Barcellona in questa stagione, con una forte presenza di Robert Lewandowski

Se non fossimo nell’ambito del calcio, staremmo parlando di una specie di New Deal roosveltiano, di un intervento dirigista che prova a ridare impulso a un’economia a terra attraverso una spesa pubblica ingente, finalizzata a generare valore. In sostanza, il Barça ha deciso di accorciare i tempi della sua rinascita, o perlomeno giocarsi tutto su questa intenzione, anche a costo di prendersi dei rischi: prima il Barcellona torna a competere e prima aumenterà le proprie entrate; per tornare a competere servono soldi immediati, per avere soldi immediati, bisogna azionare le “palancas”. Un grosso passo, per molti anche più lungo della gamba, anche se per altri – primo su tutti, ovviamente, il presidente Laporta, artefice di questa operazione – c’è la rete di protezione sotto questa sorta di “grande balzo in avanti”.

Ciò che è certo, indipendentemente da quanto l’aver tirato le leve stia mettendo a rischio il già incerto futuro del club, è che rispetto agli ultimi anni il Barcellona ha recuperato una propria direzione tecnica coerente. E che questo ingente sforzo economico non è lasciato in mano all’improvvisazione. L’acquisto di Robert Lewandowski non ha bisogno di particolari spiegazioni tattiche e riempie un vuoto che Aubameyang aveva tamponato in modo credibile, sì, ma non abbastanza da cambiare le ambizioni della squadra. Raphinha è un’ala dribblomane ed è esattamente il profilo ideale dell’esterno offensivo di Xavi, che lo scorso anno, non a caso ha puntato forte su Ousmane Dembelé e Adama Traoré come laterali del suo tridente d’attacco. Jules Koundé è uno dei migliori giovani difensori d’Europa e sembra costruito per giocare in sistemi spregiudicati, aggressivi ed esigenti con la palla come quello blaugrana. A questi tre acquisti top si sono aggiunte come quella Christensen, un centrale già testato ai quei livelli, quella di Marcos Alonso, e una scommessa di alto profilo come quella relativa a Franck Kessié.

È indubbio che il Barça stia tirando la corda, continuando a proporre stipendi sovradimensionati, a cercare soluzioni acrobatiche per registrare i nuovi giocatori restando dentro alle imposizioni salariali del campionato. La stagione dei blaugrana è appena iniziata ed è quindi ancora difficile da decifrare: al momento sono primi in classifica insieme al Real Madrid e sembrano tornati piuttosto in controllo del contesto, mentre in Europa hanno perso contro il Bayern una partita che, al di là del risultato, sembra confermare quanto la strada presa, a livello di proposta, sia quella giusta. Per capire se l’azzardo dei dirigenti catalani abbia pagato, è ancora prestissimo. Soprattutto, lo è anche per capire quanto questa strategia massimalista intenda coesistere sul lungo termine con la parte più “virtuosa” del progetto, come la valorizzazione dei talenti della Masía: con Busquets che al momento è ancora un pilastro dell’undici titolare ma sembra destinato a trasferirsi in MLS a fine stagione, il ruolo di vertice basso del futuro potrebbe passare al suo diretto discendente nella linea di successione dei mediani blaugrana, il canterano Nico González (2002), un giocatore che ha già dimostrato di avere mezzi fuori dal comune e che ha scelto di andare in prestito al Valencia per accumulare più minuti. Secondo la stampa spagnola, però, il nome preferito di Xavi sarebbe Martin Zubimendi (1999) della Real Sociedad, uno dei centrocampisti più talentuosi della Liga, e di certo anche uno dei più costosi. Ad ogni modo, quest’anno Xavi ha lanciato a sorpresa il giovanissimo Alejandro Baldé (2003) come terzino sinistro titolare, ha in mano un giocatore destinato ad essere generazionale come Gavi (2004) e sta accompagnando Ansu Fati (2002) al pieno rientro, dopo due stagioni cancellate dagli infortuni. Il Barça si è riconciliato con la propria identità e, nel momento della sua storia recente in cui ha più da perdere, dovrà continuare a tenerla come stella polare, a indicare il confine tra gioco d’azzardo e rischio calcolato.