Marco Giampaolo, umano e malinconico

È arrivato l'ennesimo esonero di una carriera fatta di alcuni acuti e tante debolezze, tecniche ma soprattutto comunicative.

«Bisogna essere sempre se stessi. Chi fa la cacca sulla neve, prima o poi si scopre». L’ultima sera della sua prima – e finora unica – esperienza su una panchina di una grande squadra, Marco Giampaolo l’aveva chiusa così, evocando la natura morta guascona e un po’ splatter di feci stese sul candore di un prato. Si trovava a Marassi ed era il 5 ottobre del 2019, poco dopo la debolissima vittoria 2 a 1 del Milan contro il Genoa che non gli sarebbe servita a evitare l’esonero che Boban e Maldini gli avrebbero comunicato di lì a due giorni. Tre anni e un giorno dopo, il 6 ottobre del 2022, sempre a Genova, la Sampdoria ha annunciato l’arrivo in panchina di Dejan Stankovic per sostituire Marco Giampaolo, esonerato per la nona volta su dodici panchine in carriera.

Quando fa freddo, in panchina Giampaolo ha sempre indossato il berretto come lo indossereste se voleste imitare vostro nonno che indossa un berretto, calandolo troppo o troppo poco, maltrattando il risvolto. Per non parlare di come ha sempre portato la penna con cui prendere appunti durante le partite: giampaolo la infila dentro al girocollo delle maglie e dei maglioni, come una lama puntata alla gola, come un pezzo di plastica che stona, che non dovrebbe stare lì. Basterebbe tenerla in mano, in tasca, appoggiarla al sedile, ma sarebbe dedicare attenzione alla cura della propria immagine, una cosa che a Giampaolo non è mai venuto bene fare. Nemmeno nella cura dell’arte oratoria, come dimostrano i già citati escrementi d’inverno e altre uscite frutto della sua genuina trasparenza.

I primi tempi, sia pur con risultati non esaltanti, Marco Giampaolo continuava a rappresentare una suggestione hipster: a Cagliari, per esempio, aveva dato un primo illusorio assaggio dell’etichetta di intellettuale rifiutando di tornare in panchina a dicembre 2007 dopo essere stato allontanato solo un mese prima. «Sarà per me un danno economico, ma orgoglio e dignità non hanno prezzo», disse. Il primo periodo Murphy del romanzo di Giampaolo nel calcio era cominciato a Catania, nel 2010. Erano le stagioni in cui i siciliani sembravano giocare bene per definizione. Ogni stagione migliore della precedente nonostante ogni anno arrivasse un nuovo allenatore. Marino, Zenga, Mihajlovic, Montella, Maran. Non era accaduto però con Giampaolo, che a gennaio del 2011 era stato sostituito dall’ancora acerbo e indecifrabile Diego Simeone. Da lì la strada è stata in perenne discesa verso la cupezza, visto che la sua immagine aveva iniziato a staccarsi dallo stereotipo del geniale tecnico di provincia capace di picchi estetici e di prese di posizione ideologiche, avvicinandosi pericolosamente – e velocemente – a quella del perdente triste. Il suo Cesena, dopo nove partite, aveva lo stesso numero di punti in classifica e di gol segnati: tre. Era stata anche la prima volta in cui la delusione generata da una sua squadra si traduceva in dure contestazioni dirette a lui. La prima volta in cui i suoi errori avevano suscitato un senso collettivo di sfiducia. Veniva così definitivamente spogliato delle vesti di nuovo sacerdote di religioni tattiche ancora sconosciute e trascinato nella polvere dello sbeffeggio e del vattene da qui.

Era ritornato ad allenare dopo due lunghi anni senza sapere che l’avrebbe fatto per soli due brevissimi mesi. A Brescia, per la prima volta in Serie B dai tempi di Ascoli. Alla quinta di campionato aveva perso in casa, 2 a 1 contro il Crotone, e rispetto a Cesena lì la contestazione dei tifosi e la sua incapacità nel gestire lucidamente la situazione avevano fatto un salto di qualità per certi versi inarrivabile. Nel post-partita – un altro dei surreali dopo partita vissuti da Giampaolo – viene condotto dall’addetto stampa e da un uomo della Digos nel presidio della Polizia del Rigamonti. Gli dicono che i tifosi minacciano di non far uscire la squadra dallo stadio. Li segue. Entra nella stanza e trova ad aspettarlo una decina di ultras bresciani che lo criticano per i risultati – tre pareggi e una vittoria, prima della sconfitta di quel pomeriggio – e per il modulo utilizzato. Una volta uscito di lì dice a se stesso che è accaduto qualcosa di inaccettabile e che non può proseguire ad allenare il Brescia. Anche stavolta lo comunica male. Anzi, non lo comunica affatto: spegne il telefono. Crede sia un gesto signorile, che sia rispettoso verso la società non rilasciare dichiarazioni, evitare polemiche. Nessuno riesce più a rintracciarlo, il fratello dice di non avere sue notizie. Federica Sciarelli di Chi l’ha visto? dichiara alle agenzia stampa di aver lavorato con la redazione al caso Giampaolo. Il presidente Corioni parla senza accusarlo ma nemmeno accennando una difesa. Dice: «Questo comportamento è incomprensibile e sono preoccupato per lui», aggiungendo con pietà compassionevole che «è un bravo ragazzo e un bravo allenatore». Passa per uno da colpi di testa infantile – bravo ragazzo, non uomo. Per uno dai nervi deboli, incapace di sostenere la contestazione e di lavorare nonostante le critiche.

L’eroe letterario Giampaolo è narrativamente morto a Brescia sotto i colpi delle beffe mediatiche per Chi l’ha visto?. L’eroe è risorto inaspettatamente poco più di un anno dopo nell’insospettabile Cremona. Scendendo ancor più giù, in C1, per risalire dove nemmeno lui avrebbe più pensato di tornare. Sembrava finito e non poteva certo cambiare le cose un onesto ottavo posto con la Cremonese. Invece Sarri aveva vestito i panni della guida spirituale e lo aveva eletto a suo successore per l’Empoli un attimo prima di partire per Napoli. Morpheus che dice a Neo: «Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti». Finalmente la stima dei colleghi si traduce in un’occasione tangibile. In una rinascita. Empoli sarebbe stata la rivelazione del nuovo Giampaolo. La critica gli avrebbe riconosciuto meriti, sarebbero piovuti elogi per la bellezza del suo gioco. La consacrazione era arrivata l’anno dopo, con l’avvio del triennio alla Sampdoria. Lì non l’aveva preceduto nessun Sarri a strutturare principi di gioco già saldi e già armoniosi. Lì era tutto suo il merito di aver fatto sbocciare Bruno Fernandes e Muriel, di aver fatto esplodere i vari Torreira, Skriniar, Schick pagati complessivamente 14 milioni e rivenduti per 104.

Dopo la Samp, nel 2019 il Milan rappresentava il momento in cui l’ultimo pezzo della favola deve sovrapporsi alla realtà, in cui i sogni sono attesi al varco per capire se restano solo ideali o se li si può davvero vedere, toccare, godere. Sei stato bravo con le piccole, lo sarai anche con una grande? È un salto che a volte è verso l’alto – Sarri, Allegri, Zaccheroni – e altre volte cade nel vuoto – Gasperini, Mihajlović, Delneri. Giampaolo è caduto tra i secondi. Non ce l’ha fatta. E da allora sembra tornato a patire la stessa sofferenza e a trasmettere la stessa malinconia di Cesena e di Brescia. Gli è successo al Milan, al Torino e, dopo essere stato fermo un altro anno, ora alla Sampdoria.

Nel complesso delle sue due esperienze alla Sampdoria, nel 2016-2019 e nel 2022, Marco Giampaolo ha messo insieme 48 vittorie, 29 pareggi e 61 sconfitte in 138 partite (Ian Walton/Getty Images)

«A uno come lui serve tempo». «Non è un motivatore, ma non è nemmeno un fallito. Per molto tempo ci ha fatto vedere un gran calcio». «Ha vinto molti derby e a Genova purtroppo può bastare questo». Sono alcuni dei messaggi WhatsApp che ho ricevuto la scorsa settimana, dopo l’esonero, da alcuni tifosi della Sampdoria abbonati da decenni in Gradinata Sud. Ci ho letto affetto. A tratti anche riconoscenza. Resta il fatto che Giampaolo da tempo sembra avvitarsi su se stesso. Sembra non riconoscersi. Trasmette confusione, dà l’idea di non avere le idee chiare su cosa lui per primo si aspetti da se stesso e dalle sue squadre. Sue esternazioni, in ordine sparso: «Se non riuscirò a esprimere lo stile Milan in quanto a bellezza allora mi affiderò a più quantità». Ma davvero obiettivi e strategie possono cambiare così facilmente, da un momento all’altro? «Oggi col mio Torino ho usato la difesa a tre per la prima volta in carriera. In futuro vi ricorrerò sempre meno perché non so prendere scorciatoie». Non sarà bravo e non le amerà, eppure lo aveva appena fatto.

Giampaolo sembra subire la realtà esattamente come capita a ognuno di noi ogni giorno. La sensazione che, anche quando tutto va abbastanza bene, ci siano sempre cose che vanno al di là di quello che dipende da te. C’è stato un momento preciso in cui ho sentito di volergli bene. È accaduto nel corso di una difficile conferenza stampa postpartita – di nuovo i maledetti postpartita – a Verona. Aveva dovuto difendersi dalle accuse di aver fatto giocare un primo tempo imbarazzante al suo Milan. Lui aveva tirato fuori il fazzoletto per asciugarsi la fronte e strofinarsi il naso. Esiste un gesto più spontaneamente indifeso di quello? Lui e il suo fazzoletto, un oggetto con cui prendersi cura di se per un istante in mezzo a una realtà ostile. Giampaolo è quello che molti di noi farebbero se fossero al suo posto, se fossero nel tritacarne superficiale e isterico della Serie A. Un uomo normale, incline a seguire le sue idee nonostante siano ambiziose e il contesto non le renda del tutto realizzabili. Nonostante lui stesso non sia sempre in grado di realizzarle. Ditemi, dunque, come si possa non volergli bene. O come si possa non augurarci tutti che ottenga la serenità che cerca, ovunque la possa trovare. Anche lontano dai nostri occhi.