È fin troppo ovvio scrivere che Stavamo bene insieme – il docufilm concepito e realizzato da Massimo Ambrosini, Marco Cattaneo ed Emanuele Corazzi – debba essere visto da ogni milanista che si consideri tale: non avevate certo bisogno di questo consiglio. Ci sentiamo però di estendere il suggerimento a tutti gli appassionati di sport e di relazioni, due branche dello scibile umano che si completano a vicenda invece di elidersi, e messe insieme compongono il sale di qualunque grande storia.
Nei suoi cento minuti costruiti in ossequio alle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione cui si sottraggono solo gli special guest Galliani, Ancelotti, Buffon e Benítez, il racconto si concentra sulle tre finali di Champions 2003-2005-2007, epocali come una trilogia di Sergio Leone, e tralascia per brevità tanti altri filoni narrativi oltremodo succulenti – l’1-0 al Real Madrid dei Galácticos nel novembre 2002, il bagno di sangue di La Coruña, lo scudetto 2004, l’addio di Shevchenko, la torrida estate di Calciopoli. Sei campioni italiani – Ambrosini, Gattuso, Inzaghi, Maldini, Nesta e Pirlo in rigoroso ordine alfabetico – trascorrono nel cerchio di centrocampo di San Siro una serata tra amici, registrata poche ore dopo una delle partite più elettriche dell’ultima stagione rossonera: Milan-Atalanta 2-0, il coast to coast di Theo Hernandez, il diciannovesimo scudetto ipotecato, eccetera. Col senno di poi, è notevole vedere Maldini svestire i panni del dirigentissimo indossati fino a mezz’ora prima e scaricare l’adrenalina tuffandosi nei ricordi. Dal canto loro, gli altri cinque non vedono l’ora di riaprire l’armadietto della memoria, a eccezione forse di Pirlo che per tutto il tempo rimane un po’ più sfocato e defilato, come se la sua presenza – dopo aver abbracciato con entusiasmo per anni la causa juventina – fosse soprattutto un tentativo di riposizionarsi nell’empireo milanista.
Oltre alle scene madri che naturalmente abbondano, ingigantite dall’inganno della nostalgia, nei lunghi dialoghi che ogni tanto nei momenti più felici si sovrappongono come in un film di Altman e s’impastano con gli effetti sonori c’è uno scambio di battute che colpisce. A proposito della campale Milan-Ajax dell’aprile 2003, Gattuso si ricorda ancora il nome del difensore che Inzaghi aveva puntato per tutta la settimana, ripetendosi di voler giocare dalla sua parte: era un finlandese, Pasanen (che Gattuso storpia magnificamente in “Paisànen”), poi colpevole su entrambi i gol di Superpippo – perché sì, non c’è nessun milanista che non assegni a Inzaghi il gol del 3-2 formalmente attribuito a Tomasson, che per tutto il film non viene mai nemmeno nominato. Se ogni tanto è lecito dubitare della sanità mentale della mangusta di Piacenza, computer umano su ogni caratteristica tecnica degli avversari e statistica che possa anche lontanamente interessarlo, lo sfottò del panciuto Gattuso, splendido caratterista sogno di qualunque regista, apre uno spiraglio di verità.
Nella testa di questi serial winner, l’oscuro Pasanen occupa lo stesso spazio di Gerrard, Buffon, Cristiano Ronaldo o Nedved la cui assenza è più acuta presenza. Non c’è nemmeno la traccia di una rivalità, un momento di malanimo. Se scrivessimo o semplicemente guardassimo un documentario sull’Italia del 2006, non vedremmo l’ora di arrivare al punto in cui ci troviamo di fronte i tedeschi o i francesi, e gliela facciamo vedere noi, e del resto tutta la cavalcata di Euro 2021 è finita in un’orgia di “It’s coming to Rome!”: invece nel romanzo milanista non c’è l’ombra di un nemico, nemmeno quando entra in scena il terribile Liverpool che per almeno due anni ha rovinato la vita a tutti loro. Anche la Grande Rivincita del 2007 rimane confinata nel recinto di loro stessi, con le loro paure, i loro acciacchi (Inzaghi stirato, o forse no), le loro umane debolezze – durante la finale di Atene Nesta ebbe problemi di stomaco – e le loro amnesie (Maldini che ancora oggi non si ricorda niente).
In Stavamo bene insieme nessuno parla mai di denaro. Lo spettatore medio è ben consapevole che il Milan di Berlusconi e Galliani non era certo una onlus, che giravano ingaggi da capogiro e che nonostante questo alcuni andarono via per andare a guadagnare ancora più soldi: eppure si fa volentieri catturare dalla sospensione dell’incredulità, di fronte agli occhi bambineschi di gente con un pelo sullo stomaco così davanti alla cara vecchia Coppa dei Campioni. Ciò che per altre tifoserie e per altri giocatori di altre squadre è un oggetto maledetto, un simbolo del meretricio, conserva una purezza insostenibile per ex campioni di 45 o 50 anni che continuano a rispettare il Gioco. A seconda delle vostre inclinazioni, del vostro cinismo e naturalmente della vostra fede calcistica, questo lato da Mulino Bianco di Stavamo bene insieme potrà sommamente infastidirvi: ma diteci se non è una diavoleria questo fatto che, proprio per i motivi immateriali qui sopra elencati, tra un mese non potremo fare a meno di appassionarci anche al Mondiale più lercio, squinternato e corrotto che ci sia mai stato, solo per scoprire a chi andrà quella maledetta coppa, e se Messi o Ronaldo riusciranno a riempire l’ultimo spazietto vuoto che gli è rimasto dentro.
La magia e il furore del gioco, la competizione in purezza sono le cose che fanno stare bene insieme un aristocratico come Maldini e un Sancio Panza come Gattuso, un borghese tranquillone come Nesta e una lingua brillante come Ambrosini, un indemoniato della vita come Inzaghi e un tormentato come Pirlo. È un cast ben assortito, ben integrato dagli intermezzi di Buffon e Benitez e dagli assoli alla Frank Sinatra di un Galliani compiaciuto e sinceramente entusiasta di raccontare per la milionesima volta la storia più bella della sua vita.
Su tutti veglia e sorveglia Carlo Ancelotti, intervistato con addosso la tuta del Real Madrid, a ricordarci di quanto l’impresa della Champions 2022 sia stata simile nelle dinamiche di gruppo e nelle avventurose vicende al grande riscatto di Atene. Verso la fine, a proposito degli ultimi minuti di panico di Milan-Liverpool 2007 dopo il gol di Kuijt, dice quella che sembra una battuta: «Se siamo in vantaggio a cinque minuti dalla fine, non c’è bisogno di essere agitati: mal che vada, prendiamo gol». Di una frase così apparentemente sciocca noi ridiamo, ma immaginate Carletto che la dice a una decina di giovani atleti in preda al panico, provocando lo stesso effetto: perciò abbassando la tensione e riportando calma, serenità, fiducia. La nostra risata disarmata segna la vittoria di Ancelotti e sottolinea la sua genialità nei rapporti umani: solo lui poteva indurre un condannato alla vittoria come Paolo Maldini, alle prese con uno snervante ciclo da tre finali di Champions in cinque anni di cui una persa in circostanze efferate, a godersi comunque il panorama. Speaking words of wisdom: capiamo che per bassi motivi di budget la scelta era infattibile, ma sul gioco di sguardi finale ci sarebbe stata benissimo “Let It Be”.