Essere milanisti dopo la Banter Era

L’ex club “più titolato del mondo” è uscito dai peggiori otto anni della sua storia con una rapidità e un’agilità inaspettate. Ma il dna del suo tifo è cambiato in profondità.

Un esercizio che il tifoso del Milan nel 2022 si trova a fare spesso, come una specie di riflesso incondizionato, è quello del ricordo. Non è un ricordare qualunque, un semplice volgersi al passato, ma qualcosa di simile a quell’adagio tipico della cultura hip hop: ricordati da dove vieni. Il posto da cui vengono – da cui veniamo – non è, in questo caso, quello delle tre finali di Champions League in cinque anni, ma quello più recente, altrettanto indimenticabile, ribattezzato “Banter Era”. Il posto più buio che un tifoso può sperimentare, forse pure più freddo del fallimento, uno scoppio fragoroso che almeno si porta dietro una rabbiosa voglia di rivincita: è il posto della lenta, apparentemente inesorabile, discesa nell’irrilevanza. I peggiori anni nella storia dell’AC Milan.

Un tweet che ho letto il 22 maggio 2022, pubblicato verso sera, mentre il profumo resinoso dell’estate alle porte cullava l’estasi per lo scudetto appena riconquistato, diceva: «Per tutti quelli della Banter Era, questo scudo vale non doppio, ma triplo». I milanisti sopravvissuti a quegli otto anni – iniziati nel gennaio 2012, per la storiografia ufficiale rossonera – sentono di essere, appunto, dei miracolati. Hanno continuato a tifare in sordina, nonostante il dolore e le umiliazioni. Si sentono come quei minatori cileni estratti dalla terra dopo 70 giorni, come quei ragazzini thailandesi salvati dalle profondità della grotta. Ogni partita vinta è un dono, quando la luce sembrava così lontana.

La costruzione di quest’epica diseredata è stata un riflesso di sopravvivenza, e si è rivelato fondamentale per navigare in quegli anni di buio: ridere di se stessi era l’unico modo per non rinnegare tutto, per non morire di vergogna. La nascita della tragedia come esorcismo del male. Il male, per i tifosi che soltanto nel 2007 avevano visto (e vinto) la terza finale di Champions League negli ultimi tredici anni, aveva molti volti, era fatto di molte parole, si incarnava in decine di partite. Ma una fotografia lo rappresenta meglio di decine di analisi. Nell’estate del 2012 salutano il Milan Alessandro Nesta, Gennaro Gattuso, Clarence Seedorf, Mark van Bommel, Filippo Inzaghi, Thiago Silva, Zlatan Ibrahimovic, Gianluca Zambrotta. Al loro posto vengono acquistati Francesco Acerbi, Kévin Constant, Nigel de Jong, Riccardo Montolivo, Bakaye Traoré, Bojan Krkic, M’Baye Niang, Giampaolo Pazzini. La fotografia in questione fu fatta per presentare le tre diverse divise del Milan di quell’anno. Ritrae, uno a fianco all’altro, tutti con la mano poggiata su un pallone come in un giuramento o una formula sacra, Traoré, Acerbi, Constant. Il primo se ne andrà dopo un anno soltanto e nove partite giocate; il secondo dura appena sei mesi; il terzo due stagioni intere, diventando il simbolo, suo malgrado, del declino dell’ex squadra più titolata del mondo.

Dal punto di vista degli acquisti, le cose se possibile peggiorano ancora: con Alessio Cerci, Nikola Kalinic, con i 25 milioni di euro spesi per Bertolacci, con la fascia di capitano consegnata a Leonardo Bonucci. Quando Stefano Pioli diventa allenatore del Milan, nell’inverno del 2019, la Banter Era è in uno dei suoi momenti più profondi. Alcuni segni di cambiamento ci sono stati, ma gli effetti ancora non si vedono: nell’estate dell’anno precedente, finalmente, il club è passato dalle mani del misterioso affarista Yonghong Li a quelle, ben più solide, del fondo Elliott. La dirigenza è cambiata: ci sono soprattutto Ivan Gazidis e Paolo Maldini, che affianca Leonardo e Boban. Proprio Maldini dice di avere una certa fretta: «Non vogliamo tornare ad alti livelli tra 15 anni». Il mercato sembra buono: arrivano Theo Hernández, Rafael Leão, Ismaël Bennacer, Rade Krunic.

Le cose però iniziano male, e la scelta di Marco Giampaolo in panchina da subito sembra più che sbagliata, a tratti disgraziata. Sette partite, tre vittorie e quattro sconfitte. Mai più di un gol segnato in ogni match. Tre di queste sconfitte arrivano di fila: Inter, Torino e Fiorentina. Viene chiamato Pioli che, per alcuni mesi e nonostante gli arrivi di Kjaer e Ibrahimovic, non riesce a fare miracoli. Poi qualcosa si muove, mese dopo mese. Il campionato 2019/20 sconfina il mese di maggio, sbrodola in giugno, allaga anche luglio. Il Milan perde a febbraio e poi vince o pareggia sempre. Quando la Serie A riparte dopo lo stop a causa del Covid, il 22 giugno 2020, vince a Lecce, batte la Roma a San Siro, la Lazio all’Olimpico, e poi arriva Milan-Juve, il 7 luglio alle 21:45 perché fa troppo caldo per giocare prima. Va sotto con Rabiot, affonda con Ronaldo. Poi, in 5 minuti, segnano Ibrahimovic, Kessié e Leão. A dieci minuti dalla fine ancora Rebic. Quattro a due in rimonta: il Milan disgraziato ha battuto la Juve campione in carica. Al bar i miei amici e io eravamo increduli, e allo stesso tempo in estasi. Ma increduli, soprattutto: erano anni che il Milan non giocava così bene, non era così superiore a una rivale storica, non dava l’idea di poter tornare a pieno diritto in quel club. Poi ci saranno ancora sette partite, le ultime sette, e Pioli non sbaglia più: segna due, tre, cinque, quattro gol. Supera il sesto posto e si accomoda al quinto. Il ritorno in Europa, pur se un’Europa Minore, è cosa fatta.

Lo scudetto del 2022 ha cambiato profondamente il dna di chi tifa Milan. Ogni modo di tifare, ogni squadra, ha i suoi vizi, i suoi vezzi, i suoi punti cardinali che stanno nella genetica della passione: è un’antropologia culturale che è radicalmente diversa, per esempio, tra Roma e Torino, tra Bari e Genova, ma pure all’interno della stessa città. Il carattere distintivo del milanismo era una certa ybris, un orgoglio spavaldo e arrogante che si esprimeva bene nel gusto raffinato (e ostentato) per la Champions League al posto dei titoli nazionali, nella toppa stampata all’interno delle magliette con scritto: il club più titolato del mondo. Un sentimento confermato nel giugno 2022 da Florentino Pérez, che ha detto: «Sono contento che il Milan si stia risvegliando. I nostri rivali per 50 anni sono stati loro, non il Barça o nessun’altra squadra». Eppure, a fine maggio 2022, nelle piazze di Milano, nelle vie intorno al Duomo, il Milan che viene festeggiato è una squadra diversa, e i tifosi sono profondamente mutati. È un salto evolutivo, forse è momentaneo, di certo è stato costretto dalla crisi appena vissuta, sia economica che di risultati. L’orgoglio di essere milanisti, oggi, non può prescindere dal concetto di rinascita, e quindi dalla Banter Era.

Il nuovo milanista non si esalta più con gli acquisti sfarzosi di campioni già affermati, com’era nel caso di Rui Costa, Inzaghi, Stam, Ronaldinho, Nesta, ma va al contrario in uno stato di eccitazione morbosa, tipo overdose di zuccheri, quando legge il nome di uno sconosciuto mediano belga-algerino di 18 anni appena scovato nella seconda divisione danese. Il nuovo milanista vuole essere inventore, più che conquistatore, e allora ecco la fede cieca nel misterioso scout Geoffrey Moncada, che nessuno ha mai visto dal vivo, e la costruzione, nell’immaginario del tifo, della nuova triade sacra MMM: Moncada, Massara, Maldini.

Da un lato i profili del cosiddetto “Milan Twitter” si riempiono le bio con neologismi tipo “Vranckxista”, dall’altro il profeta di questo nuovo corso rimane sempre lui: Paolo Maldini. Maldini, nella nuova veste dirigenziale, è nel Milan di Elliott-Redbird il deus ex machina delle trattative, l’uomo a cui è impossibile dire di no, quello che sceglie e convince. E lui, Maldini, nonostante mantenga un profilo come sempre silenzioso e privato, si presta più di prima a questo ruolo messianico. Lo testimonia il discorso tenuto alla fine della stagione 2021 dai gradini di Casa Milan, la sede del club, una scena certo un po’ pacchiana ma simbolica, un’incoronazione, e poi il calcio è sempre così, è esagerato e quindi trash. Paolo Maldini in piedi davanti a centinaia di tifosi presenti con striscioni, bandiere, fumogeni e torce. Il futuro che tiene per mano il passato, la costruzione di una nuova tradizione. È per questo che il branding di questa squadra è, oggi in Italia, senza rivali: comunica allo stesso tempo freschezza, giovinezza, innovazione, e però riecheggia delle vittorie e della gloria del passato. Il prestigio internazionale del Milan, negli anni Banter, non era sparito ma soltanto “dormiente”: per riattivarlo sono serviti, e bastati per la loro intensità, due anni soltanto. Difficile pensare che questo cambio di immagine così radicale, a così poca distanza dalle stagioni dei Sosa, dei Biglia e dei Matri, sarebbe stato possibile senza Stefano Pioli.

Al netto delle vittorie, il piolismo – così è stata battezzata la filosofia tattica e direi umanista del tecnico – è un ingrediente fondamentale per convincere i giocatori a sposare il progetto. Quelli che sono già al Milan, e quelli che potrebbero arrivare. Il gioco del Milan è sexy, è originale, è intellettuale, è iper-tattico, è veloce, è tecnico. Stefano Pioli è un allenatore positivo, solare, moderato, gentile e intelligente. Gli mancava di essere vincente: c’è riuscito. Anche qui il Milan mostra di unire tradizione e innovazione: a differenza di altre rivali, che vincono e poi cambiano, il Milan è da sempre legato ai cicli in panchina. Quello ancelottiano, quello sacchiano, quello capelliano. Con Pioli c’è tutta l’intenzione di aprirne un altro, che superi però la necessità di un trofeo ogni anno. Il Milan è di nuovo una famiglia, come lo era stato negli anni Zero, i migliori della sua storia, e come testimonia il titolo del film-documentario prodotto da Dazn sulle Champions ancelottiane: Stavamo bene insieme.

Poi c’è la parte più noiosa dell’essere tifoso, che in qualche modo però il tifoso contemporaneo è stato, negli ultimi anni, costretto a imparare, e allo stesso tempo è causa e conseguenza di tutto quello vediamo e abbiamo visto in campo e sul mercato: l’economia. Il Milan ha vinto il campionato con una squadra giovanissima (età media 25,8 anni) e con calciatori che, nel giro di pochi mesi, hanno accresciuto il loro valore sul mercato di diversi punti percentuali: potenzialmente, l’undici titolare è una perfetta macchina di plusvalenze. Poi, poco dopo la vittoria, è arrivato l’annuncio dell’estensione della partnership con Puma, con un allargamento importante nel contratto: Puma diventerà il cosiddetto “naming partner” del centro sportivo Vismara, l’incubatore dei giovani talenti del club, che si trasformerà quindi nella Puma House of Football, un centro sempre più centrale nello sviluppo futuro.

Il progetto di RedBird, i nuovi proprietari, punta alla sostenibilità e alla crescita insieme, continuando su una linea, in campo, che unisce scoperta, talento e vittorie. A settembre il modello ha convinto anche il fondo Main Streets Advisors, di cui si è parlato come “il fondo di LeBron James” o alternativamente “di Drake” (a seconda della conoscenza musicale del giornalista in questione) e gli New York Yankees a entrare nel team di investitori. A ottobre è stata annunciata una partnership con Off-White™, uno dei brand più innovativi del panorama moda: e non solo una style partnership, ma un legame anche culturale, e quindi con probabili ricadute editoriali e sociali. Nel frattempo le perdite in bilancio si riducono a vista d’occhio, e anche questa nuova parola così poco calcistica – sostenibilità – inizia a suonare come un piccolo orgoglio per i tifosi. Eccola qui, l’altra novità: aver convinto il pubblico che questa specie di decrescita non sia un ridimensionamento delle ambizioni, ma invece un modo efficace e lungimirante di affrontare le sfide del contemporaneo. In effetti lo è: ma spiegarlo a milioni di persone che – giustamente – potrebbero rivendicare il loro unico interesse nel risultato domenicale non era un esito scontato. E invece. Questo Milan non è un successo “al di là del risultato” (come recitava un effimero striscione della Curva Sud romanista qualche anno fa, durante la breve parentesi Luis Enrique), ma per certi versi ha una visione del suo ruolo che non si esaurisce nel solo risultato. È un modello che, in Italia, non ha per ora nessun eguale. La sensazione è che potrebbe durare a lungo, e senza fretta inserirsi nella scia delle migliori squadre del resto del continente. Da outsider, perché adesso ha una consapevolezza in più: che la gloria non è altro che un pulviscolo, se non è alimentata con costanza. Il futuro, per il Milan, sembra un cantiere in costante movimento.

Dal numero 46 di Undici
Foto di Francesco Nazardo