Marko Arnautovic ha trovato casa

Dopo una carriera folle e controversa, Bologna l'ha accolto e lui ha finalmente conosciuto la pace. E, forse, anche la sua reale dimensione.

A Bologna si sussurra che l’erba del Dall’Ara faccia rinascere i giocatori. Sarà la fibra del suo manto antico, o forse la nebbia che dalla pianura avvolge lo stadio in un guanto, scende per i gradoni e penetra i corpi fino a produrre un effetto lenitivo, rigenerante. Tobia Righi, che per quarant’anni ha accompagnato Lucio Dalla come suo manager, la chiama la guarigione dell’inconscio: una forza misteriosa che dona nuova vita a quei giocatori che, un tempo maestosi, sembrano ormai incurvati sotto il peso del tempo e del calcio. Bologna ha visto rinascere Baggio e Signori, successivamente anche Gilardino e, in particolar modo, Marco Di Vaio: arrivato a 32 anni dopo una stagione in Serie B e una da tre gol in A col Genoa, ha vissuto in rossoblù le annate migliori della carriera. Nel ricordo della sua rinascita, è possibile che sia stato proprio lui, capo degli osservatori del club e in società dal 2015, a fare il nome di Marko Arnautovic in una delle prima riunioni dell’area tecnica della scorsa estate. Le analogie erano sufficienti per sembrare rivelatorie: una sola lettera a distinguere il loro nome di battesimo, la stessa età al momento dell’interessamento del club rossoblu. Sufficienti, soprattutto, a tralasciare il fatto che Arnautovic non provenisse dalla Serie A, come il suo quasi-omonimo, ma dallo Shangai Port F.C., in Cina. Lì, sotto le torri, nessuno ci ha fatto molto caso: nella sera di fine luglio in cui è arrivato in città, l’austriaco si è ritrovato di fronte a seicento tifosi che gridavano il suo nome. Il giorno dopo, ha firmato il contratto che l’ha reso il giocatore più pagato della storia del club.

La scena di un bagno di folla attorno a un giocatore proveniente dalla Serie A cinese è senz’altro un tratto distintivo del calcio dei nostri giorni, quello dei fondi d’investimento e dei campionati-bolle speculative; per molti, tuttavia, l’hype per l’acquisto di Arnautovic altro non rappresentava che l’ennesimo indicatore della perdita di competitività del nostro movimento, sempre più spesso terra d’asilo di giocatori reduci da esperienze extra continentali in campionati dal discutibile livello tecnico, partiti dall’Europa troppo giovani per svernare ma tornati troppo vecchi per incidere: una trama che ha ispirato i trasferimenti di Pellè al Parma, di Giovinco alla Sampdoria e di Nani al Venezia, per considerare solo gli ultimi due anni. Sebbene gli elementi per sperare che il rimpatrio di Arnautovic non finisse in tragedia ci fossero a sufficienza – un convincente Europeo con l’Austria concluso da poco, così come un passato non troppo remoto da protagonista in Premier League – l’incognita che gravava su di lui era la stessa che l’ha accompagnato per tutta la carriera: Arnautovic è pazzo, e, in quanto tale, imprevedibile e pochissimo affidabile.

In Italia, i ricordi che prima di allora aveva voluto lasciare alla nostra memoria erano sostanzialmente due: la scena in cui molesta con risatine isteriche Balotelli nell’intervista post-finale di Champions a Madrid; l’esultanza polemica in Italia-Austria degli ultimi Europei, con la mano portata all’orecchio sotto i tifosi azzurri a festeggiare un gol che sarebbe stato annullato al Var pochi minuti dopo. Due situazioni diverse, ma convogliate su di lui con lo stesso esito: un immediato e inesorabile sbeffeggiamento. È andata spesso così: ripercorrendo la vita di Arnautovic, ci si immerge in un inventario di episodi così assurdi, inscrivibili in una macrocategoria che spazia dal ridicolo all’oltraggioso, dal surreale al paracriminale, che viene più facile capire come oggi, a 33 anni, non sia diventato quel giocatore che ai primi tempi sembrava poter diventare. Arnautovic si è sempre fermato un passettino prima: dall’esplosione, dal salto di qualità, dalla effettiva consacrazione, intercettata da una puntuale e costante pulsione di autodistruzione. A rivivere le tortuosità della sua carriera si prova quasi un senso di fatica, che deve essere quella che ha provato lui nella lotta contro quei tormenti intestini che l’hanno sempre fatto rotolare giù a un metro dalla vetta, in una sorta di revival tamarro del mito di Sisifo.

Arnautovic non si è mai sottratto ai cambiamenti, agli stravolgimenti nel copione: dopo avere cambiato settore giovanile ogni anno a causa di un carattere già del tutto ingestibile, dai sobborghi di Vienna era approdato a Enschede, nel Twente. In mezzo alle praterie dell’Overijssel, Arnautovic sboccia come un girasole. A diciotto anni trascina la squadra dalla fascia sinistra: è agile abbastanza per riuscire in giocate talvolta funamboliche, ma ha anche le caratteristiche della prima punta, una struttura fisica imponente per difendere la palla sulla trequarti e il guizzo vincente sotto porta. In patria dicono già che è uno dei talenti più puri mai visti, che diventerà più forte di Hans Kragl, ma non hanno ancora fatto i conti con la sua straordinaria abilità nel perdere i treni.

L’occasione di giocare in un top club arriva subito, quando approda nell’Inter che si appresta a vincere il Triplete. Non gioca praticamente mai, complice un infortunio ma soprattutto un atteggiamento che di poco si scosta da quello di un ventenne in Erasmus. Il passaggio dai mulini e le mucche frisone d’Olanda ai locali della città della moda, come ammetterà, è troppo netto per non risucchiarlo in quello che Jep Gambardella, ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, chiama «il vortice della mondanità». Solo che Arnautovic non è un esteta maledetto, ma un ragazzo col mullet che finisce troppo spesso sulle pagine sbagliate dei giornali: un giorno arriva all’allenamento in ritardo, un altro si fa rubare la Bentley di Eto’o lasciandoci le chiavi dentro. Il sipario sulla sua stagione si cala con il rimprovero sconsolato di Mourinho – «Ha una mentalità di un bambino» – e l’ancor più inquietante investitura di «giocatore più pazzo mai conosciuto» conferita addirittura da Mario Balotelli.

Eppure, i problemi erano solamente appena cominciati: la stagione seguente viene acquistato dal Werder Brema, dove ci mette due giorni a litigare con il capitano Torsten Frings e ricevere pubblicamente le critiche del direttore tecnico, Klaus Allofs. In tre anni colleziona multe, risse coi compagni, due arresti per guida in stato di ebrezza e un assurdo infortunio ai legamenti del ginocchio per aver giocato col cane in giardino. Alla fine, a Brema non ne possono più e in società decidono che di Arrogantovic – come era stato ormai battezzato dai tifosi – si può fare tranquillamente a meno.

A Stoke-on-Trent, che molto probabilmente non è proprio una città imperdibile, le cose andranno decisamente meglio

A ventisei anni, Arnautovic assume così la silhouette del profilo perfetto per lo Stoke City, che da alcuni anni sta costruendo nei propri laboratori un enorme Frankenstein calcistico, riempiendo la rosa di stelle ormai spente e talenti dalle belle speranze lasciate in qualche vecchia lista di Don Balón. Eppure, tra Shaqiri, Afellay, Van Ginkel e Bojan Krkić, l’esperimento funziona: Arnautovic rinasce. Disposto stabilmente sulla fascia, è l’ultimo ingranaggio che lubrifica e fa girare i meccanismi della squadra, rivelando, oltre a una ritrovata vena realizzativa, notevoli capacità di assist-man. Più di ogni altra cosa, però, Arnautovic sembra finalmente più maturo, come se il suo istinto di sopravvivenza l’abbia portato a trasformare la sua puerile supponenza in determinazione e iper-agonismo, non di meno sconfinanti anch’essi in episodici eccessi, tuttavia. L’Arnautovic di Premier ora è molto incazzato e ci tiene che tutti lo sappiano, fa parte del suo nuovo personaggio: a un giornalista che glielo fa notare, risponde così: «Non farmi arrabbiare. Non ti piacerei da arrabbiato», in pratica una sofisticata citazione de L’Incredibile Hulk.

Al termine del secondo anno a Stoke-on-Trent, concluso da miglior marcatore della squadra, il West Ham lo acquista per 25 milioni di sterline. È il picco della sua carriera: arriva a Londra con lo status consolidato di giocatore di primo livello e gli Hammers lo mettono al centro del progetto. Dopo averlo rimproverato per un iniziale scarso impegno, David Moyes decide di schierarlo centravanti, dove chiude l’anno con undici gol e sei assist, ricevendo il premio di Player of the Year dai tifosi. La nuova stagione inizia nel solco della precedente, lui è ormai l’uomo squadra: a 29 anni, sembra stia recuperando tutto il tempo perso da giovane, rincorrendo a doppia velocità la proiezione di sé stesso in una realtà parallela, dove il talento dei calciatori è incorruttibile da distrazioni, capricci e stravaganze. Nel mondo reale, tuttavia, è dalla notte dei tempi che si cede alle tentazioni e Arnautovic è pur sempre Arnautovic: nel gennaio 2019 arriva un’offerta di 12 milioni di euro l’anno dalla Cina, lui resiste solo per un’altra mezza stagione per poi sparire tra i grattacieli luccicanti di Shangai.

I soldi sì, una caterva certo, ma col passare del tempo la fuga in Cina assume sempre di più le sembianze di una pessima scelta, l’ennesima: tra i vuoti della pandemia e il ritmo sonnecchiante del campionato cinese, ci immaginiamo Arnautovic prendersi la testa tra le mani e accorgersi di aver perso, di nuovo, tempo prezioso. È così che, quando al suo ritorno non ha trovato più squadre di alto blasone di Premier League ad attenderlo, Arnautovic è parso ben cosciente della traiettoria che il destino gli ha disegnato: non quella ascendente dei campioni, ma una erratica, quasi schizofrenica, con le sue tante risalite dal fondo.

Da quando è arrivato a Bologna, Arnautovic ha messo insieme 46 presenze e 22 gol tra campionato e Coppa Italia (Paolo Bruno/Getty Images)

Nel tepore familiare di una realtà piccola come Bologna, l’austriaco è sembrato da subito un uomo in missione, e dal primo giorno ha sentito la responsabilità di caricarsi la squadra sulle spalle. Non ne è diventato solo il principale realizzatore, ma anche la fonte primaria del gioco, grazie alle sue abilità nel palleggio e nel gioco associativo. L’ennesima rinascita di Arnautovic ha assunto dimensioni che forse in pochi si aspettavano. Così inaspettate che la sua storia stava per assistere a un’altra svolta improvvisa. Ad agosto, il Manchester United era a un passo da acquistarlo, ma un’insurrezione dei tifosi, che hanno puntato il dito su alcuni episodi di razzismo che l’hanno coinvolto in passato, ha fatto saltare tutto. A un certo punto era sembrato che il giocatore avesse spinto per il trasferimento, ma pochi giorni dopo, nella partita contro l’Hellas, ha festeggiato il gol indicando ripetutamente per terra con l’indice, a dire “io resto qui”, come se qualcuno avesse tentato di impedirglielo. Una reazione polemica, o forse soltanto il riconoscimento del proprio destino: Arnautovic non è fatto per le grandi squadre.

La permanenza in rosa, unita ai tanti problemi che il Bologna sta vivendo quest’anno, ha visto un’estremizzazione della sua leadership in quella che lui sembra interpretare come un’esperienza quasi bellica. Il taglio di capelli essenziale, la barba poco ordinata, gli occhi scavati da profonde occhiaie, come si vede nell’intervista post-partita contro lo Spezia in cui afferma che per la squadra è disposto a morire in campo: dai segni sul suo corpo, Arnautovic sembra volerci dire che sta combattendo una guerra che non concede sonno né umani attimi di tregua. E che, anche nelle secche paludose della classfiica, in una squadra che non gira, gli allenatori che cambiano e la tifoseria che sbuffa, non può permettersi di perdere altro tempo.