È giusto che gli allenatori possano essere acquistati come i giocatori, e in qualsiasi momento?

L'arrivo di Emery all'Aston Villa ha riacceso un vecchio dibattito sul mercato delle panchine.

Nella conferenza stampa in cui ha salutato il Villarreal, lunedì sera, Unai Emery ha ammesso di essere stato «freddo e calcolatore», di aver dovuto capire quando era il momento giusto per «mettere da parte i sentimenti». Gli serviva una exit strategy per giustificare ai giornalisti, quindi al pubblico, il suo addio al Submarino Amarillo. L’avvio di stagione della sua squadra non è stato proprio brillante, ma non stava andando poi così male, considerando anche l’infortunio di Gerard Moreno, il miglior giocatore della rosa. E comunque parliamo di una squadra che in primavera aveva disputato addirittura le semifinali di Champions League. Quindi è stato una sorpresa scoprire che Unai Emery non è più l’allenatore del Villarreal. Ed è stato una sorpresa scoprire che non si sta prendendo una pausa, ma che è diventato il nuovo manager dell’Aston Villa dopo l’esonero di Steven Gerrard.

Questa storia ci dice almeno due cose: la prima è che Emery è ancora uno dei migliori allenatori in circolazione e uno dei più desiderati, soprattutto dalle squadre non di primissima fascia, e quindi in ogni momento c’è un direttore sportivo o un presidente che, se può, se lo porta in squadra e gli affida la rosa; la seconda è che, come accade ai migliori della Liga e degli altri campionati, calciatori, allenatori o dirigenti, a un certo punto arriva la chiamata dalla Premier League. È una cosa praticamente inevitabile, in quest’epoca: se sei bravo abbastanza, a un certo punto il calcio ti porta in Inghilterra. E di solito tutto questo succede perché, subito dopo la chiamata, arriva una proposta economica che ti fa «mettere da parte i sentimenti» e ti rende «freddo e calcolatore».

Il tempismo di questi annunci, dall’esonero di Gerrard di una settimana fa al cambio di panchina di Emery, deve far immaginare e percepire un po’ di premeditazione. L’Aston Villa voleva dare un nuovo impulso al suo campionato: non poteva aggiungere nuovi pezzi al roster così ha pensato di cambiare in panchina. Quindi perché non pagare i sei milioni di euro della clausola di Emery? E quanto può spostare un ingaggio da sette milioni di euro – quello che percepirà  l’allenatore basco – sui bilanci di una società che in estate ha comprato giocatori per 70 milioni? Ovviamente il ragionamento appare lineare solo se si accetta la premessa della ricchezza della Premier League, e di un Aston Villa che ha già un monte ingaggi vicino ai cento milioni di euro. Il trasferimento di Emery è solo l’ennesimo esempio di uno strapotere economico che viene giustamente esercitato da chi lo detiene. In estate i venti club del massimo campionato inglese hanno investito la cifra più alta di sempre – sommando tutti i trasferimenti – superando il tetto dei due miliardi di euro secondo Transfermarkt, con Liverpool, West Ham, Brighton, Brentford, Newcastle e Nottingham Forest che hanno aggiornato il proprio record di spesa per un singolo calciatore.

È sempre più evidente: nel gioco del calciomercato gli allenatori sono diventati sempre più simili ai calciatori. Nel senso che vengono acquistati – o scegliete voi il verbo che preferite – a cifre sempre più alte, con accordi multimilionari per il pagamento delle clausole inserite nei loro contratti. È successo con Julian Nagelsmann, che il Bayern Monaco ha portato in Baviera nel 2021 pagando una cifra vicina ai 25 milioni di euro. In fondo è il miglior allenatore tedesco in circolazione, è giovanissimo, aveva già dimostrato di valere quel palcoscenico e in più ha tutto per essere l’uomo-copertina di un club che è una multinazionale con interessi in tutti i continenti: sa dialogare con i giornalisti, ha un profilo spendibile sui social e sa far vincere le sue squadre con un gioco brillante, elettrico, attrattivo.

Soprattutto rispetto a quello di Nagelsmann, la particolarità del caso Emery è che il trasferimento è arrivato a fine ottobre, con la stagione abbondantemente iniziata, con i gironi delle coppe europee quasi conclusi e una pausa lunga e difficile da calcolare tra poco più di tre settimane. Nella stessa conferenza stampa di Emery, lunedì, è intervenuto anche Fernando Roig, presidente del Villarreal. Aveva quell’aria sconfortata e desolata di chi deve accettare un destino che non dipende dalla sua volontà. Tirava gli angoli della bocca in smorfie tristi, usava un po’ di perifrasi ma in alcuni passaggi è diventato molto schietto. Era lì per ringraziare Emery, per celebrare la semifinale di Champions e la vittoria dell’Europa League, i momenti più alti di due anni e mezzo vissuti in un club che in realtà è molto piccolo. Nello stesso intervento, però, ha anche detto al suo ex allenatore che la sua scelta ha «incasinato le cose», che ha il suo addio ha lasciato la squadra «col pie cambiado», sul piede sbagliato, un modo di dire spagnolo per indicare una situazione di disagio. Perché un allenatore è il prima di tutto la guida di un progetto tecnico di un club, è l’uomo che muove i fili della squadra in campo e fuori. È anche un organo monocratico, è uno di uno, difficilmente il lavoro di un allenatore può essere replicato da un’altra persona in ogni singolo aspetto del lavoro. Chi cambia in corsa di solito ci pensa prima due, tre, dieci volte, e se lo fa è perché le cose non vanno bene. Se il cambiamento non dipende dalla società, allora quella società si trova con un bel problema da gestire. Soprattutto a stagione in corso.

Già da domani, il progetto tecnico del Villarreal diventerà per forza un’altra cosa. Il nuovo uomo-guida sarà Quique Setien, un allenatore che non potrebbe essere più diverso da Emery, che professa idee lontanissime dal pragmatismo empirico del suo predecessore, che rispetto a lui ha una personalità decisamente meno ingombrante all’interno di uno spogliatoio e meno esperienza ad alti livelli. Ma Roig non aveva molte alternative: ha perso in corsa – per decisione di Emery e di un’altra squadra – la persona più importante di questo ciclo del Villarreal. Poi alcune notizie di cronaca hanno rivelato che sul taccuino dell’Aston Villa c’erano anche altri nomi, c’erano Rúben Amorim e Thomas Frank, che però sono sotto contratto con Sporting Cp e Brentford. Insomma, al Villarreal è andata male, ma la roulette della distruzione-del-progetto-tecnico avrebbe potuto colpire qualsiasi altra squadra, qualsiasi altro allenatore competente e lasciare un altro club col pie cambiado. In questa stagione c’era già stato un caso simile a quello di Emery, forse ancora più estremo: a inizio settembre Graham Potter è passato dal Brighton al Chelsea. Dal momento in cui la dirigenza dei Blues si è convinta di voler puntare su Potter non c’è stato più nulla da fare, per il Brighton: lo dice la velocità e la leggerezza con cui ha sottratto il manager alla squadra più piccola, pagando 20 milioni di sterline (23 milioni di euro), una cifra che per il Chelsea è un’inezia.

La carriera in panchina di Graham Potter è piuttosto particolare: ha guidato per sette anni l’Östersund, in Svezia, portandolo dalla quarta divisione all’Europa League; poi è tornato in Inghilterra per guidare Swansea, Brighton e oggi Chelsea (Ryan Pierse/Getty Images)

Dovremmo chiederci allora se è possibile, normale o forse anche giusto che gli allenatori possano risolvere il loro contratto nel bel mezzo del campionato. Perché se è vero che la dinamica di trasferimento degli allenatori è sempre più simile a quella dei calciatori – soprattutto sotto l’aspetto economico – è vero anche che i calciatori non cambiano squadra da un momento all’altro: ci sono due finestre di mercato durante l’anno, e fin quando si sta in quei parametri temporali si può scatenare tutta la frenesia del mondo, anche perpetrando un abuso di strapotere e liquidità come fanno le squadre della Premier League (giustamente: il loro mercato è costruito meglio, quindi più ricco, quindi vantaggioso sulla piazza globale del calcio). La volatilità delle panchine sembra non toccare l’Italia, o almeno non in questo modo: un po’ perché sono pochi i club che possono spendere a stagione in corso per acquistare un allenatore, un po’ perché chi ha già allenato in Serie A nel campionato in corso non può sedere su un’altra panchina – per regolamento.

Come in quasi tutte le storie che riguardano l’evoluzione del calcio, la sua industria, le tendenze sportive e manageriali, l’Italia arriva leggermente in ritardo. Ma in questo caso paradossalmente potrebbe essere una virtù. Forse non è nemmeno un vero merito, è solo anacronismo o immobilismo, forse l’Italia è come l’orologio rotto che segna l’ora giusta due volte al giorno. Però se vogliamo iniziare a considerare gli allenatori come i giocatori, forse è anche il caso di regolamentare i loro trasferimenti. Per non lasciare i club con il pie cambiado a stagione in corso.