Al minuto 88’ del Clásico del 16 ottobre, il Real Madrid è in vantaggio 2-1 contro un Barcellona in pressione e alla ricerca del pareggio. Carlo Ancelotti decide perciò di passare a un 3-5-2 da battaglia, sostituendo Carvajal con Rüdiger. Il tedesco va a posizionarsi sul centro-destra della difesa completata da Militão e Alaba. Esterni a tutta fascia diventano, quindi, Mendy e, soprattutto, Federico Valverde, che quella partita l’aveva iniziata da terzo di destra del tridente offensivo, per di più segnando la rete del 2-0 con una saetta di collo-interno dal limite dell’area che ormai è diventata il suo marchio di fabbrica. Un minuto dopo, in virtù della sua nuova posizione, Valverde riceve palla da Rüdiger nella trequarti difensiva e ciò che vede davanti davanti a sé sono almeno 80 metri di campo, nessun compagno in maglia bianca e, soprattutto, almeno cinque giocatori del Barcellona che stanno già correndo all’indietro in ripiegamento. Come se niente fosse, però, il centrocampista uruguaiano comincia a correre palla al piede, tagliando il campo dall’esterno verso l’interno: la leggerezza e la tranquillità della sua corsa contrastano in maniera quasi parodistica con la frenesia e l’isterismo di tutti gli altri che stanno correndo senza criterio intorno a lui, spinti dalla disperazione più che dalla reale necessità di recuperare il pallone. Questa differenza, di passo ma anche di lucidità, fa sembrare che tutta l’azione si svolga al rallentatore, un frozen moment lungo 10 secondi, in cui Valverde riesce a manipolare la dimensione spazio-temporale in base alle sue esigenze, muovendo a piacimento le pedine blaugrana sul terreno di gioco, come se stesse giocando a scacchi da solo.
Arrivato a venticinque metri dalla porta, El Pajarito viene fronteggiato da Koundé ed Eric García, mentre alle sue spalle stanno rinvenendo Gavi e Ansu Fati. Che sono entrati da pochi minuti. e che quindi dovrebbero essere teoricamente più freschi, più veloci, dovrebbero avere più energie da spendere nei ripiegamenti difensivi. Ma per Valverde non cambia nulla, perché quello è il suo momento, la sua partita, la sua dimensione, l’attimo in cui far emergere la differenza tra lui e il resto del mondo: manda a vuoto, quasi senza accorgersene, il tentativo di tackle di Ansu Fati e, mentre gli altri tre stanno collassando sul pallone, riesce a toccarlo con l’interno sinistro per Rodrygo, l’unico madridista che aveva avuto la forza e il fiato per assecondare la sua corsa. Il premio è il calcio di rigore del 3-1 che chiude la partita.
In questo primo scorcio di 2022/23 Valverde ha già ritoccato più volte il suo massimo in carriera nel numero di gol segnati: siamo a otto in 15 partite, quattro nelle ultime sei tra Liga e Champions League. «Se non ne segna almeno dieci gol mi ritiro», aveva scherzato a settembre Ancelotti dopo la rete al Lipsia. Quindi analizzare un’azione che un gol lo procura solo indirettamente potrebbe sembrare un controsenso, una forzatura. In realtà quella corsa in quella partita è ciò che definisce la vera natura di Valverde, la sua imprescindibilità nel sistema di Ancelotti, l’evoluzione che lo ha portato ad essere il box-to-box più forte del mondo, il giocatore di riferimento «quando si pensa al centrocampista moderno». Queste parole così impegnative le ha dette proprio Ancelotti al termine della gara contro l’Elche. Sbloccata, tanto per cambiare, da un gol del Pajarito.
Questa continuità realizzativa è certamente la caratteristica più vistosa del rendimento e del gioco di Valverde, ma è anche la più aleatoria, visto che sembra comunque destinata a ridimensionarsi, o quantomeno normalizzarsi, con il passare delle partite e dei mesi. Invece tutto il resto di quello che Valverde fa sul terreno di gioco è ciò che lo rende speciale. Valverde sa fare tutto, sa farlo bene e alla massima velocità di piede e di pensiero possibile. La sua multidimensionalità è strettamente connessa alla natura del suo talento, più costruito che immanente o innato. Parliamo di un giocatore che si è affermato attraverso una crescita costante e una continua esplorazione dei propri limiti e che, per certi versi, sta ancora scoprendosi in questa versione di tuttocampista in cui, spesso anche all’interno della stessa partita, riesce a essere il laterale che facilita la risalita del campo in verticale, la mezzala che aiuta a consolidare il possesso, il trequartista atipico che sulla transizione attacca lo spazio alle spalle della seconda linea di pressione, l’attaccante-ombra che finalizza il gioco dopo l’inserimento senza palla: «Mi sento bene sia emotivamente che fisicamente e lavoro per essere sempre al top. Chiunque oggi giochi nel centrocampo del Real porta qualcosa di unico: Toni distribuisce il pallone con grande calma, Luka ci dà quel tocco di magia in più, io cerco di dare energia e velocità», ha detto dopo aver vinto il premio come miglior giocatore della Liga nel mese di settembre.
Quando, nel 2016, era arrivato a Madrid dal Peñarol, Valverde aveva da poco compiuto 17 anni ed era un centrocampista dalla forza fisica straripante che, però, necessitava di essere incanalata in una struttura e un’organizzazione molto più europee. Per questo, nel suo anno di apprendistato nel Castilla, il tecnico Santiago Solari ha cercato di razionalizzarne il talento impiegandolo stabilmente davanti alla difesa, in un ruolo che sembrava limitare la componente istintiva, diretta e verticale del suo gioco ma che, in compenso, ha fatto emergere quelle qualità associative e di organizzazione che rischiavano di rimanere sepolte sotto la coltre di un dinamismo talmente fuori scala da risultare persino deleterio. Quando è tornato da un anno di prestito Deportivo La Coruña, era già diventato un giocatore in grado di incidere in un contesto di altissimo livello, finendo addirittura per condizionare con la sua sola presenza la sostenibilità dell’intero sistema, soprattutto per ciò che riguarda il pressing e la riaggressione alta. All’inizio, infatti, Zidane lo aveva impiegato come primo cambio della santissima trinità Kroos-Casemiro-Modric, prima di rendersi conto che una squadra dai ritmi particolarmente compassati non poteva fare a meno di un giocatore in grado di coprire tutto il campo tanto in ampiezza quanto in profondità, di consolidare e velocizzare il possesso sotto pressione, di difendere uno contro uno sulla transizione negativa in condizioni di parità o inferiorità numerica. La scelta successiva, quindi, era stata quella di impiegarlo come esterno alto o, in assenza di Carvajal, come terzino di spinta in un 4-4-2 spurio in cui le sue capacità aerobiche riuscivano a compensare le carenze strutturali di un collettivo abituato a giocare sotto palla e sotto ritmo in attesa dell’accelerazione decisiva nell’ultimo terzo da parte di Benzema o Vinícius Júnior.
Quattro minuti di Fede Valverde che fa tante cose bellissime, tutte diverse tra loro
Il ritorno di Ancelotti, nell’estate 2021, ha imposto un ulteriore e decisivo cambio di paradigma: l’atletismo e la duttilità di Valverde non sono stati più declinati secondo i canoni del tappabuchi, della prima alternativa di lusso, ma sono diventati una delle pietre angolari su cui edificare l’intero sistema. Per la prima volta Valverde è diventato una scelta necessaria, l’equilibratore del gioco sui due lati del campo, un elemento più offensivo – non necessariamente un attaccante esterno, ma nemmeno solo una mezzala o un laterale a tutta fascia – che parte largo con precisi compiti di copertura in fase passiva, ma che in attacco è in grado di chiudere l’azione partendo dal lato debole. E che si accentra per arrivare al tiro con entrambi i piedi. Con lui, grazie a lui, Ancelotti ha restituito al Real quella dimensione verticale su cui è stato costruito un doblete inatteso, arrivato al termine di un’annata che avrebbe dovuto essere di transizione.
Le partite chiave, in questo senso, sono state due: la semifinale di Supercoppa spagnola del 12 gennaio contro il Barcellona, in cui Valverde ha segnato il gol della vittoria ai supplementari, dopo essere subentrato a Modric; il ritorno degli ottavi di finale di Champions contro il Psg due mesi dopo, disputato da titolare dopo essere stato panchinato nella gara d’andata persa 1-0, al termine della quale Ancelotti ha ammesso il fallimento della strategia attendista basata su un blocco basso e posizionale e la necessità di tornare a pressare alto sulla prima costruzione avversaria. Quindi la necessità di tornare ad affidarsi a Valverde, che da quel momento non è più uscito dalla formazione-tipo ed è entrato in tutti i momenti chiave sulla strada verso l’ennesima Champions, compreso l’assist per la rete di Vinicius nella finale di Parigi.
In questa stagione la centralità di Valverde può essere misurata attraverso i numeri relativi a gol, assist e presenze – ad oggi ha giocato l’86% dei minuti a disposizione, partendo dalla panchina in appena due occasioni su 17 – ma anche attraverso la percezione di ciò che il Real riesce a fare quando lui è in campo. Ad essere cambiata non è la collocazione tattica, i compiti o le funzioni, ma l’idea che il Madrid sia ormai la sua squadra in senso assoluto, come lo è di Modric, Kroos, Benzema; Valverde è il padrone del lato destro del campo, ma anche il leader tecnico ed emotivo di un centrocampo alle prese con un profondo e necessario ricambio generazionale. Questa leadership, però, è già qui ed ora. Ed è riconosciuta da chi lo ha guidato per poi ritrovarsi a seguirlo – Toni Kroos ha twittato che in questo momento è nella top-3 dei centrocampisti del mondo – e si traduce in quella sensazione di ubiquità che accompagna ormai ogni partita dei blancos: «Uno è un leader quando è un esempio e da questo punto di vista Federico è molto importante per noi. Sta andando molto bene e tutto ciò che fa può aiutarlo a essere un leader anche in futuro», aveva detto Ancelotti dopo la partita contro il Mallorca al Bernabéu. Era l’11 settembre e quella volta il gol di Valverde – un coast to coast praticamente identico a quello che avrebbe poi annichilito il Barca un mese dopo – era servito per pareggiare una partita che si stava complicando dopo lo 0-1 di Muriqi: «Ho cominciato a vedere le maglie rosse intorno a me e ho cercato di continuare a correre», aveva commentato il diretto interessato, come se fosse stata la cosa più facile del mondo. E forse lo era stato davvero.