Il Real Madrid e l’arte di vendere

La cessione di Casemiro è l'ultimo capolavoro di un club che è più grande di qualsiasi giocatore, e che così rimane competitivo in eterno.

Il 5 agosto 2018, al FedEx Field di Landover, nel Maryland, la Juventus è in vantaggio 1-0 sul Real Madrid nel match di International Champions Cup grazie all’autorete di Dani Carvajal. A un certo punto le telecamere di FOX Sports inquadrano sugli spalti un bambino tifoso del Real che stringe tra le mani un cartello: Who Needs Ronaldo? Ben presto quell’immagine sarebbe diventata il meme perfetto per raccontare la stagione luci e ombre dei blancos – in particolare sarebbe diventata virale dopo la manita subita nel Clasico del 28 ottobre – ma in quel momento rappresenta soprattutto il modo in cui un’intera tifoseria sta cercando di esorcizzare la vendita del calciatore simbolo di un’epoca attraverso l’idea che nessuno è più grande del Real, nemmeno l’uomo copertina delle quattro Champions League vinte in cinque stagioni: «Le clausole che il Real fissa per i suoi giocatori sono dissuasorie», avrebbe poi detto Florentino Pérez. «La cessione più remunerativa quest’anno è stata quella di Cristiano. Lui voleva andar via per motivi personali e quando tutti convergono sulla stessa soluzione si arriva a un accordo. Al Real nessuno dava più dei 100 milioni offerti dalla Juventus». Il presidente disse queste parole nel successivo mese di settembre, durante la mini-assemblea dei delegati del club, che chiedevano conto di una cessione arrivata a una cifra di molto inferiore rispetto alla clausola da un miliardo di euro.

Il successivo – e per certi versi improvviso – declinare della carriera del portoghese, oltre a certificare la bontà della scelta di Pérez, ha poi rivelato un’iconografia diversa e ulteriore rispetto a quella che siamo abituati ad associare al Madrid, cioè un club che non solo si limita a comprare i migliori giocatori disponibili sul mercato ma che li sa anche vendere al momento giusto, cioè prima che si troppo tardi. L’ultimo in ordine di tempo è stato Casemiro, ceduto al Manchester United per oltre 70 milioni di euro nell’estate in cui sono stati salutati anche Isco e Marcelo. Casemiro ha 30 anni, dieci dei quali passati da architetto e leader silenzioso dei successi del Real di Zidane prima e Ancelotti poi, il vertice basso del “triangolo delle Bermude” completato da Kroos e Modric e destinato a dominare quelli che saranno i racconti di questa fase del calcio contemporaneo: «È sempre difficile quando si tratta di prendere una decisione così importante. Dopo la finale di Champions League ho parlato con il mio agente e gli ho detto che avevo la sensazione che stavo finendo il mio ciclo con il Real. Ci ho pensato, ho cercato di essere onesto con tutti e quando sono tornato dalle vacanze la sensazione era la stessa: il mio ciclo era finito, volevo vivere una nuova sfida, provare un campionato diverso e una cultura diversa. Il cambiamento è stato necessario», ha detto il brasiliano nella conferenza stampa d’addio, aggiungendo poi in un successivo video di presentazione con la sua nuova squadra che il fatto di non giocare la prossima Champions non ha inciso nella sua scelta perché «io ne ho già vinte cinque».

Certo, è ancora troppo presto per dire se questa risposta semi-seria arrivata mentre il volto di Casemiro si illuminava di un sorriso quasi fanciullesco sia il primo sintomo di un fisiologico calo motivazionale che si rifletterà sulle sue prestazioni in campo ma, in ogni caso, la percezione comune è quella di un’operazione, l’ennesima, in cui la bontà del tempismo supera di gran lunga i comunque notevoli benefici economici. Ad eccezione di quanto accaduto con Gareth Bale – finito a svernare a Los Angeles dopo un anno di prestito al Tottenham e un’ultima stagione da sostanziale separato in casa con Ancelotti in panchina – o James Rodríguez, quasi tutti i grandi addii di questi anni sono stati caratterizzati da un corrispettivo economico adeguato, dalla capacità di aver già trovato per tempo un sostituto di alto livello – talvolta ritrovandoselo già in rosa – e, soprattutto, dalla lucidità nel capire il quando e il come la separazione dovesse avvenire, senza che la riconoscenza o lo status del calciatore influenzassero la scelta finale.

E nemmeno gli inevitabili “incidenti di percorso” come quelli legati a Theo Hernández e Hakimi – giocatori da Real senza aver avuto il tempo materiale di dimostrarlo a Madrid – hanno scalfito l’immagine di club in grado di prendere le decisioni che vanno prese, a prescindere dal grado di impopolarità che potrebbe caratterizzarle agli occhi dei tifosi, in una sorta di rivisitazione di quelle leggi draconiane alla cui durezza nessuno sembra poter sfuggire. Neanche Sergio Ramos, l’uomo della Decima, el Gran Capitán ridotto alle lacrime in conferenza stampa perché «non si è mai pronti a dire addio al Real Madrid», soprattutto dopo che «mi è stato offerto un anno di contratto con uno stipendio inferiore del 10%. I soldi non erano un problema, ma volevo un biennale: tuttavia quando ho accettato questa proposta l’offerta non esisteva più perché aveva una scadenza, senza che io lo sapessi. Nessuno mi aveva detto che c’era un tempo per accettarla».

Degli undici calciatori schierati da titolari nella finale di Champions League 2018, vinta contro il Liverpool, il Real ne ha solamente quattro sotto contratto: Modric, Benzema, Kroos e Carvajal (Lluis Gene/AFP via Getty Images)

È come se lo star system e la dimensione semi-divina del Real Madrid imponessero un continuo e feroce ricambio generazionale, sublimato da un’estremizzazione dell’idea del tutti sono utili, nessuno è indispensabile, una condizione per cui al Real si è una star fin quando conviene al club. Che provvede poi alla necessaria sostituzione al momento opportuno. Si tratta di una visione condivisa con l’intero ambiente e che genera pressioni e aspettative difficili da gestire nel medio-lungo termine, indipendentemente dal leverage e dallo status del singolo giocatore: «Dopo aver vinto la Champions con il Real»,  rivelò qualche tempo fa Raphael Varane, «i tifosi non si congratulano con te. Era più una sensazione del tipo “ok, sotto con la prossima ora!”, e questo dopo la prima vittoria. Poi succede che magari di Champions League ne vinci quattro e che comunque mi dicano ugualmente “ok, sotto con la prossima”. Vorrei solo dire che, a volte, bisogna godersi ciò che si ha. E che è stato bello». Varane è stato ceduto al Manchester United poche settimane dopo la conferenza stampa d’addio di Ramos, certificando la rinuncia alla coppia centrale del three-peat in Champions per affidarsi a Militão ed Alaba e senza che questo rappresentasse un così grande e grave problema per stampa, tifosi e addetti ai lavori.

Quello che potrebbe sembrare un irrispettoso tritacarne sportivo e mediatico è in realtà l’espressione massima e privilegiata di una gestione aziendale oculata, di una programmazione che mira a preservare la continuità ad alti livelli, della necessità di essere sempre al passo con i tempi di un calcio in continua evoluzione e che sembra fagocitare e “bruciare” il talento molto più velocemente rispetto al passato, anche quello recente, alterando l’effettiva percezione relativa alla quantità e alla qualità del parco giocatori a disposizione. Da questo punto di vista, in questo momento storico, il Real Madrid è con il Bayern Monaco la migliore squadra d’Europa per come riesce ad andare oltre la cessione dei suoi giocatori generazionali senza risentirne a livello tecnico; oggi non serve solo avere i calciatori più forti e le risorse economiche per metterne sotto contratto degli altri, ma avere anche un’idea, una visione programmatica sul, come, quando e con chi sostituirli nel momento in cui i primi non saranno più così forti, mettendo da parte i sentimenti, la gratitudine, il ricordo di una grandezza passata che rischia di minare quella presente e futura. Vale a dire tutto ciò che ostacolerebbe un rinnovamento che il calcio moderno ha reso necessario anche per i club più blasonati, soprattutto nell’epoca in cui le risorse infinite degli sceicchi hanno permesso e stanno permettendo a molte realtà di retroguardia di “comprarsi” quella grandezza cui avevano sempre aspirato e che non erano ancora riusciti a raggiungere.

Si tratta di una politica che dà i suoi frutti anche quando si tratta di ricavare risorse dalla cessioni dei giocatori di seconda o terza fascia – Kovacic e Morata al Chelsea,  Ødegaard all’Arsenal, Illarramendi di ritorno alla Real Sociedad – ma anche di una lezione preziosa che il Real e Pérez hanno appreso sulla propria pelle all’inizio del secondo ciclo presidenziale di Don Florentino. All’epoca l’incapacità di vendere, o di vendere bene, i vari Van der Vaart, Drenthe, Robben, Sneijder, Huntelaar, Cannavaro, Van Nistelrooy, Garay, Gago, Negredo e Diarra – oltre alla difficoltà nel liberarsi dei galacticos della prima ondata come Figo, Ronaldo e Beckham – aveva reso la squadra una sorta di meme ante litteram, aveva fatto del Real un club isterico che si limitava ad accumulare e svendere talento senza criterio e senza prestare attenzione agli equilibri economici e gestionali; tutto sarebbe cambiato nell’estate 2013 quando i 114 milioni ricavati dalle cessioni di Özil, Higuain, Albiol, Callejón e Pedro Leon, finanziarono – o comunque coprirono – gli esborsi della campagna acquisti che avrebbe portato alla Decima e cambiarono l’approccio del Real al calciomercato, caratterizzato dalla sintesi tra le politiche dei “galacticos” e quella degli “Zidanes y Pavones”, i due claim florentiniani per eccellenza: «Ci siamo sempre concentrati sull’acquisto dei calciatori più forti in assoluto e dei migliori talenti spagnoli, e poi sulla formazione interna. Ora abbiamo perfezionato il nostro approccio, siamo attenti ai giovani provenienti da tutto il mondo. Stiamo portando avanti un grande progetto, che garantirà il nostro domani», disse Pérez nel 2017 all’inizio del suo quinto mandato presidenziale. Da allora per ogni Keylor Navas c’è stato un Courtois, per ogni Ramos un Militão, per ogni Casemiro un Tchouameni, per ogni Marcelo un Mendy, per ogni Isco un Valverde, per ogni Ronaldo e Bale un Vinicius e un Rodrygo, in attesa che Camavinga si prenda definitivamente il posto che è ancora di Toni Kroos. E che arrivi l’uomo che, prima o poi, sarà chiamato a sostituire Luka Modric.

Oggi ci sembra quasi un’eresia allo stesso modo in cui, nel 2018, ci sembrava impossibile che per sostituire il miglior calciatore della sua storia il Real Madrid avesse deciso di puntare su un diciottenne cresciuto nel Flamengo; da allora sono passati quattro anni, Cristiano Ronaldo è di nuovo alla ricerca di sé stesso e di una squadra e il Madrid ha appena cominciato la stagione 2022/23 da campione di Spagna e d’Europa in carica. Perché nessuno è più grande del Real Madrid, perché nessuno sa vendere come il Real Madrid.