Il momento in cui Marco Tardelli cambiò la storia

Un estratto del libro Atlante sentimentale del goal, di Luca Todarello, edito da Bordeaux.

I cinque testi che leggete sotto sono tratti dal libro Atlante sentimentale del goal, di Luca Todarello (con prefazione di Massimo Raffaeli), edito da Bordeaux. Come capirete, si tratta di un libro che ripercorre tutte le edizioni dei Mondiali partendo dai momenti più significativi di tutte le edizioni: i gol più iconici, quelli che sono rimasti impressi nella memoria collettiva per la loro importanza, per la loro bellezza, per i loro significati tecnici ma anche culturali e addirittura politici. La nostra scelta, come avrete intuito dal titolo e dalla foto in apertura, è ricaduta su un gol indimenticabile per tutti i tifosi italiani, quello di Tardelli contro la Germania, e poi su altri quattro momenti che hanno fatto da spartiacque nella storia della Coppa del Mondo e quindi anche del calcio: non tutti sono proprio dei classici, e forse anche per questo ci hanno appassionato. Buona lettura.

Alcides Ghiggia
Brasile-Uruguay 1-2 [1-2 / 79’]
16/07/1950
Maracaña [Rio de Janeiro, Brasile]
Il silenzio non appartiene che ai fantasmi. Quando Alcides Ghiggia calcia in modo grossolano col destro sollevando un ciuffo d’erba, il pallone passa tra Barbosa e il primo palo e l’incantesimo scende per sempre sul Maracaña. Lo spettro dell’Amleto del calcio è entrato in scena nell’ultimo atto, il secondo tempo di una finale mondiale che avrebbe dovuto sancire il trionfo della giovane nazione brasiliana, proiettata nel radioso futuro consumistico degli anni Cinquanta. Ma di quel sogno (calcistico e reale) interrotto dalla nazionale uruguagia non resta che il silenzio, lugubre e innervato ancora oggi in ogni anima verdeoro. Eduardo Galeano ha scritto che «il più straordinario silenzio della storia del calcio esplose sul Maracaña». Come un fantasma, il goal di Ghiggia incombe dopo più di settant’anni sui sogni dei duecentomila testimoni di quella catastrofe sportiva e in quelli di tutti i tifosi brasiliani. Il calcio non è stato più lo stesso, il Brasile si è rialzato, ha trionfato, ma lo spettro è ancora lì. Perché oltre il calcio non c’è che il calcio e, come dice Amleto, «non resta che il silenzio».

Pelé
Brasile-Italia 4-1 [1-0 / 19’]
21/06/1970
Estadio Azteca [Città del Messico, Messico]

L’alfa e l’omega della vita di Edson Arantes do Nascimento sono vestite di verde e di oro, e sono salite sul palcoscenico più prestigioso della Terra, la Coppa del Mondo. L’alfa, il principio, l’inizio di un nuovo modo di fare calcio – per lui – e goderlo – per tutti gli altri –, ha la forma dello straordinario guizzo funambolico nella finale del ’58 contro la Svezia. L’omega, il momento in cui l’arcobaleno di luce tocca il terreno, in cui il pianeta gusta l’apice di un atleta irripetibile, è la marcatura di testa nella finale messicana del 1970 contro l’Italia. Perché il Pelé diciassettenne è diventato un portento della natura, negli anni ha nutrito la sua classe e la sua tecnica fulminante con la propulsione infinita di un catalogo di nervi, tendini e fasci muscolari sempre obbedienti al desiderio di stupire pubblico e avversari. Burgnich ci prova e salta per intercettare il cross di Rivelino ma l’ombra di Pelé lo ha già ricoperto, l’astro più grande ha rubato la luce del calcio, da lui si illumineranno tutti. Pelé è sulle alture del pallone, da lì vede finalmente l’arcobaleno che si piega con dolcezza proprio ai suoi piedi, mentre il pallone gonfia la rete.

Marco Tardelli
Italia-Germania Ovest 3-1 [2-0 / 69’]
11/07/1982
Santiago Bernabéu [Madrid, Spagna]

Non è perché l’ultimo passaggio prima del suo tiro porta la firma di Gaetano Scirea; non è perché il Presidente della Repubblica Pertini ammette fuori dai denti che «Non ci prendono più»; non è perché quell’attimo è diventato un’icona nazionale italiana, un’effige degna di comparire sulle banconote di piccolo taglio; no, non basta tutto questo a spiegare un gesto tecnico sopraffino e irripetibile, un concentrato di tecnica, raffinatezza tattica e sicurezza atletica. Tardelli calcia scivolando, come se le ultime energie spese in quella finale memorabile gli stessero sfuggendo dalle gambe, giù oltre le caviglie, verso gli scarpini. Invece si stanno trasformando in un trionfo, stanno raggiungendo l’apice di una carriera, di una squadra e di un intero paese forse uscito, finalmente, da anni bui di atrocità e cospirazioni, di lotte, molte, e sconfitte, tante. Un colpo da biliardo in corsa talmente preciso e giusto da centrare il palo interno alla sinistra di Schumacher, prima di finire in rete. Il corso della storia, quell’afosa sera di luglio, era già tracciato, doveva andare così. Quella sera un ragazzo avrebbe squarciato il cielo con un urlo di gioia.

Papa Bouba Diop
Francia-Camerun 0-1 [0-1 / 30’]
31/05/2002
Seoul World Cup Stadium [Seoul, Corea del Sud]

La rivincita non è solo un gioco eccitante, è un segnale, la traccia d’un accaduto che spesso è anche un rimosso. Certo, senza l’eccitazione di beffare i coloni francesi del suo Senegal, Papa Bouba Diop non si sarebbe avventato così voracemente su quel pallone. L’ha perso qualche attimo prima Youri Djorkaeff, figlio di un’Armenia che non c’è più, contrastato da Omar Daf, che ha servito sulla corsa El-Hadji Diouf, stella del Lens. Diouf si fa beffe della scivolata di Frank Lebœuf e raggiunge il vertice sinistro dell’area di rigore francese per poi crossare. Ne segue persino un tunnel a Marcel Desailly… Per i bleus la rivincita senegalese assume i connotati della farsa quando va in scena il pasticcio tra Emmanuel Petit e il portiere Barthez: il pallone rimbalza fra le caviglie e le mani dei due prima di tornare placidamente nei pressi di Papa Bouba Diop, che ha seguito molto attentamente l’azione. Che cos’altro può fare quel ragazzone di Dakar se non toccare il pallone col piede sinitro, seduto in terra, sdraiato sopra i cadaveri sportivi di quei coloni? Il Senegal vince la gara inaugurale del Mondiale d’Oriente. Papa Bouba Diop, che dio l’abbia in gloria, è leggenda.

Robin van Persie
Spagna-Olanda 1-5 [1-1 / 44’]
13/06/2014
Arena Fonte Nova [Salvador, Brasile]

Fino al 12 giugno 2014 il mondo conosceva l’Olandese volante di Richard Wagner e l’olandese “non volante” Dennis Bergkamp, attaccante di Ajax e Arsenal, attanagliato da un’insuperabile paura per gli aeroplani. Quel giorno a Salvador del Brasile, invece, un altro
ragazzo ha deciso di alzarsi in volo e di entrare nella storia realizzando il primo goal “planato” della Coppa del Mondo. Daley Blind lancia di sinistro dalla metà campo perché ha visto Robin Van Persie lanciarsi in profondità nel cuore della difesa della Spagna. Solo che, quando riceve la palla, Robin non ha il tempo di controllarla perché troppo veloce, né di calciarla al volo perché troppo alta. Può solo colpirla di testa, in torsione, omaggiando Saint-Exupéry quando ha detto che solo nel volo «si assapora una inesplicabile speranza». La speranza di quel goal è diventata felicità: l’Olanda sconfigge sonoramente la squadra che quattro anni prima aveva mandato in frantumi per la terza volta il suo sogno di vincere una finale mondiale. Robin, invece, è diventato un’icona volante dei Mondiali di calcio.