Il Brasile è davvero la favorita del Mondiale?

I punti di forza, i ricorsi storici e i (pochi) dubbi della squadra di Tite, che trabocca di talento ma deve anche trovare il giusto equilibrio.

Dov’eravamo rimasti? A una lezione di calcio. Il 6 luglio 2018 il Brasile tornò a casa ai quarti di finale contro il Belgio, alla prima vittoria in gare ufficiali contro la Seleçao. Era un Brasile più che dignitoso, sicuramente superiore moralmente e tecnicamente all’armata Brancaleone che nel Mondiale casalingo del 2014 aveva fatto più strada del dovuto prima di schiantarsi contro la Germania; eppure fu sconfitto lo stesso, soggiogato sul piano della qualità da fuoriclasse come Hazard e De Bruyne, due campioni che quella sera giocavano in rosso e non in giallo, mentre Neymar si limitò a qualche innocuo ninnolo dei suoi e al 93′ si vide chiudere la serranda in faccia da uno splendido volo di Courtois.

Il Mondiale è la competizione più conservatrice del mondo: se il Belgio si dimostra più forte del Brasile al punto di eliminarlo, siamo alle prese con un fatto nuovo e molto rilevante. Denotando un’intelligenza sorprendente soltanto in superficie – i brasiliani sono un popolo estremamente lucido e obiettivo sulle cose che riguardano la loro Nazionale di calcio – non sono stati fatti troppi drammi né processi: il ct Tite è stato confermato, nel 2019 è arrivata una meritata Copa América e la sconfitta del 2021 nel deserto del Maracanã, pur contro l’Argentina, non ha spostato gli umori e l’orizzonte degli eventi: in Qatar ci va come squadra da battere. Lo dicono anche i bookmakers di tutto il mondo, che eleggono il Brasile a favorito numero 1 davanti a Francia e Argentina. È una squadra moderna, lussureggiante come da luoghi comuni sulla vegetazione del Paese, che mai come quest’anno si abbevera alla fonte miracolosa della Premier League: su 26 convocati, il numero dei provenienti dall’Inghilterra arriva in doppia cifra, con l’intero centrocampo – Casemiro, Paquetá, Bruno Guimarães, Fabinho, Fred, Coutinho – pagato in sterline. Nel 2002, ai tempi dell’ultimo Mondiale vinto, non ce n’era nemmeno uno.

In termini di intensità e abitudine ad abbreviare i tempi della giocata è un passaggio mentale decisivo per una scuola cui non ha mai fatto difetto la velocità di pensiero, ma che più di una volta era finita sott’acqua di fronte ai ritmi insostenibili delle corazzate “occidentali”: negli ultimi quattro Mondiali il Brasile è stato mandato a casa da quattro diverse Nazionali europee, Francia Olanda Germania Belgio, e non può essere una coincidenza. La bizzarra collocazione geografica di quest’edizione, inoltre, riduce di molto il peso del fattore campo ma anche la pressione di giocare alle loro latitudini, che rese il Mondiale del 2014 un bagno di stress e sudore insopportabile ancora prima del Mineirazo. Non sappiamo quale sarà l’atmosfera media degli stadi qatarioti, ma sospettiamo che non saranno ribollenti fornaci: tanto meglio per un Brasile mai così cittadino del mondo, con stelle mondiali acclamate e a casa loro in ogni punto del globo, anche nell’anonimo e deprimente Qatar tardo-novembrino.

I punti forti

Non si può che cominciare dai due portieri, due tra gli esponenti del ruolo più moderni che ci siano: a ottobre sia Alisson che Ederson hanno servito un assist in Premier League, mandando in porta rispettivamente Salah e Haaland. Ad ogni modo, a meno che la Fifa non s’inventi altre modifiche regolamentari, ne giocherà soltanto uno. La coppia centrale difensiva è tutto ciò che serve per vincere un Mondiale: Thiago Silva e Marquinhos si conoscono come le proprie tasche, si completano anche tecnicamente e sanno essere molto pericolosi anche nell’area avversaria, il che non guasta affatto nelle partite decisive dei Mondiali, quando un calcio piazzato ben battuto fa spesso la differenza. Il vecchio Thiago, 38 anni compiuti a settembre, manda ogni tanto umanissimi segni di cedimento: eppure a Salisburgo, nella partita che è valsa al Chelsea la qualificazione agli ottavi di Champions, gli abbiamo visto eseguire una giocata di intelligenza sopraffina, intuendo un secondo prima che il suo portiere Kepa sarebbe uscito a vuoto e arretrando a coprire lo specchio della porta vuota, assorbendo così il colpo di testa, altrimenti a botta sicura, del centravanti austriaco. Tre secondi col pilota automatico che definiscono lo status ormai totemico di questo magnifico difensore che si porta da otto anni la macchia dello sciocco cartellino giallo rimediato ai quarti del Mondiale 2014 contro la Colombia che – per fortuna o purtroppo – gli fece saltare per squalifica il massacro di Belo Horizonte. Tite ride anche per l’abbondanza in attacco, che non ha precedenti negli ultimi 15 anni di Seleção, tanto che dalla lista dei 26 rischiava di star fuori addirittura Rodrygo, miglior attore non protagonista dell’incredibile Champions del Real Madrid: altri tempi, rispetto a quando il Brasile doveva presentarsi al Mondiale di casa con paracarri come Fred, Jo e Hulk, con i risultati che ricordiamo tutti.

Eterno Thiago Silva, che conta 109 presenze dal 2008 in Nazionale, che è un colosso e ancora un punto fermo sia nel club con cui ha da poco vinto una Champions League – il Chelsea – sia, appunto, nei verdeoro. Thiago Silva è indistruttibile: non gioca meno di 30 partite l’anno da 16 anni consecutivi.

Capitolo Neymar: giunto all’ultimo dei suoi tre Mondiali, ha già inviato le partecipazioni per il mega-festone celebrativo del sorpasso a Pelé come massimo artilheiro della Seleçao (al momento O Rey è avanti 77 a 75, ma O Ney progetta di agganciarlo già nella fase a gironi), in un torneo organizzato dagli stessi datori di lavoro che da sei anni pagano lo stipendio a lui, da sei anni a Mbappé, da due anni a Messi. A dodici anni dalla discutibile (eufemismo) assegnazione, ormai il piano del Qatar Investment Authority è abbastanza scoperto: possedere i tre giocattoli più costosi e invidiati del pianeta e farli sfidare nel giardino di casa nell’autunno del 2022. Tuttavia, i ben informati sanno che la vera forza del Brasile è sull’esterno sinistro, dove siamo al cospetto di uno dei calciatori più forti del pianeta. Secondo France Football il brasiliano più forte del mondo è Vinícius Júnior, e più non dimandare: un ragazzo del 2000 capace di fare a pezzi qualunque difesa, giunto al primo Mondiale della carriera in condizioni psico- fisiche smaglianti, in grado anche di rubare la scena agli eroi annunciati Messi e Mbappé.

Varietà anche nel settore prime punte, dove l’abilità nello stretto di Gabriel Jesus, rigenerato dallo splendido Arsenal di Arteta, è il perfetto contraltare alla fisicità di Richarlison, che troveremo in campo quando il Brasile avrà bisogno di alzare la palla (in un Mondiale capita spesso). E occhio a Pedro, super-meteora alla Fiorentina tre anni fa e quest’anno capocannoniere di Libertadores con il Flamengo, laddove però – obiezione ragionevole – sembra un giocatore di pallone persino Gabigol. Ah, un’ultima cosa rivolta soprattutto ai tifosi juventini: vi stupirete di quanto gioca bene Alex Sandro in Nazionale.

I punti deboli

Anche se è in calendario nel Golfo Persico in autunno, il Mondiale è la competizione calcistica più solenne e tradizionale che ci sia, l’unica per cui valga davvero la pena di scomodare i precedenti e la Storia, su su fino al Maracanaço del 1950. E perciò non si può sorvolare sul fatto che da almeno mezzo secolo il Brasile soffra la benevolenza dei pronostici. Una Seleção favorita non vince dal 1970: nel 2002 partiva nettamente a fari spenti, ancor di più dopo l’infortunio dell’essenziale Emerson a centrocampo, e anche nel 1994 i riflettori erano puntati su Italia e Germania, o al massimo sull’Argentina di Maradona. Scendendo a questioni più prosaiche, in Brasile storcono il naso di fronte a una coppia di centrocampo troppo muscolare composta da Casemiro e da un altro che non è ancora stato individuato (Fabinho? Fred?), scelta forse necessaria per sostenere tutto il talento poco incline al sacrificio che si trova dalla trequarti in su.

Ma in molti gradirebbero il leggiadro Paquetá, schierato tra i due in mezzo nelle morbide amichevoli di settembre contro Ghana e Tunisia, che in fase offensiva salirebbe sulla trequarti e trasformerebbe il 4-2-3-1 di partenza in un 3-2-4-1 con il duttile Danilo, fedelissimo di Tite, a spostarsi dalla fascia destra fino a centrocampo. A questo punto lasciateci ricordare l’essenzialità di Casemiro, anche ora che ha deciso di abbandonare il Real Madrid per basse e comprensibili ragioni di portafoglio: con la camiseta blanca ha vinto 10 delle 11 finali internazionali giocate, e nell’unica che ha perso (la Supercoppa Europea del 2018 contro l’Atlético Madrid), uscì al 76′ quando il Real Madrid vinceva 2-1. Senza di lui finì 4-2 per l’Atlético. E chi era squalificato a centrocampo il giorno di Belgio-Brasile 2-1, Kazan Arena, 6 luglio 2018, quarti di finale del Mondiale di Russia? Esatto.

Quando Felipe Scolari arrivò sulla panchina del Brasile, nel 2001, il momento era complicatissimo: prima di lui si erano alternati tre ct in meno di tre anni, e la Seleçao stava rischiando di non qualificarsi ai Mondiali 2002. Strappato il pass per Giappone e Corea, Felipão – suo storico nickname – rivoltò completamente la squadra: difesa a tre, Cafu e Roberto Carlos esterni a tutta fascia e tridente Ronaldinho-Rivaldo-Ronaldo. Il titolo arrivò quasi in scioltezza, e quindi la Federazione pensò di richiamarlo per il Mondiale casalingo del 2014. Non c’è bisogno di ricordare come andò a finire.

Il girone

Curiosamente identico per tre quarti a quello di Russia 2018, con Serbia e Svizzera che stanno già affilando gli artigli per la rivincita dopo il turbolento precedente di Kaliningrad – ricordate? La Svizzera che vince in rimonta al 90′, Shaqiri che esulta in faccia ai serbi mimando con le mani l’aquila albanese, eccetera. Nessuno meglio di noi italiani per ammonire gli altri a non sottovalutare la Svizzera, mentre che i serbi siano la variabile impazzita è niente più che un’ovvietà: l’ultima volta che hanno superato un girone si chiamavano ancora Jugoslavia, e sui delta balcanici tra potenzialità e resa pratica si potrebbero scrivere biblioteche.

Il quarto incomodo è il Camerun, da non prendere sottogamba: nel playoff i Leoni Indomabili hanno eliminato l’Algeria campione d’Africa in circostanze rocambolesche, con un gol di Toko Ekambi al minuto 124 della partita di ritorno. Ad ogni modo, non sembrano alle viste terremoti che impediranno alla Seleção di vincere il suo girone, come fa in ogni santo Mondiale dal 1982; poi agli ottavi pescherà probabilmente Portogallo o Uruguay, e lì l’asticella si alzerà sensibilmente.

È il primo Mondiale di Vinícius Júnior, nonostante ci sembri strano. In Nazionale ancora non è esploso, ma il talento che sta esprimendo quest’anno non l’aveva finora mai tirato fuori: nel 2022/23 è già in doppia cifra tra Liga, Champions League e Copa del Rey.

Nota a margine

I fortunati presenti a Manchester United-Sheriff Tiraspol dello scorso 27 ottobre hanno potuto essere testimoni della Antony Spin, una giocata un po’ circense del tutto non necessaria in cui il talentuoso esterno del Man Utd ha ruotato su se stesso per due volte, per un totale di 720 gradi, prima di sbagliare il successivo passaggio in profondità per Casemiro. Antony, e non solo lui (Neymar non è certo nato oggi) è il simbolo di una generazione ancora più video-ludica delle precedenti, ben rappresentata in un recentissimo commercial della Pepsi girato a Marrakech in cui sembra che il sale del calcio sia il tunnel: uno spot che strizza l’occhio agli anni Novanta, con Fat Boy Slim in sottofondo e tutto quel florilegio di trick lanciato per primo dalla Nike nel 1995 – anzi, se avete tra i 30 e i 40 anni certamente vi sarà tornato in mente il meraviglioso spot del Brasile all’aeroporto, prima di Francia ’98, senza mostri, senza alieni, senza gabbie o altri elementi architettonici post-apocalittici, soltanto un pallone come strumento per cacciare la noia.

La Antony Spin è come la trap o TikTok, non siamo noi il target di riferimento: se mai dovesse ripeterla al Mondiale – come fece per esempio il messicano Blanco in un altrimenti dimenticabilissimo Messico-Corea del Sud 1998, per tacere del gioco di gambe di Denílson sempre nel 1998 contro l’Olanda – quel numero verrebbe amplificato per un milione di volte. Si tratta di un gesto che potrà legittimamente irritarvi, ma in quel momento pensate che per milioni di altre persone è causa di ilarità, sorpresa, divertimento, persino gioia. È luogo comune associare al calcio la parola “spettacolo”, dimenticando che una partita di 90 minuti è spesso fatta di attese beckettiane, quando non proprio noia, e questa sua componente molto novecentesca – dicono – sta alienando le simpatie dei giovanissimi: ma allora, se lo spettacolo arriva davvero, che problema c’è?

Da Undici n°47