Il Mondiale con il bavaglio ai social

Nuove piattaforme, nuovi modi di raccontare il calcio e tutto quello che vi ruota intorno. Ma tutto questo come convive con le radici culturali e la politica del Qatar?

Il Mondiale in Qatar è il primo nella storia in cui le cose succedono tre volte: una in campo, una attorno al campo e una sui social media. È il primo Mondiale nella storia in cui la disintermediazione che ha cambiato il racconto di tutti gli altri aspetti della nostra vita – società, cultura, politica – toccherà finalmente anche lo sport. In Qatar stiamo vedendo cosa succede quando il discorso su una Coppa del mondo smette di essere condotto dalle istituzioni nazionali e dai giornalisti accreditati, come è sempre stato dal 1930 a oggi. Stiamo vedendo che cosa si può scoprire di un Paese ospitante al di là dei goffi servizi giornalistici che somigliano agli spot di una Pro loco e le foto ricordo dei calciatori in gita turistica tra una partita e l’altra. La cronaca, la storia, il mondo, d’altronde, in questi anni hanno cambiato forma e hanno assunto quella rettangolare dello schermo di uno smartphone: era inevitabile che la trasformazione prima o poi avvenisse anche per la cronaca, la storia e il mondo del pallone.

Certo, i social esistevano già nell’edizione sudafricana, in quella brasiliana e in quella russa del Mondiale. Ma nel 2010 e nel 2014 erano ancora giocattoli, dovevano ancora dimostrarsi dei media veri e propri, non si erano ancora rivelati come armi. Nel 2018 la consapevolezza era già un’altra – alla presidenza degli Stati Uniti era stato eletto Trump, l’Unione Europea era diminuita di un Paese a causa del referendum sulla Brexit, e in entrambi i casi i social avevano svolto un ruolo fondamentale e deteriore – ma il Mondiale si teneva in Russia: se c’è una cosa che abbiamo capito in questi mesi è che la cronaca, la storia, il mondo russo li decide Putin. In più – e questo fa capire anche come l’accelerazione dei tempi renda ormai obsoleta la divisione degli stessi in decenni, un tic novecentesco di cui prima o poi dovremo liberarci – quattro anni fa non esisteva TikTok. La Francia vinceva la Coppa il 15 luglio del 2018, battendo 4-2 la Croazia allo Stadio Spartak di Mosca. Il 2 agosto ByteDance decideva di cambiare il nome della app precedentemente nota come musical.ly in TikTok. Quattro anni dopo, una delle questioni – se non la questione – che assilla gli addetti ai lavori del pallone è come convincere la Generazione Z a guardare la partita invece che scrollare il feed. O, più realisticamente, come far finire la partita dentro il feed.

Tra le moltissime cose, i social sono anche e soprattutto raccoglitori di contraddizioni tenute assieme dalla logica inconoscibile (e talvolta essa stessa contraddittoria) dell’algoritmo. È per questo che si prestano così perfettamente al racconto del Mondiale in Qatar, probabilmente il più contraddittorio nella storia della competizione. Contraddittorio non solo perché si tratta dell’ennesima operazione di sportswashing tentata da un regime autoritario: un Mondiale si è fatto anche nella Russia di Putin e nell’Argentina della giunta militare. Il Mondiale in Qatar porta con sé una serie di contraddizioni etiche ed estetiche, per così dire, che si prestano perfettamente al racconto caotico e isterico, imprevedibile e incomprensibile dei social. Il Mondiale che si tiene all’inizio dell’inverno invece che nel mezzo dell’estate; il Mondiale dei prati verdi tenuti artificialmente freschi e ombreggiati in mezzo al deserto riarso; il Mondiale sul quale tutti sembrano avere un’opinione – spesso forte e negativa – tranne i cittadini del Qatar.

In questo sta, forse, il più grande cortocircuito: è il primo a tenersi in un Paese privo di qualsiasi tradizione, passione, storia calcistica, in una sorta di immenso polo fieristico costruito, arredato e inaugurato appositamente per l’occasione. Si dirà degli Stati Uniti, della Corea del Sud, del Giappone: ma almeno in questi Paesi eravamo certi ci fosse qualcuno, ancorché pochi, che a pallone ci giocasse, che il pallone lo seguisse. Possiamo dire la stessa cosa per il Qatar? Ed è per questo che il racconto di questo Mondiale sta avvenendo, forzatamente, oltre il controllo e i confini e le forze del Paese ospitante: perché dove non c’è storia calcistica non esiste nemmeno racconto calcistico. Certo ci sono i giornalisti, che sono venuti da tutto il mondo e parlano, scrivono in tutte le lingue del mondo di quello che succede in Qatar. Ma il racconto giornalistico è costretto dalla forma e, soprattutto, dal tempo: è difficile raccontare un Paese sconosciuto quando ci sono decine di partite da commentare in un mese appena.

La mascotte di Qatar 2022 si chiama La’eeb, ed è difficile da descrivere. La Fifa dice che ognuno può interpretare la sua forma come vuole, ma sembra somigliare molto a una kefiah, il tipico copricapo arabo. Il significato della parola, invece, è qualcosa di simile a: giocatore fortissimo ed esperto.

I social, questa volta come mai prima, fanno da meccanismo di compensazione: è lì che troveremo tutto ciò che non è adatto alla propaganda nazionale, tutto quello che viene tagliato dal racconto giornalistico per motivi di spazio, tempo, opportunità. Negli infiniti e caotici rivoli narrativi che i social contengono, stiamo trovando probabilmente le immagini simbolo, i video icona, cronache fatte da reporter involontari e inconsapevoli che magari volevano solo postare una bella foto, registrare un balletto buffo.

La monarchia qatariota – alla quale tutto si può rimproverare tranne che una scarsa consapevolezza di sé – tutto questo lo ha capito da tempo e si è mossa come ci si aspetta da essa: pagando. La commissione che si occupa dell’organizzazione del Mondiale ha pubblicamente ammesso di aver stretto accordi con 400 influencer e creator provenienti da 60 Paesi, un vero e proprio organo di propaganda al quale è stato dato il romanzesco nome di Fan Leaders Network. L’accordo prevede che gli influencer e i creator rispettino il “codice di condotta per i social media” redatto dalla stessa commissione e che attraverso i loro profili realizzino una “copertura positiva” del torneo. In cambio, viaggio in business class sia all’andata che al ritorno, vitto e alloggio a cinque stelle pagati per tutta la durata del Mondiale. «Un gesto per ringraziarli della loro collaborazione», ha spiegato il portavoce della commissione che ha organizzato il Mondiale più contraddittorio di sempre.

Da Undici n°47