Contro la retorica sul calcio sudamericano

Perché Messi, l'Argentina e le altre Nazionali del subcontinente vengono raccontate ancora con gli stessi termini di cinque o sei decenni fa?

Dalle prime 56 partite della Coppa del Mondo 2022 ho ricavato una sola e unica certezza: è urgente l’opera di deromanticizzazione del calcio sudamericano. Sinceramente non ho idea di come questa opera vada condotta, con quali strumenti e modalità si possa compiere. Magari si potrebbe cominciare con un repulisti linguistico: sarebbe bello – auspicabile, persino – se Rai Sport inviasse una circolare interna ai suoi telecronisti in Qatar avvisandoli del fatto che rinnovate politiche aziendali vietano tassativamente l’uso di parole quali carrajo, mate, garra, Marcelo e Bielsa. La lista è volutamente non esaustiva anche perché è impossibile stilare una lista esaustiva delle parole spagnole rioplatensi che oggi infiltrano la lingua delle telecronache italiane, questo goffo e brutto creolo fatto di s finali tagliate male e di doppie L pronunciate “sh” con la naturalezza di chi ha appena completato la sua prima lezione – quella gratuita – su Babbel.

Tuttavia, correggere il linguaggio potrebbe non essere sufficiente a raggiungere lo scopo della deromanticizzazione: se è vero che le parole sono solo i simboli delle passioni, cioè artifici convenzionali e arbitrari, allora il problema sta in realtà nelle passioni. E quelle non basta una circolare interna all’azienda radiotelevisiva italiana per correggerle. È necessaria una correzione a quanto precedentemente affermato: parlare di calcio sudamericano e di deromanticizzazione dello stesso non è esatto. Innanzitutto perché non è mai corretto parlare dei continenti come fossero blocchi: i continenti contengono moltitudini, storiche e sociali, culturali e calcistiche. Poi perché il problema della romanticizzazione non riguarda il calcio di tutte le nazioni sudamericane alla stessa maniera. Ovviamente il problema – perché di questo si tratta – si manifesta in ogni caso, dal Costa Rica all’Argentina, dall’Ecuador al Brasile. Ma non con la stessa frequenza e, soprattutto, intensità. Per motivi di circostanza, si capisce. Persino chi passa notti insonni pur di seguire in diretta il derby di Tegucigalpa avrà avuto difficoltà a scaldare il cuore col calore delle prestazioni di Costa Rica ed Ecuador. Persino per chi coltiva la convinzione che nel calcio «l’ultima parola è sempre degli uruguagi, sempre loro, sempre loro» è impossibile sentirsi romantico guardando l’Uruguay triste, solitario y final che è stato eliminato in Qatar (altra proposta urgente e necessaria: vietare citazioni da Osvaldo Soriano, Roberto Bolaño, Eduardo Galeano, etc. in tutti i contributi, scritti o parlati, audio e/o video, che trattano di calcio sudamericano).

Persino chi ha ereditato dal padre – certe volte pure dal nonno – il mito del calcio bailado brasiliano ha difficoltà a romanticizzare questo Brasile (e forse è questa la ragione per la quale il Brasile vincerà il Mondiale: perché è la prima versione di sé, dal 2002 a oggi, libera dall’ingombro del suo stesso mito). D’altronde, è difficile sentirsi romantici pensando a Neymar, uno che nella sua prima conferenza stampa parigina disse di aver scelto il Psg su suggerimento di Dio, da buon timorato cristiano ed elettore bolsonariano.

Onestamente, devo ammettere che il problema della romanticizzazione del calcio sudamericano in questa edizione della Coppa del Mondo riguarda una squadra, una soprattutto, una soltanto: l’Argentina. E quindi Leo Messi. Dopo il gol segnato da Messi nella partita contro il Messico, per la prima volta nella mia vita ho pensato che se mai dovessi incontrarlo la prima cosa che farei sarebbe chiedergli scusa. Scuse personali e collettive, scuse per rimediare almeno in parte a un torto che continuiamo a fargli dall’inizio della sua carriera: quello di costringerlo a essere un calciatore sudamericano, argentino, un numero 10 nella nazionale del numero 10. Scuse per rimediare almeno in parte al torto di volerlo inserire in questa mitologia esotica ed esotizzante – quindi estremamente europea ed eurocentrica – del cosiddetto fútbol. Una mitologia della quale Messi non potrà mai davvero essere parte, perché le circostanze e i trascorsi e il carattere lo hanno portato a essere altro e a esserlo altrove.

Allo stesso tempo, però, Messi questa mitologia non la può rifiutare, perché gli è stata concessa in sorte e imposta da noialtri. La storia di Messi è una storia di globalizzazione, eppure chi la racconta non riesce a resistere allo sforzo di farne una questione locale, persino di strada, addirittura di quartiere: Messi deve venire da Rosario, la sua leggenda deve iniziare in quel cortile o in quella viuzza della «città del calcio», deve finire con il suo volto immortalato sui muri dei palazzi e scolpito nelle statue al centro delle piazze rosarine. Che Messi, questo, lo voglia o no. E sono convinto che tutte le sue fatiche con la maglia della Nazionale siano riconducibili a questo: alla fatica ultima di dover essere il protagonista del mito altrui, un po’ come la Marilyn Monroe romanzata da Joyce Carol Oates in Blonde e riportata al cinema da Andrew Dominik nel film omonimo. Triste, solitaria y final.

Dal trionfo in Coppa America (2011) a oggi, l’Uruguay non è mai andato oltre i quarti di finale, sia ai Mondiali che nel torneo continentale sudamericano (Ryan Pierse/Getty Images)

Non so esattamente perché succeda. Perché succeda ancora. Perché succeda sempre di più e più spesso. Non capisco perché abbiamo – noi europei e in particolare noi italiani, perché so che gli argentini e i sudamericani il loro calcio non lo raccontano in questa maniera, anzi, cercano di affrancarlo da una certa retorica – ancora, sempre di più e sempre più spesso il desiderio di ridurre il calcio di una nazione intera e di un continente tutto a questi miti polverosi che col passare degli anni si sono fatti imbarazzanti. Mi imbarazza la consapevolezza di avere nella testa un’immagine del calcio argentino, brasiliano, uruguaiano, cileno che è la stessa identica immagine nella testa di mio padre, classe 1950: periferie selvatiche, calcinacci per le strade, polvere nell’aria, murales scrostati sui fianchi dei palazzoni, bambini allo stato semi-brado che rincorrono i loro palloni di fortuna. So che non è così, eppure nemmeno la conoscenza della verità mi aiuta a cancellare quest’immagine fuorviante e banalizzante delle cose. E anzi, negli ultimi anni il racconto e la lingua del calcio non hanno fatto altro che ricolorarla, ridefinirla, questa immagine. Non so nemmeno di chi sia la colpa della pervicacia di questi miti, chi possa essere accusato di averli fatti arrivare fino a me.

Certe volte penso che la colpa sia tutta di Federico Buffa, che nel suo tentativo di evangelizzazione non ha tenuto in conto i rischi del fanatismo che ne sarebbe venuto. Altre volte sono convinto che la colpa non sia di Buffa ma dei suoi epigoni, narratori minori ai quali non è mai stata chiara la differenza tra romantico e melenso, tra epico e magniloquente. Altre volte ancora me la prendo con la letteratura ispano-americana, con il giornalismo sportivo europeo, con la funzione cognitiva del linguaggio che impone alle cose la forma del loro racconto. Sta di fatto che non riesco a spiegarmi perché, in un momento della storia del calcio in cui faticosamente ma finalmente si cominciano a smontare miti equivalenti sul calcio “africane” e quello “asiatiche” (anche se in questi casi le prestazioni di Giappone e Marocco rischiano di farci fare passi indietro, almeno dal punto di vista del racconto: dopo l’eliminazione del Giappone la parola che ho sentito pronunciare di più è stata “harakiri”, dopo la vittoria del Marocco è stata “Cenerentola”, talvolta anche nella variante “Cenerentola musulmana”, che immagino sia però Jasmine di Aladdin?), quello sul calcio “sudamericano” resista ancora e sempre. Alla fine, so solo una cosa: spero che la Coppa del Mondo la vinca il Brasile. E spero che Pelé viva ancora cent’anni: non credo sopravviverei al racconto di una Seleção che vince il suo sesto mondiale proprio nei giorni in cui perde il suo Rey.