Il calcio ha un problema con la cultura dello stupro

L'impunità sportiva e morale che circonda gli atleti accusati di stupro è un problema grave: la NBA ha mostrato una strada per risolverla.

Natale è quel periodo dell’anno in cui il presidente dell’AC Monza, Silvio Berlusconi, tiene un discorso motivazionale durante la cena di società e promette ai suoi calciatori che, se batteranno le grandi squadre della Serie A, in premio otterranno un bel pullman carico di “sex workers”. Il problema qui non è solo il contenuto del messaggio di Berlusconi – scagli la prima pietra chi si è davvero stupito di fronte alla sua ennesima perla sessista – ma il fatto che a quella sparata non sia seguito un silenzio imbarazzato: anzi, grandi risate da parte dei presenti. Le persone che hanno riso a quella battuta sono tanto responsabili quanto lui, e il video che è girato su Twitter ci ha dato la possibilità, per una volta, di entrare nelle stanze dei bottoni di una delle società calcistiche di Serie A. Ci ha sbattuto in faccia qualcosa che già  avevamo subodorato, e cioè che il sessismo, in certi posti, è normalizzato. Ciò che abbiamo visto in sostanza è il grado zero di quella che siamo soliti chiamare cultura dello stupro (rape culture) nel mondo del calcio.

Il siparietto di Berlusconi, tra l’altro, arriva poco dopo l’ennesimo caso di violenza sessuale avvenuto dentro il mondo del calcio. Il 7 dicembre fa un calciatore del Genoa, Manolo Portanova, è stato condannato in primo grado a sei anni per stupro di gruppo ai danni di una studentessa dell’Università di Siena. La primavera dell’anno scorso, durante una festa, Portanova si è appartato in una stanza con la ragazza, poi ha lasciato che a loro si unissero altri tre uomini, familiari e conoscenti del giocatore, affinché tutti potessero avere un rapporto non consensuale con lei. Alla condanna però non è seguita la sospensione da parte del Genoa, la sua società, che lo ha inserito nella lista dei convocati per la partita contro il Sudtirol. Come se espellere dalla rosa un giocatore che ha compiuto un reato non fosse l’unica cosa logica da fare in questo caso.

Le istituzioni sportive non sono nuove a questo tipo di consuetudine, e lo testimonia il fatto che Alexander Zverev sia ancora in campo nonostante le dichiarazioni della sua ex compagna Olya Sharypova, secondo cui il tennista avrebbe condotto con lei un rapporto violento e abusante fino al punto da cercare di strangolarla in una stanza d’albergo durante uno US Open.  Visto che Sharypova non è la sola, ma che anche Brenda Patea – altra ex compagna con cui Zverev ha avuto un figlio – non vuole più avere niente a che fare con lui, né si è resa disponibile a una custodia condivisa del bambino, forse una sospensione disciplinare poteva essere presa in considerazione dall’ATP. Insomma: non è raro che, di fronte a questo tipo di accuse, il mondo dello sport metta in atto un meccanismo di protezione nei confronti di atleti con grande visibilità, una specie di immunità sportiva che, indirettamente, pone le basi affinché i fatti si ripetano all’infinito.

Andare alla radice di questi comportamenti e capire perché, per esempio, il mondo dello sport fatto da maschi sia un incubatore di violenza nei confronti delle donne non è affatto semplice. E le variabili sono tante quante sono le persone implicate in queste storie. Però alcuni elementi ricorrenti in questa narrazione ci sono: si parla di smania di potere di questi uomini che non sono capaci di sopportare un no in generale, figuriamoci da parte di una donna. Poi ci sono i soldi, le feste, l’alcol e il potere mediatico. Spesso, infatti, da un lato troviamo una donna di cui a malapena ci ricordiamo il nome; dall’altro, sul del bancone degli imputati abbiamo Ronaldo, Neymar Jr., Kobe Bryant, Benjamin Mendy, Alex Zverev. Abbiamo quindi dei personaggi che sono centrali per lo sport contemporaneo, e di cui il pubblico fa fatica ad accettare anche la fallibilità. Figuriamoci i crimini. In sostanza, finché lo spettacolo dentro al campo va avanti, non c’è motivo di dubitare di loro come uomini. In fondo sono soprattutto atleti, no?

Sembra però molto più semplice restare a questo livello di superficialità: andare a fondo potrebbe farci incorrere nel rischio di scoprire che un atleta, quando forza una donna a un rapporto non consensuale, interpreta delle consuetudini che paiono essere strutturali in alcuni contesti come lo sport d’élite. Da questo punto di vista è significativa una dichiarazione di Benjamin Mendy: durante il processo in atto per accertare i suoi otto capi di accusa per stupro, il calciatore francese ha dichiarato che l’abitudine di uscire con i suoi compagni di squadra con lo scopo di divertirsi e avere rapporti – anche con più donne e in luoghi diversi durante una sola notte – risale ai tempi in cui era giovanissimo e faceva parte dell’Academy del Le Havre. Quindi ben prima che iniziasse la sua carriera da professionista. Nel 2017, però, le cose sono cambiate – peggiorate – in maniera definitiva: il suo passaggio dal club francese del Monaco al Manchester City gli ha messo a disposizione una visibilità e un prestigio che non aveva mai avuto prima, al punto che il volume delle donne che ha iniziato a contattarlo sui social è aumentato di dieci volte, e di conseguenza anche il bacino di scelta, e la frequenza dei rapporti.

Mendy infatti non fa segreto di avere perso il controllo sul suo rapporto con il sesso. Negli ultimi  tempi la fama e le possibilità erano cresciute e infatti lui si era fatto prendere un po’ la mano. Dalle sue dichiarazioni si evince che non c’è mai stato in lui un momento di riflessione finalizzato a capire cosa fosse un rapporto consensuale, e quindi cosa non lo fosse. Il sesso era sempre stato lì, come il cielo e come il mare; una cosa divertente e svagante e persino facile da prendersi, con tutti i mezzi a sua disposizione. Mi domando allora se non sia il caso di riflettere anche sul potenziale nocivo delle immense possibilità economiche e relazionali a disposizione di questi atleti fin dalla giovanissima età, una condizione pericolosissima se unita a una spiccata ignoranza su tematiche come il consenso.

Il 10 agosto 2022 è iniziato il processo contro Mendy, accusato di otto stupri e un tentato stupro. Il 13 settembre 2022 è stato dichiarato non colpevole per una delle accuse di stupro (Oli Scarff/Gettty Images)

È dal 1986 che la NBA ha ideato un programma noto come Rookie transition Program, una sorta di corso obbligatorio per ogni giocatore matricola del campionato di basket americano finalizzato a mettere gli atleti in condizione di gestire la nuova esperienza sportiva dentro e fuori dal campo. Ed è proprio la parola transizione che sintetizza il passaggio da una vita di prima ad una vita nuova, dove il denaro, la visibilità mediatica, i pericoli e le responsabilità si moltiplicano notevolmente. Di fatto ogni giocatore è un rappresentante della sua franchigia e, in seconda battuta, di tutta la lega di basket americano. E a certi livelli l’esposizione di un atleta non può essere fatta gestire solamente a lui, alla sua indole. La gestione consapevole del denaro, della visibilità mediatica e del potere che ti dà alla testa non è un talento di cui tutti e tutte sono dotati per nascita, e quel che cerca di fare questo programma, fra le altre cose, è insegnare a essere pronti a qualsiasi evenienza. Quel che fa la NBA è riempire di fama e soldi i suoi atleti, e fin qui niente di diverso dal mondo del calcio d’élite. Ma con l’aggiunta di uno strumento necessario: il sapere – che, come insegna Bacone, è (o può essere) potere.

Fra i tanti aspetti virtuosi del programma, la lega pone dei confini netti fra quel che è lecito e quel che non è lecito fare per vivere un’esperienza quanto più positiva possibile nel campionato di basket più importante del mondo, mettendo in guardia i giocatori da quella sensazione inebriante di essere al di sopra di ogni legge terrena. Una cosa che può andare bene dentro a un campo, ma che al di fuori di esso non può che trasformarsi in un’arma di autodistruzione. Le leggi invece ci sono e vanno rispettate, pena l’esclusione dal gruppo, come testimonia quanto accaduto a Joshua Primo, tagliato dal roster dei San Antonio Spurs a seguito di ripetute molestie sessuali nei confronti della dottoressa Hillary Cauthen, psicologa della franchigia. Questa potrebbe essere una via percorribile, che non funzionerà sempre ma che di sicuro può ridurre il coefficiente d’errore.

Resta che dalle nostre parti c’è un’incapacità di prendere questo toro per le corna. E che in tema di cultura dello stupro le cose stentano a migliorare. Mentre il novero dei nomi che si aggiungono alla lista degli stupratori aumenta, la narrazione mainstream si trincera nella vecchia dicotomia vittima/carnefice senza mai riflettere sul fatto che c’è un vizio di forma nel modo in cui le donne sono considerate negli ambienti dello sport. E se il pubblico non vuole prendersi la responsabilità di condannare certe condotte degli atleti, e se le società invece non lo fanno perché hanno enormi interessi economici in ballo, allora dovrebbe esserci un’istituzione pronta non solo a intervenire a fatto compiuto, cosa che a tutt’oggi non succede comunque, ma che è anche chiamata a prevenirli, certi comportamenti. L’informazione potrebbe essere una delle vie percorribili per iniziare a fare qualcosa: sensibilizzare non in chiave paternalistica, ma esporre da un lato i problemi – il lato oscuro del potere che certi atleti, evidentemente, non sono in grado di gestire, e di cui la sessualità violenta in certi casi è uno degli aspetti – e dall’altro gli strumenti per averci a che fare. 

Il discorsetto di Berlusconi e la follia che Portanova sia stato convocato senza che nessuno si sconcertasse o si opponesse immediatamente, e come per lui in tutti gli altri casi prima, è sintomatico di una sensibilità anestetizzata rispetto alla questione del sessismo nel mondo del calcio. E del fatto che non importa a nessuno di ciò che questi uomini fanno fuori dal campo. Forse dobbiamo anche accettare a malincuore che in certi contesti fare battute becere fa ancora ridere come nel 1992. Del resto il sessismo nel mondo dello sport è cosa diffusa: è diffusa negli articoli che mettono in prima pagina i profili Instagram delle belle mogli dei calciatori; è diffuso negli elogi per le bordocampiste, troppo spesso osannate per i loro outfit e le foto in vacanza e mai per la loro preparazione in tema di conoscenze tecnico-tattiche; è diffuso nei giudizi sulla calciatrice che gioca a un calcio che però calcio, in fondo in fondo, ancora non è. Se così tanta gente nel mondo del calcio crede fermamente che regalare un pullman di donne, come se fossero un Rolex sgargiante dentro a un cofanetto, possa essere una reale motivazione a fare meglio, bisogna ripensare, bisogna resettare e ri-settare un linguaggio, una filosofia, un punto di vista diverso. Sbagliare ai costi di un altro essere umano non è un errore che si può coprire pagando il silenzio con i soldi.