Dibu Martínez è lo spirito selvaggio di cui il calcio ha ancora bisogno

Un trash talker non semplicemente volgare ma machiavellico, è riuscito a irridere il potere dove nessuno se lo sarebbe immaginato.

Quando ho visto che Emiliano Martinez, dopo aver ricevuto il premio come miglior portiere del Mondiale, in diretta su tutto il pianeta, davanti ai due figli e alla moglie, ha avuto l’idea geniale di portarselo tra le gambe a simulare un pene, ho pensato: quest’uomo è un pazzo. Oppure un genio. Oppure tutte e due le cose, che spesso, alla fine, coincidono.

In realtà ci sono anche tutti gli ingredienti della favola, nella storia sportiva di Martínez, detto Dibu: oggi 30enne, era arrivato giovanissimo all’Arsenal, nel 2010, quando aveva soltanto 18 anni, poi si è fatto anni di panchina, e molti di quei continui prestiti che distruggono carriere e mettono tristezza anche solo a leggerli, tipo un rosario, su Wikipedia. Ha dovuto aspettare 2 anni di giovanili, 8 anni di prima squadra e 6 squadre diverse prima di trovare un posto stabile. È arrivato con Arteta, che lo ha schierato titolare nella finale di FA Cup del 2020, contro il Chelsea. L’Arsenal ha vinto, e Martínez ha fatto un paio di parate decisive nel primo tempo. Alla cerimonia piangeva, e ha pianto anche mentre veniva intervistato.

Dieci anni sono passati da quando è arrivato a Londra dall’Independiente, dieci anni senza mai vedere la Premier League ma solo la Championship e la League Two e nemmeno quelle da titolare, dieci anni in cui ha avuto tutto il tempo di guardarsi intorno a rendersi conto, anche se magari senza arrendersi, che la carriera che sognava in Argentina non si è mai realizzata e non si realizzerà mai. Da bambino Emiliano aveva i capelli lunghi e rossi e le lentiggini, e forse era già un po’ pazzo, per questo lo chiamavano Dibu, come il ragazzino scalmanato protagonista della telenovela a tecnica mista (un po’ girato, un po’ cartone, tipo Pomi d’ottone e manici di scopa) Mi familia es un dibujo, degli anni Novanta.

Nonostante i pregiudizi, per così dire, sui ragazzini dai capelli rossi – generalmente timidi, o bullizzati – il Martínez che finalmente gioca titolare all’Arsenal a 28 anni si è trasformato in un gigante apparentemente fuori di testa, a tratti profondamente emozionale, come si vede dalle lacrime di Wembley, a tratti cattivissimo, che nel giro di pochi mesi fa vedere a tutti – in Inghilterra, poi in Sud America, poi nel palcoscenico più importante, quello del Mondiale – di cosa parliamo quando parliamo di portieri pazzi.

Video emozionale ma da guardare per capire che personalità ha Martínez, alla sua prima stagione da protagonista dopo dieci da riserva

Questo ritornello della pazzia del portiere non è un vezzo recente, né un cliché, ma un mito che ha origini lontanissime. Ne scriveva, qualche anno fa, Jonathan Wilson nel suo libro The Outsider, una storia antropologica del ruolo del portiere. Qui leggiamo, per esempio, la teoria per cui uno dei moltissimi antenati del calcio fosse un rito praticato dai nativi dell’attuale America del Nord, che consisteva in una processione in cui ci si passavano delle sfere rappresentanti il sole e la luna, che andavano collocate infine in alberi concavi o buchi nel terreno, allo scopo di propiziare il raccolto. La figura del portiere sarebbe quindi un’evoluzione molto moderna dell’unico protagonista che poteva impedire che le sfere terminassero il loro percorso nel loro “goal”: una divinità maligna, uno spirito malvagio, il diavolo o chi per lui. Razionalizzando al massimo le regole del gioco del calcio, d’altra parte, il portiere non è altro che colui che vuole impedire che si compia tutta la fatica per cui una squadra, una Federazione, una Nazione hanno lavorato per anni. È un sabotatore, è un distruttore. La nemesi del gioco all’interno del gioco stesso.

L’Argentina è una terra storicamente avara di grandi portieri, e Lionel Scaloni ha chiamato El Dibu appena con l’Aston Villa – che nel 2020 l’ha comprato dall’Arsenal – si è messo in luce. Un’ottima luce, va detto: nel senso che Martínez non è diventato titolare per un capriccio del Ct o per mancanza di alternative, ma perché a Birmingham, alla sua prima stagione intera da titolare in carriera, ha eguagliato il record di clean sheet del club, stabilito da Brad Friedel nel 2009/10, con 15 partite a porta inviolata. Martínez con l’Albiceleste gioca quindi due partite nelle qualificazioni ai Mondiali, l’Argentina le pareggia entrambe, poi arriva la Copa América del 2021. Quella che doveva giocarsi nel 2020, che doveva stare in Argentina (e Colombia), come ricorderà Messi nel discorso prima della finale diventato un mezzo tormentone: «Questa coppa doveva giocarsi in Argentina, e dio l’ha portata qui, per farcela sollevare al Maracanã». Ma Messi in quel discorso cita anche Dibu. Lo fa perché per giocare la coppa la squadra è stata isolata da tutto e tutti, quindi dalle famiglie, dalle mogli o fidanzate e soprattutto figli e figlie. Dibu è appena diventato padre: la bambina si chiama Ava, ma Martínez non l’ha mai vista, perché è in Brasile a giocare: «Oggi voglio ringraziarvi per questi 45 giorni, un gruppo spettacolare è stato messo insieme. Quarantacinque giorni in cui non ci siamo lamentati del viaggio, del cibo, degli hotel in campo, di niente. Quarantacinque giorni senza vedere la nostra famiglia. Dibu è diventato padre e non ha potuto vedere sua figlia». Il più grande giocatore di sempre che cita Dibu, tra tutti. È strano, per uno che è nel giro della Nazionale da qualche settimana appena, eppure il legame tra il portiere e Messi è da subito stretto, nonostante due caratteri apparentemente agli antipodi. Durante il torneo, Dibu dice: «Voglio vincere la coppa prima di tutto per Messi». Messi, a sua volta, dirà: «Martínez è un fenomeno».

L’inizio della nuova Argentina, targata Messi-Dibu, per certi versi

Messi quella frase la dice dopo la semifinale contro la Colombia, la partita che per certi versi anticipa molto del Martínez che abbiamo visto poi in Qatar. I primi 120 minuti finiscono 1-1, si va ai rigori. Vincerà ovviamente l’Argentina, e Dibu ne parerà tre. È nel come, però, che troviamo la chiave del mito di Dibu che sta, in quel momento, per sbocciare. Svoglimento: dopo il gol iniziale di Cuadrado, va sul dischetto Davinson Sánchez. «Lo siento, pero te como hermano», mi dispiace ma ti mangio, dice Dibu. Il trash talk si sente bene da Youtube, si sentiva bene in tv, perché non ci sono spettatori allo stadio – sono ancora le partite dell’era Covid. Sánchez tira basso, Dibu intuisce e addirittura blocca. Poi arriva Yerry Mina. Dibu gli si avvicina, piano piano indietreggia verso la linea guardandolo dritto in faccia: «Stai ridendo, ma sei nervoso eh? Sei nervoso?», gli dice. Mina sorride, è evidentemente nervoso. «Sei nervoso?», ancora. Poi parla con l’arbitro: «Ehi, la palla non è messa bene. Sta troppo avanti la palla». L’arbitro va a controllare, dice che va bene. Dibu se la prende anche con lui: «Sì, sì, chiudi un occhio». Poi di nuovo a Mina: «Ti conosco eh. Guarda! Guarda che lo so dove tiri. Lo prendo eh. Guarda che ti mangio hermano, mira que te como». È insopportabile anche per uno spettatore. Mina finalmente tira, Dibu para. La telecamera stringe su Mina, che a quel punto sembra in stato confusionale.

«Mira que te como hermano»

In finale contro il Brasile non ci sono i rigori, ma un paio di ottime parate di Martínez, sempre sicuro sui pali, sia per il posizionamento che per il riflesso. Questo è un dettaglio da non sottovalutare nel giudizio complessivo sul portiere, anzi non è nemmeno un dettaglio, ma un elemento fondamentale. Dibu non è solo un pararigori, un loco o un trash-talker, ma è un omaccione di due metri con un atletismo mostruoso. Lo si vede con l’Aston Villa in Premier League: para molto con le mani, per essere così grosso, e cioè affidandosi non così tanto ai piedi – nonostante la spaccata pazzesca in finale. È diventata famosa un’altra strategia di distrazione dal dischetto, in Inghilterra, in una partita del 2021 contro il Manchester United. Si evince, da questo episodio, come il bullismo di Dibu non sia una spacconata fine a sé stessa, ma una strategia ben preparata con una sua crudele intelligenza. Sul dischetto ci sono Bruno Fernandes e Ronaldo, Dibu lo sa che deve tirare il primo, eppure indica Ronaldo e dice: «Ronaldo, vieni a tirare se hai le palle», al che CR7 gli risponde pure: «Tira Fernandes», ma Dibu insiste: «No no no, vieni a tirare, vieni tu». Mentre dice tutto questo sta a meno di un metro da Fernandes, senza considerarlo minimamente. Fernandes sbaglia, tira alto. Dibu si gira verso la curva dello United, fa un balletto tipo molleggiato, tipo le “Spaghetti Legs” di Bruce Grobbelaar nel 1984 contro la Roma. Gode, probabilmente, degli insulti che gli stanno piovendo addosso.

A questo punto è il 2021 ed Emiliano Martínez è in Inghilterra da oltre 10 anni: li capisce bene, tutti quegli insulti. In più di un decennio, nonostante molti calciatori argentini anche passati in Serie A dimostrino il contrario, una lingua la si impara bene, e il Dibu sembra essere particolarmente tagliato per l’inglese, visto che nelle interviste parla con un forte accento londinese, tanto da far nascere dei montaggi in cui pezzi di sue dichiarazioni vengono infilate nella canzone “Parklife” dei Blur. Succede anche dopo Olanda-Argentina, e l’obiettivo è Van Gaal, altro trash talker di classe: prima, mentre sta uscendo dal campo da vincitore, gli urla: «Keep talking shit, you fucking tw4t!». Poi, in un’intervista post-partita, dice: «Van Gaal needs to keep his mouth shut».

Si è parlato poco dei “mind games” di Martínez contro la Francia, ma anche stavolta c’è il campionario completo, ed è geniale e machiavellico. Non sono tecniche irrispettose, perché il calcio non è – grazie al cielo – soltanto atletismo, velocità, assenza di sentimenti o, peggio, ipocrita etichetta. Il calcio è strategia, è intelligenza, è la simulazione e allo stesso tempo l’esorcismo di una guerra. Martínez fa di tutto per vincere, e lo fa sfruttando i confini, spesso elastici, di quello che è lecito o non è lecito fare. In un mondo di Mbappé, star bidimensionale, e fredda, e assetata di potere e successi, Martínez è il gaucho fuorilegge che si arrangia come può, utilizzando l’astuzia prima di tutto.

Quindi, come spiega bene un thread Twitter, si posizione per primo in area per fare gli onori di casa. Quando gli avversari vanno sul dischetto, dà la mano a tutti. A quel punto comincia a contestare il posizionamento del pallone, come aveva già fatto contro la Colombia. Non sta sulla linea di porta, ma si avvicina al tiratore, indica il dischetto, dice che non va bene. L’arbitro gli dice di farsi i fatti suoi, ma lui intanto ha messo pressione a Mbappé, poi a Coman – che infatti sbaglierà. Quanto tocca a Tchouaméni, Dibu si prende la palla. Il francese è già sul dischetto, ma il pallone ce l’ha lui, che intanto incita gli argentini a fare più casino. L’arbitro gli intima di dare il pallone al calciatore, lui lo allontana al limite dell’area. Tchouaméni è costretto ad andare a prenderlo, a riportarlo sul dischetto. Dibu, nel frattempo, ha fatto quello che voleva, ha manovrato sia l’arbitro che l’avversario. Il rigore di Tchouaméni finisce, inevitabilmente, fuori.

Torniamo all’inizio, all’immagine che rimarrà probabilmente la più famosa, nella storia, del Dibu Martínez: lui con il Guanto d’oro sull’inguine, la faccia spiritata, gli occhi all’indietro. In una delle cerimonie più cupe della storia dei Mondiali, al termine di una delle edizioni più drammatiche – in una monarchia assoluta, dopo migliaia di migranti morti per costruire gli stadi, in mezzo a insabbiamenti e corruzioni – Dibu ha in quel momento rappresentato lo spirito sacrilego che si prende gioco dell’autorità, dell’etichetta, di quel mantello nero che di lì a poco verrà posato sulle spalle di Lionel Messi per coprire i colori argentini in un arrogante sfoggio di potere (sì, la conosciamo la storia del bisht, ma siamo troppo poco ingenui per pensare che lo sceicco fosse soltanto gentile). È perfetta, nella foto, anche la posizione dell’ombroso chierico che lo osserva: Dibu è l’incubo degli sceicchi, che lo odieranno per l’eternità. Ma dimostra che c’è sempre una speranza per l’anarchia di sfuggire all’etichetta, al controllo panottico del monarca.