Perché le grandi Nazionali non assumono ct stranieri?

È arrivato il momento di cancellare una tradizione diventata ormai anacronistica.

Qualche giorno fa, Gareth Southgate è stato confermato sulla panchina della Nazionale inglese. In fondo, devono aver pensato i dirigenti federali, raggiungere una semifinale ai Mondiali, una finale agli Europei e un quarto di finale ai Mondiali non è poi così male. Allo stesso modo, però, c’è da dire che Southgate aveva a disposizione una delle generazioni di atleti più talentuose e anche più complete nella storia calcistica dell’Inghilterra, eppure non è riuscito a vincere nulla; inoltre la grande ventata di freschezza che aveva generato all’inizio del suo mandato si è progressivamente affievolita, e così da diverso tempo l’Inghilterra pratica un gioco non proprio frizzante, non più modernissimo. Insomma, pensare a un suo esonero non sarebbe stata un’esagerazione. Anche per una questione di cicli e ciclicità del calcio ad altissimi livelli: Southgate è stato nominato commissario tecnico all’indomani dell’Allardyce-gate, nell’autunno 2016. E allora l’ipotesi di dare nuovi stimoli ai calciatori e all’ambiente, di farlo dopo sei anni pieni, doveva essere quantomeno contemplata, quantomeno valutata.

Sulle valutazioni della Football Associations, però, deve aver pesato anche un altro aspetto: se non confermiamo Soutghate, chi possiamo prendere per sostituirlo? Nel nostro bacino di allenatori ce n’è uno più bravo di lui, o almeno bravo quanto lui? Basta lanciare un paio di ricerche mirate su Transfermarkt e in rete per rendersi conto che no, forse il calcio inglese non offriva molte alternative all’attuale commissario tecnico: in Premier League ci sono solo otto allenatori britannici su venti, per altro i più bravi e/o promettenti – Potter, Howe, Lampard – sono all’inizio del loro progetto nei rispettivi club; Brendan Rodgers avrebbe potuto rappresentare una buona soluzione, ma le ultime edizioni del suo Leicester non è che siano così brillanti; tra i manager disponibili ci sarebbero Steven Gerrard, Scott Parker e Sean Dyche, ma nessuno possiede l’appeal e forse anche le doti necessarie per svolgere il lavoro di ct dell’Inghilterra, almeno in questo momento.

Certo, quello dell’Inghilterra è davvero un caso limite: da anni, ormai, il coaching del Regno Unito vive una profondissima crisi strutturale, al punto che la Premier League moderna non è mai stata vinta da un manager di nazionalità inglese, al punto che l’ultimo britannico a riuscire in questa impresa è stato Alex Ferguson, uno scozzese, dieci anni fa. Proprio per questo, forse, i dirigenti federali avrebbero potuto (dovuto?) guardare all’estero. A un tecnico straniero. Dopotutto è già successo: se restiamo nell’era contemporanea, cioè negli ultimi venticinque anni, scopriamo che quella inglese è stata una delle due rappresentative d’élite, l’altra è il Belgio di Roberto Martínez, a essere guidata da uno o più commissari tecnici non autoctoni – nella fattispecie si è trattato dello svedese Eriksson (2001-2006) e dell’italiano Capello (2007-2012). E invece niente, è stata confermata questa tradizione per cui il commissario tecnico di una grande Nazionale europea o sudamericana debba necessariamente essere indigeno, e non c’è possibilità di variazione sul tema. Lo dice la storia: l’unico ct straniero ad aver vinto un’edizione dei Mondiali o degli Europei è Otto Rehhagel, un tedesco sulla panchina della Grecia – non proprio una Nazionale di primo livello – campione nel 2004; per quanto riguarda la Coppa America, negli ultimi sessant’anni gli ultimi successi di ct stranieri sono quelli del brasiliano Danilo e degli argentini Sampaoli e Pizzi, allenatori campioni alla guida della Bolivia (1963) e del Cile (2015 e 2016). Anche in questi casi, è evidente, non si trattava di squadre storicamente favorite per la vittoria finale del torneo.

Ovviamente questa resistenza ai ct stranieri va raccontata e valutata a seconda della prospettiva. Per l’Africa, ad esempio, la situazione è esattamente contraria, opposta, ribaltata, e quindi il fatto che le cinque Nazionali qualificate a Qatar 2022 siano state guidate da cinque ct indigeni è stato ed è un segnale importantissimo, anche perché è la prima volta che succede nella storia dei Mondiali: «Stiamo vivendo un momento storico per il nostro movimento», hanno scritto i dirigenti della CAF, la confederazione africana. «Questa Coppa del Mondo rappresenta un passo enorme per la crescita dei nostri allenatori, che hanno avuto il coraggio di subentrare ai massimi livelli». Lo stesso discorso vale anche per l’Asia: il ct del Giappone Hajime Moriyasu è solo il quarto allenatore asiatico – dopo Okada (Giappone 2010), Huh Jung-moo (Sud Korea 2010) e Nishino (Giappone 2018) – a guidare una Nazionale del continente oltre la prima fase dai tempi della Corea del Nord in Inghilterra, nel 1966.

L’austriaco Ernst Happel è stato il commissario tecnico ad aver raggiunto il miglior risultato di sempre ai Mondiali guidando una Nazionale diversa dalla sua: nel 1978 ha condotto i Paesi Bassi fino alla finale persa contro l’Argentina (Bert Verhoeff für Anefo)

Il focus, però, va inevitabilmente spostato su Europa e Sudamerica, sui due territori più importanti del calcio globalizzato della nostra era: per quanto il gap economico renda inevitabilmente eurocentrico il flusso dei capitali, l’ibridazione della forza lavoro – i giocatori, gli allenatori – e dei metodi di preparazione, così come quella mediatica e culturale, è sempre più accentuata. Insomma, oggi è a dir poco ingenuo parlare di un sistema-calcio solo europeo, solo inglese o tedesco o italiano, visto che i club di tutti i campionati si riforniscono di talenti europei e sudamericani, che diversi tecnici del Vecchio Continente sono emigrati in Sudamerica – tre delle ultime cinque edizioni di Libertadores sono state vinte da un allenatore europeo. In questo mondo senza confini, o con dei confini sempre più sfumati, sempre più labili, non sarebbe così assurdo pensare che l’Inghilterra o la Germania possano essere guidate da allenatori di altri Paesi. O che il Brasile decida di affidarsi a un tecnico europeo.

Proprio quest’ultima ipotesi – di certo capitalistica e quindi anti-romantica, ma anche molto suggestiva – è quella che sta rimbalzando di più negli ultimi giorni: l’addio di Tite alla Seleçao ha acceso il dibattito interno e globale sulla sua successione, e dal Brasile sono arrivate delle voci per cui la Federazione starebbe valutando di contattare Guardiola, Ancelotti, Mourinho. Al di là della veridicità o meno di queste indiscrezioni, il semplice fatto che se ne stia parlando – anche se qui il Guardian scrive di un primo approccio già tentato con Ancelotti – è una notizia importante, soprattutto se consideriamo che il Brasile non nomina un allenatore straniero da quasi sessant’anni: l’ultimo è stato un argentino, Filpo Núñez, responsabile della squadra per una sola partita nel 1965; l’unico ct non sudamericano nella storia della Seleçao è stato il portoghese Joreca, co-allenatore per alcune gare giocate nel 1944 – solo che Joreca era un giornalista-calciatore-allenatore che ha vissuto la maggior parte della sua vita e della sua carriera in Brasile.

Interrogati su questa possibilità, Cafu e Rivaldo – due degli uomini-simbolo dell’ultima Seleçao capace di vincere il titolo Mondiale, vent’anni fa – si sono espressi in maniera netta, hanno parlato di «mancanza di rispetto verso gli allenatori brasiliani» e di una profonda convinzione per cui «la nostra Nazionale deve essere guidata da qualcuno che abbia sangue brasiliano nelle vene». In effetti quello relativo all’appartenenza è un aspetto significativo, non a caso diversi articoli accademici – tra cui quelli di Paul Gomberg e Nicholas Dixon – hanno dimostrato che un atleta può avere un rendimento maggiore quando sente di essere emotivamente coinvolto in una partita tra rappresentative, quindi in una gara sportiva caratterizzata da una sfida tra identità geografiche e culturali differenti. Allo stesso modo, si potrebbe considerare che un’eventuale barriera linguistica e il poco tempo a disposizione di un commissario tecnico potrebbero essere degli ostacoli più facili da superare per chi condivide le stesse radici, lo stesso orgoglio nazionale dei suoi giocatori, qualsiasi cosa voglia dire. E poi, in ultimo, si porrebbe il dilemma di un’eventuale sfida contro il proprio Paese d’origine: cosa farebbero Ancelotti o Mourinho durante l’esecuzione degli inni nazionali prima di Brasile-Italia o di Brasile-Portogallo? Di certo resterebbero iper-professionali e quindi impassibili, ci mancherebbe altro, ma cosa proverebbero? Ma soprattutto: i tifosi di calcio, per loro natura malati di vittimismo e complottismo, come giudicherebbero ogni loro emozione manifesta? E come si porrebbero in caso di sconfitta?

D’altra parte, però, aprire ai ct stranieri potrebbe portare diversi giovamenti. Intanto i giocatori avrebbero la possibilità di lavorare con degli allenatori che conoscono già, con cui magari si sono già incrociati a livello di club: pensiamo per un attimo all’accoglienza che i brasiliani passati per il Real Madrid riserverebbero a Zidane o ad Ancelotti, oppure al rapporto tra i calciatori inglesi del Chelsea e Thomas Tuchel, a come potrebbero integrarsi nella Nazionale dei Tre Leoni. Inoltre si potrebbero coltivare delle ibridazioni tecnico-tattiche affascinanti se non visionarie, per esempio l’esportazione del Gegenpressing tedesco in Argentina o in Uruguay, il cocktail tra il futebol bailado del Brasile e il Tiqui-Taca. Infine anche il mercato degli allenatori conoscerebbe un nuovo impulso: da anni, ormai, guidare una Nazionale è diventata un’opzione di ripiego, non è più il coronamento di una grande carriera nel calcio di club. Ma se Zidane avesse l’opportunità di guidare la Germania, l’Inghilterra e il Brasile, non solo la Francia, forse le cose cambierebbero: Zizou potrebbe avere più opzioni per tornare ad allenare, dei nuovi tecnici potrebbero emergere al suo posto nel circolo ristrettissimo dei top club. Insomma, si creerebbero nuove sinergie e nuovi spazi. E si scriverebbero anche delle nuove storie sicuramente più interessanti rispetto ai prossimi due anni con il solito Southgate sulla panchina dell’Inghilterra, con il solito allenatore brasiliano sulla panchina del Brasile. Per esempio: pensate a cosa succederebbe con Pep Guardiola ct dell’Italia ai Mondiali nordamericani 2026, oppure – ancora meglio – a Spagna-Portogallo 2030. E poi pensate a un’eventuale finale contro il Brasile di Ancelotti, o addirittura contro l’Inghilterra di Mourinho. Non c’è molto altro da aggiungere.