Lo sport sarà il primo territorio in cui il vero, il verosimile, il virtuale non si distingueranno più. Sta già accadendo, in realtà. Il gaming influenza le scelte tecniche; i dati sono mezzo e fine della performance sia atletica, sia di business; il linguaggio digitale cambia l’auto-racconto di atleti, club, leghe; blockchain e crypto sono la base del nuovo fan engagement; la virtualizzazione delle immagini è lo stile visivo che alimenta la fruizione televisiva dei match. Gli incastri sono pressoché infiniti, perché tutto si mescola con tutto in una specie di diagramma che sposta i suoi confini sempre più in là, integrando ciò che poco prima non c’era. L’evoluzione è in corso, nata dal basso, poi compresa dall’alto, infine governata da tutti. Perché è naturale e coerente con la trasformazione dello sport nello specchio di molte altre cose: gli stili di vita, i modelli di business, l’intrattenimento, gli scambi con moda, arte, design, architettura.
La base di tutto è il pubblico che è motore del cambiamento. Fabio Capello, che oltre ad allenare ha studiato da manager aziendale ed è appassionato di evoluzioni di mercato, ha messo insieme la doppia competenza per scrivere una cosa molto interessante nella prefazione del libro Sport, intrattenimento e digitalizzazione – L’enter(sport)ainment come nuovo modello di business di Paolo Carito con Agostino Piacquadio (Franco Angeli editore). Sostiene Capello che nel corso degli ultimi quindici o al massimo venti anni il ruolo dei fan o dei semplici appassionati è completamente cambiato. In precedenza, il tifoso era l’ultimo in ordine di importanza nella catena di produzione del valore economico di un club calcistico. Nello specifico la società sportiva puntava tutto sulle performance, ovvero concentrava le sue risorse per allestire una squadra importante e competitiva per raggiungere determinati risultati sportivi. Il tifoso che seguiva la squadra gioiva o meno a seconda dell’andamento sportivo. Era dunque un soggetto passivo al quale venivano rivolte le politiche e le attività del club: campagne abbonamenti, attività di ticketing, merchandising e hospitality. I fan subivano queste strategie e si posizionavano al fondo della catena di produzione del valore.
Oggi le cose sono cambiate. I tifosi sono sempre più utenti al centro delle strategie commerciali di un club. Si sentono protagonisti in modo diretto delle fortune di una società. Basti pensare ai feedback che lasciano sui social network o alle reazioni che hanno per le notizie di calciomercato. A questo negli ultimi due anni si sono aggiunte le attività che possono fare grazie alle piattaforme di fan engagement che sono partner di club, delle leghe, delle federazioni. La piattaforma sponsorizza il club che mette a disposizione dei fan che comprano token esperienze uniche con calciatori, tecnici e tutto il resto. Socios è la più grande e quella che più ha innovato il rapporto tra i tifosi e i protagonisti dello showbiz sportivo.
Non è soltanto la trasformazione tecnologica ad alimentare tutto questo. È una questione che ha a che fare più con la cultura, con le abitudini, con le passioni che si sono sovrapposte nel corso del tempo. L’alfa di tutto questo è stato il gaming e la sua trasformazione da gioco a intrattenimento: l’evoluzione dei grandi giochi di successo planetario come Fifa o Pes si è prima sviluppata parallelamente ai Football Manager per poi trovare una forma di integrazione che ha costruito generazioni di appassionati di calcio reale che hanno trovato sfogo della loro passione nell’essere parte integrante delle scelte del gioco e dunque del successo o dell’insuccesso. Nel frattempo i programmatori sviluppavano forme di visualizzazione iperrealistica che ha alimentato la sovrapposizione tra realtà e virtuale, fino a far vivere in maniera quasi indistinta il campione fisico con il campione mediato. Lo stesso dicasi per i dati: performance e caratteristiche di gioco che si aggiornano coerentemente con progressi della crescita atletico-tecnica dei calciatori veri hanno portato a una identificazione tra il reale e il virtuale che porta i gamer a seguire il gioco vero in funzione di quello videogiocato. Il risultato estremo è che anche tattiche e stili di gioco del calcio di base, quello dei ragazzini, sono influenzati sempre di più dai videogiochi.
La digitalizzazione delle modalità di allenamento è un altro capitolo della dematerializzazione dello sport. La wearable tech che misura ogni dato possibile sulla performance, nel calcio come in ogni altro sport, è uno strumento che grazie alla digitalizzazione diventa funzionale allo sviluppo del gioco e dello sport stesso: sappiamo di più e dunque ne godiamo di più. Il che si ritrova nell’ultimo capitolo di questa storia: quello dei media. Le tv hanno immagazzinato l’esperienza della virtualizzazione integrando Augmented reality e trasformando l’esperienza di visione in un ibrido, i social sono second screen che spesso diventano first e introducono variabili collegate agli umori del pubblico, degli utenti, dei tifosi grazie alla loro immediatezza. Gli stadi cominciano a integrare schermi dietro i sedili dei posti a sedere: interattivi e digitali servono ad aumentare l’esperienza virtuale del match che si sta giocando realmente in quell’arena.
Gli sportsbrand completano il cerchio: rendono tutto questo parte integrante del processo di consumo del prodotto fisico trasformando tutto in un contenuto che integra e moltiplica i linguaggi. Ultima la campagna Footballverse di Nike, diffusa prima dei Mondiali in Qatar, che è il condensato di tutto: vero, verosimile, virtuale, ricostruito, metaversizzato vivono nello stesso ambiente e nello stesso video che ripercorre la storia di Nike e dei suoi ambassador che si alternano in ambienti digitali e reali, in una sovrapposizione di tutto che porta lo spettatore in un luogo che non sa se è mai esistito, se esiste e se esisterà, senza che questo sia un limite. Anzi.