Il metodo Arteta

Come ha fatto il tecnico spagnolo a trasformare un ambiente depresso nel calcio più efficace e divertente della Premier League.

Nel dicembre del 2019, nel corso della sua prima conferenza stampa da tecnico dell’Arsenal, Mikel Arteta pone particolare enfasi su quelli che lui definisce “semplici concetti” che, negli anni a venire, dovranno diventare imprescindibili linee-guida quotidiane, nel nord di Londra. Dettare le regole, fin da subito, può aiutare molto nel farle rispettare. Un dettaglio questo, non di poco conto, visto anche l’alto tasso di emotività e passionalità che assedia l’ambiente red and white che, all’epoca, sembrava afflitto da un mood di inarrestabile decadenza. La guida di Arteta pareva così, nella non felice contingenza, un buon deterrente per ottenere determinati risultati, già nel breve termine. «Non voglio persone che si nascondono. Voglio che ognuno si prenda le proprie responsabilità, dentro e fuori dal campo. Chi non è pronto a farlo, semplicemente, non è valido abbastanza per questo club».

Nessuna squadra ad oggi in Europa, fatta eccezione per il Napoli, gioca in modo tanto avvolgente ed esteticamente appagante. Grazie ad una rosa ben allenata, composta da calciatori che trasudano esuberanza da ogni fibra muscolare (l’età media più bassa della Premier aiuta sotto questo punto di vista), i Gunners stanno continuando a stupire, per continuità e qualità delle prestazioni, nel campionato più competitivo del mondo. Centrocampisti, mezze punte, laterali offensivi dalla tecnica raffinatissima, difensori e terzini abili in fase di costruzione e possesso. Gioco fatto di tagli ed inserimenti, di verticalità e scambi rapidi, che richiamano una versione moderna del juego de posición tanto caro a Guardiola. La retorica del gruppo alla base dei successi, in casi come questi, è superata dalla sostanza.

Il metodo Arteta però, passa anche, forse soprattutto, dalla capacità di lavorare sulla mentalità e la cultura del club. Concetti dai contorni non sempre facilmente definibili, che costituiscono, però, la differenza più marcata tra l’Arsenal di oggi e quello dell’ultimo decennio. In una recente intervista a Sky Sports UK, il centrocampista spagnolo Cesc Fàbregas ha fornito la propria chiave di lettura sulla stagione della squadra londinese, individuando proprio nel cambio di mentalità la chiave della straordinaria prima parte di stagione. «Ho avuto la fortuna di tornare al campo d’allenamento, dopo qualche anno, e mi è sembrato di non esserci mai stato prima. Arteta ha totalmente rivoluzionato l’ambiente». La voglia di non accontentarsi, la volontà di aggredire ogni partita come fosse quella decisiva, passa, secondo il numero 4 del Como, anche da un lavoro di stampo quasi pedagogico sull’identità del club realizzato, con cura, negli ultimi anni, dallo staff tecnico. «All’ingresso del campo di allenamento, c’è il simbolo della Premier League, senza il trofeo. Vuoto. Evidentemente il messaggio lanciato e recepito dal gruppo è stato quello di dover lavorare sodo per arrivare a vincere».

Sulla stessa lunghezza d’onda Jack Wilshere. Uno dei fan favourite per eccellenza dei Gunners, per il suo temperamento ed il suo potenziale, mai pienamente realizzato, nella sua prima intervista da allenatore dell’Under 18 dell’Arsenal, il 31enne inglese ha descritto Arteta come “the one who truly inspired me to coach”. «Non ho mai visto nessuno come Mikel», e sentirlo dire da chi, nel corso della sua carriera, è stato allenato da Arsène Wenger, fa, chiaramente, un certo effetto.

Qualcuno, malignamente, racconta che Pep Guardiola, talmente annoiato della supremazia che aveva imposto sulla Premier League, abbia deciso di plasmare a sua immagine e somiglianza la sua nemesi: una sorta di mostruoso “doppio” o sosia, capace di trasformarsi nel peggior nemico del proprio creatore. In fondo, c’è sempre bisogno di un Moby Dick per Achaab, di un Joker per Batman, di un Golem per il rabbino Löw o di un Moriarty per Sherlock Holmes.

Il metodo Arteta, che ad oggi continua ad impressionare per sicurezza statuaria e inscalfibile consapevolezza quando viene interrogato sul suo lavoro, non è limitato, però, ad un costante studio, ricerca ed analisi (nelle ultime ore è circolato in rete il simpatico aneddoto, raccontato da Adani, che vuole il tecnico basco cercare De Zerbi per un confronto riguardo a delle questioni tattiche). Il successo passa anche attraverso scelte impopolari e coraggiose, in grado poi di influenzare direttamente anche il lavoro sul campo. Chi altro avrebbe fatto partire Aubameyang (in prestito al Barcellona), Özil (a titolo definitivo al Fenerbahçe) e Lacazette (mandato in scadenza di contratto) nel peggior momento recente della storia dell’Arsenal?

L’idea alla base, anche nei primissimi mesi di gestione, è sempre stata quella di cercare di anteporre a giocatori blasonati nomi funzionali al collettivo. Scelte che hanno contribuito, come racconta magistralmente Jonathan Liew sul The Guardian, alla trasformazione dell’Emirates Stadium, in passato soprannominato The Library, in una struttura quanto mai ostile per gli avversari, dove si respira un’atmosfera di “spavalderia ed arroganza”, dove è di pubblico dominio la consapevolezza che giocando in una certa maniera, il gol, in una maniera o nell’altra, arriverà.

Rio Ferdinand, da anni discreto opinionista, in una lunga intervista a Guardiola (che in Gran Bretagna ha invaso il feed dei profili dei principali social network per settimane) ha avuto il coraggio di descrivere Arteta come una sorta di Frankenstein, nell’accezione più positiva del termine, creato da Pep stesso. «Lo era già prima di lavorare con me», ha risposto freddamente il tecnico dei Citizens, mentore del basco, ex Everton.

Dalla fine della scorsa stagione, sempre con immancabile orgoglio ed entusiasmo, i tifosi dell’Arsenal cantano un simpatico coro che descrive alla perfezione il particolare momento storico della società. I primi versi, non casualmente, sono dedicati a Mikel Arteta, perché, in fondo, proprio riprendendo le parole dei tifosi, “He knows exactly what we need”.