Il portiere della Real Sociedad ha iniziato a tenere una rubrica sulla rivista Panenka

Álex Remiro parla di sé, delle sue emozioni, di come vive e interpreta il suo ruolo: una lettura consigliata.

Álex Remiro compirà 28 anni tra poche settimane, è il portiere della Real Sociedad che affronterà la Roma negli ottavi di finale di Europa League ed è uno dei tantissimi giocatori sviluppati da un settore giovanile tra i più fertili al mondo, quello dell’Athletic Club. Da oggi, però, Álex Remiro è anche altro: si potrebbe dire che sia diventato un giornalista oppure un blogger, visto che ha inaugurato una sua rubrica su un giornale sportivo – si tratta di Panenka, magazine spagnolo digitale e di carta. Ecco, quest’ultimo punto è davvero interessante, non fosse altro perché l’operazione ideata e avviata da Panenka ha pochissimi precedenti nella storia del calcio. È il sottotitolo del primo articolo, a dirlo: «Non è molto comune, per un calciatore professionista che è ancora in attività, pensare di potersi esprimere su un media».

Se guardiamo al calcio europeo, moderno e contemporaneo, un esperimento simile è stato quello tentato e portato avanti, insieme, da Liam Rosenior e dal Guardian: nel 2017, quando era ancora un difensore di Premier League, tesserato nel Brighton, Rosenior iniziò a scrivere di calcio. Non solo inglese: uno dei suoi articoli fu incentrato su Daniele De Rossi, su quella volta che l’ex centrocampista della Roma e della Nazionale rifiutò di entrare in campo perché, secondo lui, sarebbe servito un altro tipo di sostituzione – nel caso di specie, si trattava di Lorenzo Insigne. Purtroppo qui in Italia quel caso lo ricordiamo tutti molto bene: avvenne durante il ritorno dello spareggio tra gli Azzurri, guidati da Ventura, e la Svezia, insomma era la notte che estromise la Nazionale dai Mondiali di Russia 2018.

Proprio in virtù dei precedenti prossimi allo zero, quella avviata da Panenka e da Remiro è un’operazione innovativa. E anche piuttosto significativa, non solo dal punto di vista editoriale. Per rendersene conto, basta leggere il primo articolo e pesarne il contenuto: Remiro, infatti, esordisce dicendo che è seguito da uno psicologo «da circa otto anni: si tratta di Mar Rovira, ex giocatrice di basket che oggi si dedica al servizio degli atleti d’élite. Devo confessare che, quando le ho parlato per la prima volta, non ho capito bene come potesse aiutarmi. Ero da poco arrivato al Levante, la mia prima tappa dopo il percorso giovanile con l’Athletic, e non è che mi stessi divertendo molto: dopo quattro prestazioni non proprio esaltanti, mi misero in panchina. Ho dato la colpa del mio fallimento alla decisione di andare in quel club, ma erano tutte scuse per non ammettere che non ero concentrato. Fu allora che uno dei miei agenti mi parlò della possibilità di lavorare con uno psicologo».

Proprio pochi giorni fa, un altro calciatore spagnolo – Ferran Torres del Barcellona, ex Manchester City – ha fatto più o meno le stesse dichiarazioni nel corso di un incontro con la stampa. E, un paio di anni fa, anche Álvaro Morata rilasciò un’intervista in cui aveva raccontato il disagio vissuto al momento del suo passaggio al Chelsea e il percorso fatto, sempre con l’aiuto di un professionista del settore, per riprendersi.  Insomma, è evidente che da quelle parti il benessere mentale dei calciatori è un argomento di cui si parla in maniera più frequente rispetto all’Italia, rispetto ad altri Paesi europei. Ed è sicuramente un bene, perché discuterne in qualche modo serve a cancellare – o quantomeno ad affievolire –  i pregiudizi, lo stigma, la vergogna di chi si sente sotto pressione e poi anche giudicato per la sua scelta di affidarsi a uno psicologo.

Ma Remiro non parla solo di questo. O meglio: parte da questo aspetto per raccontare come ha imparato a gestire la sua emotività, come il suo processo di maturazione l’ha reso un calciatore e un portiere migliore. Una parte interessante del suo articolo è quando descrive il suo modo di reagire ai risultati che ottiene in campo e all’andamento altalenante delle sue prestazioni: «Il fatto che giochi in una squadra di primo livello mi rende poco impegnato durante le partite, nel senso che devo fronteggiare pochi tiri. Allo stesso tempo, però, si tratta di una condizione difficile: si tratta quasi sempre di azioni molto pericolose, potenzialmente decisive. Così ho dovuto imparare a non sentirmi abbattuto dopo gli errori, ma anche a non esaltarmi troppo: penso sempre meno ai fallimenti o alle buone prestazioni. Non mi martirizzo per l’errore commesso, né mi godo il successo».

Insomma, si tratta di una lettura consigliata. Ci sono anche dei passaggi sulla tecnica, ce ne sono altri più personali ed emotivi, per esempio quello sul rapporto con il pubblico e quello sui duelli con gli attaccanti. Remiro e Panenka hanno trovato un modo coraggioso per fare una cosa che, nel calcio e nello sport contemporaneo, è percepita come una specie di utopia: ridurre, fino quasi a cancellarle, le distanze tra gli atleti e il pubblico, dimostrare che i protagonisti del gioco sono uomini a tutti gli effetti, non certo degli esseri irraggiungibili o dotati di superpoteri. E poi, come detto, parlare di certi temi è un tentativo per sensibilizzare l’opinione pubblica, per scardinare dei modi di pensare che dovrebbero appartenere al passato e invece si manifestano ancora oggi, purtroppo.