Quanto è profonda la crisi degli attaccanti italiani?

Mancini ha lamentato la mancanza di un centravanti per la sua Nazionale. Ma si tratta di un problema storico del nostro movimento, e che oggi riguarda tutto il calcio europeo.

Se una settimana fa erano in pochi a sapere chi fosse Mateo Retegui detto El Chapita, oggi non c’è un solo tifoso italiano che non sia curioso di vederlo giocare con la Nazionale di Mancini. Qualcuno forse si è già messo all’opera per seguire le partite del Tigre in piena notte, probabilmente incuriosito dagli articoli che hanno iniziato a circolare su questo attaccante argentino di 23 anni, nato a San Fernando in una famiglia che ama l’hockey su prato: non proprio l’identikit più comune per uno che dovrebbe raccogliere l’eredità storica dei nueve argentini, i centravanti che nella versione di Federico Buffa sono una delle due cose che non può mai mancare dalle parti di Buenos Aires – l’altra è la parrilla. I numeri promettono bene, Retegui è in cima alla classifica marcatori della Liga Profesional da un annetto: nel 2022 ha fatto 19 gol – con sei rigori – e quest’anno è già a quota sei. Il nonno materno di Retegui è originario di Canicattì, e allora Roberto Mancini non poteva farsi sfuggire l’occasione di offrire un giro in azzurro a uno con certi numeri, specie perché il ct dell’Italia non ha ancora un centravanti per il presente e per il futuro. Anzi, forse è anche peggio di così: «I nostri attaccanti centrali, quasi tutti, hanno giocato pochissimo negli ultimi mesi. Non ne abbiamo uno che sia titolare, fatta eccezione per Gnonto. Ma per il resto siamo messi male: Scamacca è reduce da un infortunio, Ciro [Immobile] si è fatto male, Belotti gioca poco», ha detto Mancini in un’intervista di qualche giorno fa. 

Da quando è diventato commissario tecnico dell’Italia, Roberto Mancini sembra usare le convocazioni anche in maniera politica, facendo scelte coraggiose e a volte anche impopolari. Dalla chiamata di Zaniolo – quando aveva giocato zero partite da professionista – fino all’esordio del giovanissimo Pafundi, Mancini non si limita a selezionare i giocatori per costruire la formazione migliore: ogni volta che può, il ct sembra mandare un messaggio all’Italia – intesa come movimento calcistico, non come squadra nazionale – per dire che ci sono troppi pochi giocatori nel bacino dei convocabili. Oltre a Retegui, tra i 69 pre-allertati c’è anche Andrea Compagno, attaccante classe 1996 che gioca in Romania ed è il capocannoniere del campionato locale, ma che difficilmente sarà la punta titolare dell’Italia ai prossimi Europei – a meno che non succedano cose davvero clamorose. È un altro segnale eloquente: al momento non c’è un vero attaccante italiano che dia le giuste garanzie a una Nazionale che è chiamata a difendere il titolo di campione d’Europa.

Le convocazioni di Retegui e Compagno hanno fatto piovere una cascata di editoriali sulla fine della scuola degli attaccanti italiani: una continuazione di quel racconto ormai secolare secondo cui il nostro movimento calcistico è in fase di prosciugamento e non riesce a produrre giovani, discorsi che poi si mescolano con teorie simil-sovraniste sull’eccesso di giocatori stranieri in Serie A e altre amenità. E poi ci sono quei paragoni ingestibili con i grandi talenti delle generazioni precedenti, con la qualità e lo status di Vialli e Del Piero, Baggio e Totti, Nesta e Cannavaro, Buffon, Pirlo e così via, calciatori dall’appeal internazionale forse ineguagliabile. Il confronto con gli altri Paesi, in realtà, offre una prospettiva diversa: le distanze sono meno ampie di quello che sembra, se pensiamo che un’indagine del CIES di giugno 2022 – non molto tempo fa, dunque – aveva individuato sei italiani tra i 100 calciatori con il valore del cartellino più alto al mondo. Si trattava di Barella, Locatelli, Bastoni, Tonali, Chiesa e Pellegrini, tutti sotto i 25 anni d’età. E se l’Inghilterra ha 18 giocatori in questa shortlist, Francia (8), Spagna (7) e Germania (6) sono in linea con l’Italia.

Certo, va detto e sottolineato che non ci sono centravanti tra i sei giocatori individuati dal CIES. E in fondo anche l’Italia campione d’Europa nel 2021 sembrava avere il punto debole proprio in quello slot, visto che il contributo di Immobile era stato, come dire, intermittente. Il paradosso di questa vicenda è che questo non sembra un problema del tutto nuovo o recente, per il nostro movimento. E non c’è bisogno di andare a ripescare il record di Gigi Riva, i 35 gol in Azzurro ancora insuperati anche se apparentemente non insuperabili: anche nell’ultima Italia vincente prima del ciclo di Mancini, ovviamente parliamo di quella campione ai Mondiali 2006, l’attacco era composto da Toni e Gilardino, tre gol totali nell’avventura tedesca, più il contributo – ridotto ai minimi termini, in verità – di Filippo Inzaghi. Allora il primo errore è puramente semantico, perché in realtà non si può parlare davvero di una scuola italiana degli attaccanti che si è inceppata. Una scuola, infatti, dovrebbe essere in grado di produrre risultati – in questo caso attaccanti affidabili – negli anni, generazione dopo generazione. Solo che l’Italia, come detto, fa fatica a produrne da tempo: chi appartiene alla Generazione Z non ha mai visto in Azzurro un attaccante all’altezza dei giocatori che reggevano gli altri reparti.

Un bias che nasce forse nel periodo della Golden Age del nostro calcio, in quel periodo tra la fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila in cui l’Italia poteva scegliere Vieri, Inzaghi, Montella – che però più spesso erano affiancati da quelli che abbiamo chiamato per anni 9 e mezzo, quindi Baggio, Del Piero, Chiesa, Totti. È vero che questi attaccanti fortissimi non hanno avuto in Nazionale il rendimento visto nei club, ma è un’epoca di intersezione tra due generazioni di attaccanti fortissimi, dominanti a livello italiano, europeo e mondiale. Prima e dopo di loro, però, raramente c’è stata un’abbondanza simile, o quantomeno non a quel livello: il Pallone d’Oro di Baggio è ineguagliabile, ma anche la coabitazione di Totti e Del Piero, o quella di Vieri e Inzaghi, è pressoché introvabile nella storia del nostro calcio. Basta riannodare il nastro della storia recente: dopo Riva, che ha smesso di giocare alla metà degli Anni Settanta, solo Paolo Rossi e Totò Schillaci hanno vissuto dei grandi exploit in maglia azzurra. E per trovare un grande cannoniere prima di Riva, sempre guardando alla Nazionale, bisogna andare agli anni Trenta del secolo scorso. A Schiavio, Piola e a Meazza, che non era proprio un centravanti. 

Alessandro Del Piero, classe 1974 e 27 gol con la Nazionale: è il più giovane nella top 10 dei migliori marcatori in maglia azzurra, seguito da Christian Vieri e Filippo Inzaghi (Shaun Botterill/Staff)

L’anno scorso la Serie A sembrava una lega in grado promettere qualcosa di diverso, con Pinamonti, Scamacca e Raspadori tutti in doppia cifra per gol segnati, tutti giovani e perciò tutti destinati al trasferimento in una squadra migliore. Poi questa stagione sembra aver già ridimensionato tutto: nella classifica marcatori della Serie A 2022/23 l’italiano meglio posizionato è Immobile, sesto a quota nove centri dopo anni vissuti a suon di gol, con una media realizzativa aliena. Alle sue spalle c’è Zaccagni, che gioca nella stessa squadra di Immobile e in realtà sarebbe un esterno, più dietro ecco Orsolini (sei), Frattesi (sei), Kean (cinque) e Barella (cinque). Tra questi, Kean è l’unico attaccante puro, per quanto atipico. E non è che abbia incantato.

In questi numeri molto scarsi si possono leggere, e quindi anche capire, le motivazioni che sostengono le parole di Mancini, le sue preoccupazioni sull’assenza di un centravanti da Nazionale.  Solo che certi numeri si leggono anche in Premier League, ormai campionato di riferimento per ogni cosa: Haaland è a quota 28 gol, poi ci sono Kane a quota 20, Toney (Brentford) a 15 e Rashford (Manchester United) a 14 gol; poi Mitrovic (Fulham), Salah e Gabriel Martinelli (Arsenal) a quota 11; dietro di loro, in doppia cifra ci sono solo Almirón (Newcastle), Rodrigo (Leeds) e Saka (Arsenal). Molti di loro non sono proprio dei centravanti puri, hanno un dna diverso, sono seconde punte o anche laterali offensivi. Come se non bastasse, agli ultimi Mondiali abbiamo visto che Germania e Spagna non vivono stagioni molto migliori dell’Italia: i tedeschi hanno dovuto chiamare Niclas Füllkrug per poter schierare un centravanti di ruolo, la Spagna l’ha cercato – per l’ultima volta? – in Morata senza troppo successo. La Francia, invece, ha ancora in Benzema e Giroud i suoi due migliori attaccanti centrali – volendo considerare Mbappè un’altra cosa – ed entrambi sono parecchio in là con gli anni. Non è un problema solo italiano, insomma. L’abbiamo visto anche in Champions Leage: Paris Saint-Germain, Bayern Monaco, Chelsea e anche il Manchester United, in Europa League, non hanno dei numeri 9 su cui poggiare il proprio gioco, non hanno attaccanti puri che determinano e generano il sistema della squadra. 

 Il ruolo del centravanti sta attraversando una transizione lunghissima. E non perché «Guardiola ha rovinato il gioco del calcio», frase più sentita negli ultimi 15 anni, ma perché dopo un decennio dominato da attaccanti completissimi, quindi anche fortissimi tecnicamente – Benzema, Lewandowski, Higuaín, Agüero, Suárez – ci si sta spostando verso punte che nell’evoluzione della specie hanno accettato di sacrificare parte di quel bagaglio tecnico per guadagnarne in esplosività, forza fisica, velocità. Attaccanti come Haaland e Osimhen, per capirci. Se l’assenza di centravanti è un problema, è un problema di tutti. L’Italia, insomma, è dentro un trend trasversale, universale, ha solo ingigantito un vuoto che riguarda tutto il calcio europeo. Il nostro movimento calcistico raramente ha prodotto attaccanti dominanti, sarebbe strano paradossale se avessimo iniziato a farlo proprio ora, che la materia prima scarseggia dappertutto.