Al termine di Italia-Ungheria 2-1, una partita che ha avuto un andamento molto più sbilanciato e netto di quanto non dica il risultato finale, in molti hanno alimentato il fuoco del rammarico per quello che poteva essere e non è stato. Come? Con alcune domande del tipo: ma perché Roberto Mancini non ha fatto prima le scelte di cambiamento e di che rottura hanno dato vita a questa nuova Nazionale? Perché il commissario tecnico ha continuato a insistere su certi giocatori e su un certo meccanismo anche quando – diciamo da Italia-Bulgaria 1-1 in poi – si era manifestata una certa usura? Perché l’Italia ha dovuto impantanarsi nella riconoscenza verso un gruppo vincente ma sfibrato, quando avrebbe potuto subito voltare pagina? Sono delle domande legittime, a cui è impossibile dare una risposta. Anche perché, banalmente, non avremo mai la controprova, non sapremo mai se gli inserimenti di Tonali, Pellegrini, Scamacca o Gnonto sarebbero bastati per sconfiggere la Svizzera, l’Irlanda e la Macedonia del Nord.
Ciò che è certo è che Roberto Mancini – forse per gratitudine, forse per eccessiva fiducia – è arrivato allo spareggio del 24 marzo senza seguire le indicazioni che arrivavano dal calcio di club, puntando sul gruppo che aveva vinto gli Europei, ignorando che le assenze di Chiesa e Spinazzola avrebbero dovuto portare la sua Nazionale a giocare in maniera diversa, per vincere. In pratica, il ct ha deciso di rifiutare l’atteggiamento e i principi che l’hanno portato sul tetto d’Europa: il coraggio di sperimentare, di portare e provare cose nuove, giocatori nuovi. Un dato su tutti, per chiarire questo punto: nelle dieci partite di qualificazione agli Europei 2020, poi disputatisi nel 2021 causa pandemia, Mancini ha fatto debuttare dieci giocatori diversi, e altri 14 avevano già esordito nella Nations League e nelle amichevoli prima dell’inizio del girone; nelle nove gare nove gare di qualificazione ai Mondiali 2022, gli unici debuttanti sono stati Tolói (prima degli Europei 2021, tra l’altro), Scamacca e João Pedro.
Quando si parla della Nazionale, soprattutto quando gli Azzurri fanno fatica o perdono una partita, vengono fuori dei costanti confronti con uno spaziotempo diverso, vale a dire con con il passato dell’Italia e con il mondo intorno all’Italia. I termini dei paragoni temporali riguardano – ovviamente – i grandi talenti delle generazioni immediatamente precedenti, la qualità e la riconoscibilità internazionale dei vari Baresi, Mancini, Vialli, Baggio, Del Piero, Nesta, Totti, Cannavaro, Buffon, Pirlo, calciatori dall’appeal internazionale effettivamente più alto rispetto ai leader di oggi. Il confronto geografico si nutre, invece, dell’idea per cui gli altri grandi Paesi europei producano più talenti, e sappiano gestirli e lanciarli meglio. Su questo punto ci sono meno certezze, o comunque le distanze sono meno ampie di quello che sembra: per quanto le valutazioni di mercato non siano – non possano essere – oggettive, l’ultima indagine del CIES ha evidenziato che ci sono sei italiani tra i 100 calciatori al mondo con il valore del cartellino più alto, e si tratta di Barella, Locatelli, Bastoni, Tonali, Chiesa e Pellegrini, tutti sotto i 25 anni d’età. In questa stessa lista, che tra l’altro comprende solo calciatori il cui prezzo stimato di mercato supera i 50 milioni di euro, l’Inghilterra è praticamente inarrivabile (18 giocatori); ma la Francia (8), la Spagna (7) e la Germania (6) non è che siano così distanti dall’Italia.
Tutto questo non significa che le cose vadano bene o benissimo, infatti è evidente che le squadre di Serie A facciano fatica a lanciare talenti locali – solo sei italiani Under 21 hanno accumulato più di 1000 minuti in campo nell’ultima edizione del campionato – e che ci siano alcune lacune nella rosa presente e anche futura della Nazionale italiana, prima tra tutte quella relativa a un grande centravanti su cui fondare la costruzione del gioco offensivo, in attesa di verificare la reale consistenza di Scamacca sulla platea internazionale. I dati del CIES, sostanzialmente confermati anche da Transfermarkt, dicono però che c’è una buona base di talento, o quantomeno delle eccellenze da cui ripartire: oltre a Barella, Locatelli, Bastoni, Tonali, Chiesa e Pellegrini, ci sono anche un portiere di enorme valore (Donnarumma), uno dei centrocampisti più continui e completi d’Europa (Verratti) e poi diversi giocatori nati dopo il 1995 (Zaniolo, Raspadori, Calabria, Udogie, Mancini, Frattesi, Kean), ragazzi che magari non saranno ancora affermati a livello globale, ma su cui si potrebbe costruire una Nazionale fresca, credibile, pure se non immediatamente competitiva per vincere un grande torneo estivo.
Era dalle prime partite dell’Europeo che l’Italia non giocava così bene
Roberto Mancini, prima degli Europei e soprattutto agli Europei 2021, ha già dimostrato di poter essere il commissario tecnico giusto per lavorare in questo modo, per assemblare una squadra dal gioco identitario eppure cucita sulle qualità dei suoi migliori elementi – anche se poi, come detto, ha finito per cristallizzarsi e arenarsi nel suo stesso capolavoro. Ora può e deve farlo di nuovo, solo che dovrà partire da interpreti e quindi da concetti diversi, più sfumati, meno specializzati rispetto a quelli della sua prima Italia: se il futuro binario di destra potrebbe essere simile a quello del passato, vale a dire quello composto da Di Lorenzo (o Calabria) e Barella e Chiesa (o Berardi), a sinistra si potrebbe pensare di giocare con un esterno più verticale rispetto a Insigne, per esempio Zaniolo o Kean o Gnonto, e allora bisognerà creare nuove alchimie con Spinazzola e Verratti; stesso discorso nel cuore del centrocampo, dove il palleggio ad alto ritmo di Jorinho potrebbe alternarsi al dinamismo di Tonali, oppure ai raffinati movimenti tra le linee di Pellegrini, e magari questo favorirà il passaggio al 4-2-3-1; la possibilità di schierare difensori come Mancini e Bastoni potrebbe spingere a disegnare una difesa a tre di stampo ultramoderno, iper-aggressiva, una soluzione che riscriverebbe completamente il software della Nazionale.
Qualsiasi di queste combinazioni non porterebbe di certo l’Italia al livello di Francia e Inghilterra, forse neanche alla pari di Spagna, Germania e Portogallo, e in ogni caso la Nazionale resterebbe lontana dai fasti del trentennio 1980-2010, se consideriamo solo la somma dei vari talenti individuali. Ma c’è anche da dire che il calcio è fatto di cicli e che ricostruire è possibile anche se ci sono macerie: Mancini l’ha già fatto nella prima parte del suo mandato e ha tutti gli elementi per rifarlo ancora. Dopotutto gli Scamacca, i Raspadori, i Tonali e i Pellegrini di oggi non sono così distanti o così diversi da Berardi, Barella e Jorginho del 2018. In attesa di una riforma sistemica come quelle attuate all’estero, e nella speranza che la rinnovata attrattività della Serie A sui mercati possa portare a una crescita corporativa delle squadre italiane, il nostro calcio ha quantomeno ricominciato a produrre diversi giocatori di buona qualità, con misure atletiche e tendenze e attitudini moderne e quindi in grado di interpretare i sistemi tattici della nostra era. Le prestazioni disegnate contro la Germania e contro l’Ungheria e l’enorme distanza con ciò che si è visto in occasione di Italia-Macedonia e Italia-Argentina acuiscono inevitabilmente il rimpianto per la mancata qualificazione ai Mondiali, ma potrebbero anche essere ricordate come i momenti in cui è arrivato l’impulso che serviva per innescare un cambiamento, in cui Mancini si è reso conto che la nuovissima generazione è pronta a raccogliere l’eredità di quella precedente, che l’Italia di oggi non sarà la Nazionale più forte del mondo né tantomeno la più forte della storia azzurra, ma di certo non è così scarsa come vogliamo raccontarci da tempo, che poi questo atteggiamento non è altro che un maldestro tentativo di essere indulgenti con la nostra mancanza di coraggio, per il nostro rapporto difficile con la gioventù, con il talento.